Lo spiega molto bene Alessandro Acquisti, economista alla Carnegie Mellon University, raccontando alcuni esperimenti condotti negli Stati Uniti. Con un numero di dati sempre più grande e con software sempre più potenti è possibile, a partire da una foto scattata a un viso, arrivare in tempo reale a dare un nome a quel volto e a recuperare tutte le informazioni pubbliche disponibili; e da qui a scoprire dati sensibili (come il numero di social security) il passo può essere molto breve.
“Oggi sveliamo più informazioni su noi stessi di quanto non sia mai accaduto prima e queste informazioni vengono raccolte da organizzazioni”, spiega ancora Acquisti. Lo scopo, nella maggior parte dei casi, è il marketing.
Un altro esempio: un’azienda ha accesso alla nostra lista di contatti su Facebook, tramite un algoritmo individua le due persone a noi più care, mescola insieme le immagini dei loro volti e ci propone una pubblicità personalizzata con questo nuovo volto. Noi non saremo in grado di riconoscere i due amici ma saremo molto più portati a fidarci di quell’annuncio pubblicitario. Inquietante, vero?
Tra pochi anni ci saranno talmente tanti dati e big data disponibili, che le aziende “scopriranno così tanto di noi che saranno capaci di indovinare i nostri desideri prima ancora che li esprimiamo”, ipotizza Acquisti. E la trasparenza delle informative sull’utilizzo dei nostri dati non è sufficiente, perché anche questa trasparenza può essere manipolata.
Per difenderci e per proteggere la nostra privacy il primo passo è la consapevolezza: conoscere quali usi le aziende possono fare dei nostri dati. Poi esistono anche gli strumenti tecnici per mettere al riparo le nostre attività e le nostre comunicazioni da occhi indiscreti.
E non pensiamo di “non avere niente da nascondere” perché la privacy non riguarda qualcosa di negativo da non divulgare. Ecco il video della conferenza (in inglese con i sottotitoli in italiano): guardare per credere.
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