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Uscire dal giogo di questo desiderio malato, di questo amore malato, come oramai abbiamo detto più volte, significa presentificare l'amore, coniugandolo però in un particolare tempo della lingua (non solo italiana) che non è il presente, non è il passato e non è il futuro, bensì... il gerundio.
Il gerundio, infatti, mette in moto il presente: traccia una sorta di linea che sembra partire da quell'altrove che chiamiamo passato e lanciarsi verso quel laggiù che chiamiamo futuro indicandone la direzione.
Il gerundio scavalca l'inesistente presente, prefigurando futuro ma senza dimenticare il passato.
Un tempo, insomma, capace di sfuggire alla minaccia di quel desiderio patologico che abbiamo narrato in questi ultimi post e, invece, in grado di alimentare un desiderio in continuo divenire, un desiderio in progress che bene, mi pare, coincide con questa declinazione.
Non "amare", dunque, ma: "amando", non "desiderare", ma "desiderando"... etc. Questo sembra essere uno dei segreti che permettono all'amore, e all'amore coniugale soprattutto, di sopravvivere nel tempo degli amori alla fine dell'amore: vivere al presente progressivo del gerundio, darsi con l'Altro e per l'Altro in questa rincorsa in cui, insieme, si fa, si costruisce concretamente l'amore istante dopo istante.
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Massimo Silvano Galli
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