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È così che è nato il bipolarismo all’italiana, e il centro è stato emarginato dalla scena politica.
Oggi che quel bipolarismo appare fallito, si ritorna a parlare di centro. Della necessità di ricostituire qualcosa che non sia né di destra né di sinistra. Lo fanno un po’ tutti. I centristi di sempre, alla Casini. I centristi dell’ultima ora, tipo Fini e Rutelli. I sostenitori di un Monti-bis, che ultimamente spuntano come funghi. I riformisti duri e puri, delusi dal riformismo zoppo di destra e sinistra.
Ma che cosa è il centro oggi?
E’ questa, a mio parere, la domanda che non ha ancora ricevuto una risposta completa e chiara. Non dico che non abbia ricevuto nessuna risposta, perché alcuni valori dei centristi sono nitidamente riconoscibili: competenza, serietà, rispetto per le istituzioni, coesione sociale, volontà di ricostruire. Non è poco, ma solo perché ne abbiamo davvero tanto bisogno dopo esserne stati così tanto privati negli ultimi vent’anni, da tutti i governi della seconda Repubblica. Ma un minimo comun denominatore non fa ancora un programma politico. E anzi, il fatto che sia questo il nucleo, il nocciolo condiviso che unisce i centristi, è un segno di debolezza politica, una conferma – e non un superamento – dello stato di eccezione dell’Italia: solo in un paese in cui manca una vera offerta politica si può pensare che quel minimo comune denominatore di nobili principi sia già un programma, o che basti parlare di «agenda Monti» e di Monti-bis per persuadere gli elettori di possederne uno.
Perché quello del centro riuscisse a diventare un vero programma politico occorrerebbe che i suoi leader completassero la risposta. Va bene il minimo comune denominatore, ma il cuore di un programma politico sono le scelte difficili, le scelte tragiche, come già trent’anni fa ebbero a chiamarle Guido Calabresi e Philip Bobbitt in un celebre libro – Tragic choices – dedicato a «i conflitti che la società deve affrontare nella allocazione di risorse tragicamente scarse». In un’era di risorse decrescenti il punto non è chi vogliamo sostenere, ma è a spese di chi vogliamo farlo. Qui quasi tutti i protagonisti della competizione al centro sono reticenti, evasivi, o dimentichi della propria storia.
Il centro che già c’è, quello dell’Udc di Casini, è stato – almeno in passato – una colonna portante del «partito della spesa pubblica», ha le sue radici elettorali soprattutto in Sicilia e nel resto del Mezzogiorno, possiede una lunga storia di clientele e guai giudiziari. Con il suo leader Pier Ferdinando Casini ha difeso fino all’ultimo un politico come Totò Cuffaro, ora in carcere con una condanna definitiva per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Prima di ascoltare ogni sorta di lodevoli intenzioni per il futuro, ci piacerebbe ascoltare dall’Udc due parole chiare sul proprio passato, e magari sentir pronunciare – oltre al consueto omaggio a Monti – quelle scuse agli elettori che Casini aveva preannunciato in caso di condanna di Cuffaro (Annozero, 31 marzo 2008).
Il centro che ancora non c’è, quello che sta prendendo forma in questi mesi sotto le insegne più varie (cattolici di Todi, Italia Futura, Fermare il declino) è una creatura strana. Per alcuni dei suoi protagonisti la stella polare è il sostegno alle famiglie, per altri sono gli sgravi ai produttori. Due obiettivi che è facile conciliare in un bel discorso, ma che si mettono immediatamente a stridere appena si tratta di decidere la destinazione di qualche miliardo di euro. Ridurre l’Irpef o ridurre l’Irap? Alleggerire le tasse alle famiglie in cui la madre non lavora (il cosiddetto quoziente familiare), o aiutare quella medesima madre a trovar lavoro, riducendo il cuneo fiscale sul lavoro femminile? Usare i soldi di tutti i contribuenti per salvare le amministrazioni in default (ormai diffuse anche al centro-nord), o costringerle a salvarsi da sé, vendendo patrimonio pubblico e tassando i propri cittadini?
Sono solo esempi, ma si potrebbero moltiplicare. Su tutte queste cose il centro tace. E quando prova a rispondere non risponde alla domanda giusta, perché è affetto da «ma-anchismo», il tic per cui prendevamo in giro Veltroni qualche anno fa, ogni volta che proclamava di volere una cosa «ma anche» un’altra, diversa e spesso contraria. Il problema è che, arrivati al punto in cui siamo, le risorse sono così scarse, e lo resteranno così a lungo, che non è più assolutamente possibile sottrarsi alle domande fondamentali. Non possono sottrarsi il Pd di Bersani e il Pdl di Alfano, ma ancor meno possono farlo i leader del centro. E questo per una ragione molto semplice: quello che destra e sinistra potrebbero fare è prevedibile sulla base del passato, e spesso è stato la medesima cosa, ovvero più deficit e più spesa pubblica politicamente redditizia. Mentre quel che potrebbero fare le forze politiche di centro non solo è meno facilmente prevedibile, ma è diversissimo a seconda di chi stiamo parlando. Se per centro intendiamo quelle formazioni che rifiutano sia il (presunto) populismo anti-politico di Grillo, sia le politiche della destra e della sinistra, non possiamo non notare che – dentro quello che oggi è il calderone del centro – convivono visioni opposte, molto più polarizzate di quanto lo siano quelle della destra e della sinistra. A un estremo il moderatismo cattolico, tradizionalmente attratto dalle politiche di sostegno del reddito delle famiglie, all’altro estremo il radicalismo riformista e liberale, che ritiene di poter far dimagrire lo Stato di molti chili (punti di Pil) e in pochi anni. Provate, per credere, a organizzare un dibattito pubblico serio, con domande scomode, fra Pier Ferdinando Casini e un qualsiasi rappresentante dell’Istituto Bruno Leoni, la cittadella dei liberali oscillante fra Italia Futura (Montezemolo) e Fermare il declino (Oscar Giannino). E vedrete che è più facile mettere d’accordo un Pier Luigi Bersani e un Angelino Alfano che un vero cattolico e un vero liberale.
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