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A partire dal sottotitolo, infatti, Alberto Castoldi puntualizza l'ottica attraverso cui vede la modernità: La crisi dei valori nella modernità. E mi sembra quanto mai opportuno sottolineare quel nella modernità: lo sguardo dell'autore non è volto tanto alla caduta obiettiva di valori di ordine universale o più o meno condivisi dal mondo contemporaneo, bensì alla percezione e alla concettualizzazione di un fortissimo senso di smarrimento da parte dell'intellettuale.
Permanenza nelle tenebre e caduta di un periodo di luce si alternano nei copiosi brani che Castoldi ha selezionato per tracciare questa panoramica. Non a caso, mi pare, la formula che meglio si attaglia al discorso portato avanti in Congedi è quella su cui si sofferma anche Max Nordau, il fantomatico fin de siècle francese, come senso della fine, come chiusura di un intero mondo (al futuro?). O ancora, forse sono più incisive le considerazioni di Oswald Spengler riportate da Castoldi (pp. 46-47):
Il tramonto dell'Occidente, fenomeno circoscritto spazialmente e temporalmente come lo fu il tramonto dell'antichità classica, cui esso fa riscontro, è un tema filosofico che, se inteso in tutta la sua serietà, implica ogni maggiore problema dell'essere.
Intorno a questo tema filosofico si snoda un interrogarsi degli intellettuali - e in particolare dei poeti - sulla loro funzione e sul loro posto in una società borghese, che ha preso il posto del rinnovamento radicale delle idee che sarebbe dovuta emergere dagli eventi del secondo Ottocento in Francia. Interessi economici pubblici e privati hanno destituito la rivoluzione francese dell'impatto culturale che avrebbe dovuto avere, per trasformarla in un ribaltamento di forze in campo, con le conseguenze che si trascinano fin oltre la Grande Guerra. Dalle copiose citazioni - e allusioni - (con una prevalenza per Valéry) risulta chiaro che il problema non è, a un certo punto, un'improvvisa caduta della figura del pensatore o del paroliere, da sempre in subordine, quanto la genesi di una coscienza collettiva come classe e un'opportunità mancata di riscatto.
Personalmente, trovo talvolta difficile seguire la galoppata di Castoldi lungo tutta la cultura occidentale degli ultimi due secoli: sia per carenze personali di letture, sia per la sensazione - come sempre in casi simili - che ciascuna tappa ben più di un cambio cavalli. L'elegante disinvoltura con cui l'autore si svincola in un discorso critico articolatissimo meriterebbe approfondimenti ad ogni nodo e presuppone per ognuno di essi un intero universo di pensiero, che immagino, a volte forse indovino, ma non seguo appieno.
Tra gli otto scritti che compongono Congedi non ce n'è uno che guidi il lettore, quale fil rouge, attraverso questo percorso. Mi rendo conto che Alberto Castoldi non vuole teorizzare, nonostante lasci cadere osservazioni intelligenti e parecchio stimolanti per incastonare i singoli nomi e discorsi chiamati in causa. Tuttavia non mi basta: se Congedi propone tutto tranne che un facile moralismo reazionario; se il penultimo di questi saggi, Angeli laici, rielabora alcuni punti del libro in modo molto più che proficuo; e infine, se l'ultimo scritto (Un lungo medioevo?) sembra avviare il lettore verso una sintesi proficua, mi pare che Congedi rimanga una carrellata e non renda giustizia all'Alberto Castoldi che ho sentito e apprezzato per la sua franchezza e la sua disponibilità a mettere in gioco (e in discussione) sé e la sua grande cultura.
Per conoscerlo meglio e altrimenti mi volgerò ad altri volumi forse più esplicitamente "a tesi" (e, per esempio, mi pare che Bibliofollia del 2006 faccia al caso mio). Una seconda possibilità è d'obbligo in questo caso!
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