Consider the Lobster
David Foster Wallace
Back Bay Books, 2006; 343 pagine, $ 14,99
(ed. it. Considera l’aragosta, Einaudi, 2006)
Quello che davvero mi fa andare fuori di testa per DFW è che quando parla di qualcosa, quando lo racconta con quel suo girarci attorno in cerchi concentrici, allontanandosi dal fulcro del discorso per poi tornarci in picchiata, ho la certezza che non riuscirò mai più a guardare quella cosa con gli stessi occhi di prima.
Mi è già successo con le crociere (Una cosa divertente che non farò mai più), con il tennis, il Canada, la depressione e i rifiuti (Infinite Jest), con la parola “breccia” e i pappagalli (La scopa del sistema).
La stessa magia si ripete anche qui, con questi nove saggi scritti tra il 1996 e il 2005, che brillano, oltre che per la lucidità dello sguardo, per la loro costante apertura al dubbio. Non certezze incrollabili e punti di vista univoci, ma semmai domande per le quali lo stesso Wallace spesso sembra non aver trovato una risposta, per lo meno non quella definitiva, soprattutto quando in ballo ci siano decisioni che non possono essere prese alla leggera.
Gli argomenti trattati sono assai vari:
- Gli oscar del porno e i loro mortificanti protagonisti (Big Red Son).
- Il maschilismo e la misoginia di John Updike (Certainly the End of Something or Other, One Would Sort of Have to Think).
- La battaglia tra la linguistica prescrittiva e quella descrittiva (Authority and American Usage).
- L’11 settembre, vissuto da DFW nel salotto dei vicini (The View from Mrs. Thompson’s).
- Le autobiografie degli sportivi, i motivi per cui gli atleti sono visti come modelli nella cultura contemporanea, e una possibile spiegazione del perché usino solo frasi fatte nelle interviste (How Tracy Austin Broke my Heart).
- La sincerità di John McCain, capace di avvicinare alla politica anche i più cinici tra coloro che di solito non votano, e di far passare in secondo piano alcuni aspetti estremi della visione sua politica (Up, Simba).
- L’aragosta e il dolore che prova quando viene bollita viva. Ci avete mai pensato prima di gustarne una? (Consider the Lobster).
- Il lavoro di Joseph Frank su Dostoevskij, i grandi temi universali in letteratura e la loro assenza negli autori contemporanei (Joseph Frank’s Dostoevskij).
- Le tecniche di comunicazione dei talk show radiofonici americani che si occupano di politica, decisi a radicalizzare lo scontro con l’unico scopo di far impennare lo share (Host).
Ho lasciato per ultimo Some Remarks on Kafka’s Funniness, perché per certi versi è quello che mi ha colpito di più, e per ragioni del tutto soggettive. Si tratta di breve saggio in cui Wallace è riuscito a farmi vedere in una luce inedita perfino Kafka, ossia l’autore che forse conosco meglio essendo stato l’argomento della mia tesi di laurea. Bene, su Kafka Wallace riesce a dire, in 6 paginette 6, un mucchio di cose che non ho mai letto nelle decine di articoli di critica letteraria che mi sono sciroppato ai tempi. E soprattutto butta lì una piccola ma non trascurabile nota, in cui vengono descritti i meccanismi che regolano il senso dell’umorismo contemporaneo americano, e come questi impediscano di scorgere il ridicolo/tragico presente nell’opera kafkiana (uno stralcio nelle citazioni in fondo al post).
Non posso certo dire che affrontare Consider the Lobster in lingua originale sia stata una passeggiata. Di norma, a leggere un testo in inglese ci metto circa il doppio che a leggere la traduzione. In questo caso, complici il lessico e la prosa intricata, è probabile che mi ci sia voluto il triplo del tempo. È stata però una scelta di cui non mi pento, sia perché mi ha permesso di godere appieno di alcune sfumature che in italiano sarebbero forse andate perse, sia perché è servita da palestra per prepararmi a The Pale King, che ho intenzione di preordinare a breve su Amazon.
E insomma, per concludere: in linea generale ho qualche remora a utilizzare il termine genio, perché mi sembra sempre ammantato di una certa adorazione acritica. Però ad ogni libro di DFW che leggo, ogni volta che mi rendo di quanto sia tersa la visione attraverso la lente che mi mette davanti agli occhi, genio è proprio la parola che mi gironzola in testa; e per quanto mi arrabatti alla ricerca di una definizione meno altisonante per questo autore, non mi viene proprio in mente nulla di più calzante. Anche chi non apprezza la narrativa di DFW (che io amo, ma di cui riconosco alcune peculiarità che a qualcuno possono non andare giù) credo dovrebbe dare una chance alla sua produzione saggistica.
Vi lascio con alcune citazioni, più o meno serie, scelte tra i moltissimi passaggi che secondo me avrebbero meritato di venir riproposti.
da Big Red Son:
Last year’s Best-Sex-Scene-in-a-film winner Vince Voyeur’s real name turns out to be John LaForme. Rhetorical Q.: How, if one’s real name was John LaForme, could that person possibly feel the need for a nom de guerre?
da Authority and American Usage:
This is so stupid it practically drools.
da How Tracy Austin Broke my Heart:
It may be well that we spectators, who are not dininely gifted as athletes, are the only ones able truly to see, articulate, and animate the experience of the gift we are denied. And that those who received and act out the gift of athletic genius must, perforce, be blind and dumb about it – and not because blindness and dumbness are the price of the gift, but because they are its essence.
da Some Remarks on Kafka’s Funniness:
A crude way to put the whole thing is that our presence culture is, both develeopmentally and historically, adolescent. And since adolescence is acknowledged to be the single most stressful and frightening period of human development – the stage when adulthood we claim to crave begins to present itself as a real and narrowing system of responsibilities and limitation (taxes, death) and when we yearn inside for a return to the same childish oblivion we pretend to scorn – it’s not difficult to see why we as a culture are so susceptible to art and entertainment whose primary function is escape, i. e. fantasy, adrenaline, spectacle, romance, etc.
da Host:
It is, of course, much less difficult to arouse genuine anger, indignation, and outrage in people than it is to induce joy, satisfaction, fellow feeling, etc. The latter are fragile and complex, and what excites them varies a great deal from person to person, whereas anger et al. are more primal, universal, and easy to stimulate.
Ah, come sempre: Allston rules!
Altri libri di DFW su MondoBalordo:
La scopa del sistema
Infinite Jest
Una cosa divertente che non farò mai più
Brevi interviste con uomini schifosi
La ragazza dai capelli strani