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Coniglio quasi greco.

Da Melagranata

L’isola.

 

Coniglio quasi greco.

L’aveva notata subito, tra le tre ragazze straniere sul traghetto. L’onda bionda dei suoi capelli, la luce del suo sorriso, il modo buffo in cui arricciava appena il naso,  quando doveva parlare inglese con il personale della nave. Seduta sullo zaino, il vento che strapazzava i capelli e la camicia di garza colorata, rideva eccitata con le due amiche brune che l’accompagnavano. Non era stato difficile attaccare discorso. L’Italia, il football, un lampo bruno nello sguardo: a vent’anni è facile. 
I giorni e le notti erano diventati fiumi di magia e d’incanto: tuffarsi tra le onde, tenendola tra le braccia; scendere a precipizio al vecchio porto sulla caldera, per mangiare il pesce fresco da Kostas, un bicchiere di vino bianco e un bacio, e poi risalire lenti, il profumo di erbe e di sole; cantare a squarciagola sulla vecchia moto fracassona, su per le strade tortuose, fino ad Oia, e restare poi seduti là, mano nella mano, nel silenzio magico del tramonto, a contemplare il cielo farsi rosa e porpora; imboccarla di melanzane e formaggio, una candela sulla tovaglia a quadri, la chitarra e un bicchiere di vino rosso, abbracciarsi stretti, nel letto singolo, e guardare l’arco perfetto delle sue ciglia, il piccolo neo sul labbro. 
Sfiorarle un ricciolo di miele, poi, il nasino che si arriccia appena, il traghetto che sbuffa l’impazienza del distacco; la promessa di parole al telefono e di lettere e ritorni; un bacio e tutto l’amore del mondo; il petto che sembra non poter contenere il dolore dell’assenza.
L’attesa, nella quotidianità tornata quella di prima. Prima di lei e del suo sorriso di luce.
Una telefonata. Una vaga promessa di un domani. Il silenzio di giorni. Poi di settimane.
L’assenza si fa vuoto e desolazione. E paura. La famiglia lo guarda in silenzio, rispetta il dolore, poi si fa preoccupata. Gli amici ridono un poco, dapprima, poi si fanno pensosi. Un biglietto di viaggio, lasciato accanto al piatto, una mattina. Il padre che brusco lo abbraccia, nell’imbarazzo rude degli uomini, non abituati alla tenerezza. Valla a cercare, gli dice.
Il viaggio sul mare sgarbato d’inverno, sferzato da freddo e nostalgia. E un ritorno, dopo lunghi giorni, in un pomeriggio di primavera.  Da solo.
La madre lo guarda avvicinarsi, e vede la disperazione nel passo lento e brusco, e la rabbia nei pugni stretti che reggono la sacca da marinaio, la solitudine tra i capelli bruni e la barba che gli nasconde il viso.
L’indomani non lo trova, nel letto da ragazzo. E al molo manca la piccola barca, su cui all’alba ha caricato la sacca mai disfatta, due formaggi e acqua, un pane, una coperta e il cane che non lo vuol lasciare.
Sull’isola, una roccia scabra e ciuffi di salvia selvatica, negli anni ha portato capre e peperoni, canne da pesca e lampade ad acetilene. L’acqua rugginosa del vecchio vulcano lo circonda e lo protegge: dalla capanna, poi divenuta casa, che le sue mani hanno saputo costruire, vede arrivare turisti rumorosi, barche lucenti e irte di antenne, sente il vociare di donne e musica, irrigidendosi appena, se il parlare è italiano.  
Ha ricominciato a sorridere, tra la barba e un poco anche negli occhi: ma non esce ad incontrare altri che non siano le capre e il vecchio cane, un altro ormai. Si arrampica veloce sulle rocce brulle, va a pesca e zappa il piccolo orto, nelle albe chiare di primavera.  Ogni tanto, salpa verso l’isola grande, la cesta colma di formaggi freschi, attracca al molo del vecchio porto, tenendo lo sguardo basso: nessuno disturba il suo andare brusco: Kostas è vecchio, ormai, e lo guarda, succhiando il sigaro e stringendo gli occhi al sole.
Lui torna veloce alla barca, la sacca da marinaio pesante di provviste; fa un gesto secco con la mano e inclina appena il capo verso il vecchio al sole, che lo guarda allontanarsi, verso l’isola.

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Ho mangiato un coniglio più o meno simile, quest’estate a Santorini, dove mi hanno accennato alla storia dell’eremita di Kameni.
Sia la storia che la ricetta, quindi, sono frutto di immaginazione, pur seguendo, a grandi linee, l’originale. 

Coniglio quasi greco.

Coniglio quasi greco.

1 coniglio nostrano
3 cipolle di Tropea
3 patate
1/2 kg di pomodorini
2 limoni
maggiorana, timo, rosmarino, origano fresco, salvia….

Ho messo il coniglio in acqua fredda acidulata con il succo di un limone (ma se preferite, utilizzate qualche cucchiaio di aceto) e l’ho lasciato in frigo per un paio d’ore. L’ho sciacquato e tagliato in pezzi non troppo grandi.
Sul fondo di una teglia ho versato un filo d’olio e ho diposto uno strato di patate. Ho condito con qualche rametto di erbe aromatiche fresche, poi ho disposto uno strato di cipolle affettate. Ho condito con un filo d’olio e altre erbe, ho disposto i pezzi di coniglio, bagnato con il succo dell’altro limone, disposto un po’ di erbe aromatiche e ho finito con i pomodorini divisi a metà, olio, sale e pepe, rametti di erbe aromatiche.
Ho infornato a 200°, poi ho abbassato subto il forno a 180° e lasciato cuocere per circa due ore.


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