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Cannes 2015 in 48 recensioni

Creato il 29 maggio 2015 da Luigilocatelli

48 film in 48 recensioni da Cannes 2015.
Tutti i film del concorso (11 su 19).
11 film su 19 di Un certain Regard.
Più film fuori concorso, proiezioni speciali, proiezioni di mezzanotte.
E film dalla Quinzaine des Réalisateurs e la Semaine de la critique.
I film sono in ordine alfabetico.

Alias María

Alias María

Alias María di José Luis Rugeles Garcia. Un certain regard.
In un inferno latinoamericano, quello dell’eterna guerra in Colombia tra gli ambigui ribelli delle Farc e esercito e gruppi paramilitari. E all’interno di una squadra delle Farc ci porta questo film di un giovane regista colombiano poco più che trentenne, con protagonista una ragazza di nome Maria che resta incinta del suo comandante. Ma la regola è quella dell’aborto obbligatorio: “Non possiamo riempire la foresta di bebè”, dice il medico. Lei però il figlio se lo vuole tenere, e cercherà di scappare. Parte come tanti film terzomondisti, poi decolla e si complessifica, mostrandoci come i guerriglieri sappiano essere feroci quanto e peggio delle squadracce paramilitari. Pietà l’è morta, in questo durissimo film. Con la sottotrama di un bambino che, essendo figlio del capo e della sua compagna, non è stato abortito, e che diventerà la vittima sacrificale delle violenze incrociate. Voto 6 e mezzo

Amnesia di Barbet Schroeder. Proiezioni speciali.
Amo molto Barbet Schroeder, uomo che viene dal lontano, dalla Nouvelle Vague di cui fu produttore più che esponente in prima fila autoriale. Poi una carriera registica da perfetto irregolare, tra Europa e America. Ho adorato il suo La vergine dei sicari, e aspettavo con ansia questo Amnesia, il suo ritorno a Ibiza dove aveva girato il film che lo aveva reso famoso a fine anni Sessanta, More. Allora: Amnesia è un brutto film che ne contiene un altro formidabile. Per due terzi mi ha folgorato, poi nell’ultima parte si disintegra nel kitsch, si autosabota, si autodistrugge. Fine anni Ottanta. Una misteriosa signora vive sola a Ibiza: è tedesca, ma per un qualche motivo non vuole farlo sapere, non vuole parlare nella sua lingua, non vuole nemmeno usare una Volkswagen. Perché? Quando arriva come nuovo vicino un bravo ragazzo berlinese che vuole sfondare come dj nei club dell’isola (e ce la farà, diventando la star dell’Amnesia), si mette in moto una catena di reazioni e controreazioni che porterà a galla il rimosso. Il ragazzo si lega a lei, Martha (che è Marthe Keller, attrice culto degli anni Settanta, ancora bellissima), e sarà lui a indurla a scoprirsi. Fidanzata a un violoncellista ebreo, Martha se l’è visto portare via dai nazisti, e da allora ha rimosso dalla sua vita il proprio paese. Quando arrivano in visita la madre e il nonno del ragazzo, sarà psicodramma, e tutti i fantasmi nazionali (e nazional-socialisti) usciranno fuori. Signori, questa parte è straordinaria, il più lucido e insieme compassionevole film che si sia visto sui tedeschi e il loro complicato rapporto con il passato, la necessità di ricordare e anche quella di dimenticare per andare avanti. Un kammerspiel emozionante e bruciante, e lo scontro tra Marthe Keller e Bruno Ganz (il nonno) non lo si dimentica. Purtroppo Barbet Schroeder non ci risparmia il kitsch di Martha che balla, sembra flirtare col ragazzo, e le ultime scene all’Amnesia sono imbarazzanti, per non parlare del tremendissimo tramonto finale. Peccato. Fotografia smagliante di Luciano Tovoli, un grande del cinema italiano anni Settanta. Voto oscillante tra il 3 e il 9, dipende dai momenti.

Amy di Asif Kapadia. Proiezione di mezzanotte.
Biopic per fortuna non autorizzato, anzi per niente amato dalla famiglia, di Amy Winehouse. Per fortuna, perché almeno non c’è l’obbligo al santino ufficiale e si può andare a indagare anche i lati in ombra del personaggio. Kapadia – già regista di un docu su Ayrton Senna – nasconde poco delle travagliata vita pubblica e privata di Amy, voce nera e jazz nel corpo di una ragazza nata nel quartiere ebraico di Londra da una madre molto presto tradita dal marito. Il tono sta tra la ricostruzione documentaria e un certo gusto scandalistico nel mostrarci di che dolore è fatto il successo. Ci sono chicche come Amy giovanissima che canta Happy Birthday alla festa di compleanno di un’amica, ed è già pienamente Amy Winehouse. Poi l’ascesa verso il successo, che arriverà massiccio e forse inatteso, con Back to Black, e la parallela discesa verso la disintegrazione psichica e fisica. Un amore con un ragazzo di nome Blake, poi anche marito, di quelli folli e maledetti in cui ci si salva o si affonda insieme, e lei e Blake affondano. Per Amy è l’alcol, la bulimia, l’eroina, il crack. Finirà come sappiamo. Certo le ultime immagini in video e foto sono sconvolgenti, corpo scheletrico, occhi che non vedono più niente, graffi e lividi su tutto il corpo, il trucco colato sulla faccia ridotta a un mascherone. Come se fosse già morta da viva. Non un gran film, anche con qualche compiacimento voyeuristico di troppo. Però Winehouse è Winehouse, e vederla e sentirla vale la pena, eccome. Voto 6 e mezzo

AN

AN

AN di Naomi Kawase. Un certain regard.
Sarà stato downgrading? L’anno scorso la regista giapponese Nomi Kawase, assai amata dai cinefili d’alta gamma, era in concorso (con un film insopportabile), due anni fa era addirittura in giuria, quest’anno porta ‘solo’ un film, questo AN, a Un certain regard (e però le han concesso l’onore dell’inaugurazione). Se non ce l’ho fatta ad amarlo – il cinema di Kawase non è il mio cinema – devo dire per che AN  è un prodotto che funziona bene e potrebbe decollare da questo Cannes verso un ottimo successo worldwide. Si piange come fontane, in una storia che, in puro Kawase style, mescola tracciati esistenziali difficili e sofferenti a una presenza incombente, e avvolgente e pure ingombrante, della natura. In una visione che a noi sembra new age, ma che probabilmente ha una qualche radice nella tradizione dello shintoismo nipponico. Ciliegi in fiore in indescrivibile quantità, rasentando il porno botanico. Una storia che solo a Kawase poteva venire in mente, quella di una vecchina bravissima nel preparar l’AN, la confettura dolce di fagioli rossi, e però malata di lebbra, una degli ultimi lebbrosi del Giappone, cui solo nel 1996 è stato permesso di lasciare i ghetti in cui erano stati confinati. Il film parte come uno dei tanti food-movie oggi imperanti, solo più tardi scopriamo che quella compita e vecchia signora tanto brava in cucina si porta addosso quello stigma sociale. Edificante ma non melenso, anche se Kawase ci dà dentro con i buoni sentimenti e i ciliegi in fiore. Nel caso vi capitasse, preparate una consistente scorta di kleenex. Voto 6

As mil e uma noites – Volume 1, o inquieto (Le mille e una notte – Volume 1 – l’inquieto) di Miguel Gomes. Quinzaine des Réalisateurs.
Son riuscito a recuperarlo in un cinemino fuori mano, lo Studio 13, questo primo episodio della ormai celeberrima trilogia del portoghese Miguel Gomes, l’opus magnum, se preferite il macigno, di Cannes 2015. Son seguiti nei giorni successivi il volume 2 e 3, per un totale di oltre sei ore. Da dove cominciare per parlare di un film che sfugge a ogni classificazione ed è di un’anarchismo beffardo fino alla strafottenza? Gomes dice di essersi ispirato alle Mille e una notte, trasportandole e affondandole nel Portogallo del 2014 bloccato nella morsa della crisi economica e colpito dai diktat della Troika, ma trovarci una parentela è dura. L’ideologia è quella del dalli ai politici del rigore che vogliono solo affamare le masse, tra Syriza e Podemos, ideologia che trovo deleteria. Ma qui si parla di cinema, e allora dico che Gomes mette in piedi un film geniale e bizzarro, coraggiosissimo nella struttura narrativa e sul piano della forma e dello stile, sgangherato e insieme sofisticato, con cadute abissali ma anche guizzi da opera somma. Si parte con le due crisi che secondo il regista sono sotterraneamente connesse, nel senso che l’una è metafora dell’altra, la disoccupazione – qui rappresentata dalla chiusura dei più famosi cantieri navali portoghesi – e l’invasione di insetti killer cinesi. Ci sono – in simil Sheherazade – narratori e narrazioni, tra cammelli, probi signori della Troika cui un elisir di uno stregone africano ridà la virilità perduta, galli urlatori che i vicini vorrebbero morti, giudici che parlano con gli animali, ragazzini che appiccano incendi per vedere gli elicotteri arrivare. Un delirio vero, con momenti di irresistibile divertimento e altri, come le testimonianze dei disoccupati, di massima desolazione. Onore a Gomes, che dopo il successo di Tabu si ributta nella mischia rischiando l’osso del collo. Novellistica per novellistica, Gomes batte Garrone 5 a 0. Voto 8 e mezzo

Carol di Todd Haynes. Concorso. Premio a Rooney Mara per la migliore interpretazione femminile (ax aequo con l’Emmanuelle Bercot di Mon Roi)
Si sa, i giorni peggiori ai festival, specialment a Cannes, sono il sabato e la domenica, quando calano i visitatori e i giornalisti dei giorni di festa, incrementando la già possente folla che si accalca alle proiezioni. Oggi alle 19 per Carol di Toss Haynes, attesisissimo film del concorso con la gran coppia femminile Cate Blanchett-Rooney Mara, mi sono messo in fila 50 minuti prima. Non è bastato, non ce l’ho fatta. C’era una tale ressa che sono rimasto fuori, e come me almeno altri quattrocento giornalisti. Per essere ragionevolmente sicuro di farcela per il successivo press screening delle 21,30 alla famigerata Salle Bazin mi sono messo in coda alle 19,20 e contate voi il tempo di attesa. Intanto da chi alle 19 era riuscito a entrare arrivavano commenti adoranti e genuflessi. Meraviglia. Capolavoro. Da Palma d’oro. Cate più formidabile che mai. Tutto un niagara di tweets di fan scatenati in tutte le lingue del mondo. Sicché mi sono prediposto alla visione, anche per via della stima per Haynes e i suoi precedenti lavori, col massimo del pregiudizio favorevole. Invece, delusione, per quanto parziale. Il film è bello, a tratti lo è molto, ma l’ultima mezz’ora non la si regge proprio, e Carol vagola senza mai trovare un finale, cercando in un esercizio di virtuosismo cerchiobottista di accontentare tutti. La storia è una storia di lesbismo tratta da Patricia Highsmith, in un’America anni Cinquanta con la coppia Mamie e Ike Eisenhower alla Casa Bianca e i family values imperanti (mentre si dà la caccia al comunista in casa con il maccartismo). Molte le somiglianze con Lontano da paradiso dello stesso Haynes. Anche là i Fifties americani, anche là un amore ostacolato e reso impossibile dalle convenzioni sociali. Ma purtroppo il regista non ce la fa a replicare l’esito di quel film seminale, uno dei più innovativi della scorsa decade, e lo riproduce rischiando l’automanierismo, oltretutto con una materia narrativamente assai più confusa e meno convincente. Vien da pensare che Todd Haynes abbia venduto l’anima a Harvey Weinstein, che produce il film e di sicuro lo porterà tra i successi dell’anno e in corsa per i premi della prossima awards’ season. Certo, il senso di Haynes per i Cinquanta resta altissimo, nessuno come lui sa ricreare non solo dettagli scenografici, costumi e decori, ma restituire il clima e l’anima di un periodo che fu quello del massimo trionfo americano. La New York che vediamo in Carol è non solo di filologica perfezione visuale, ma è uno spaccato socio-antropologico pulsante e vivo. Risultato magnifico, come no. A convincere meno è quello che Haynes ci mette dentro, è il racconto. Carol è una signora della New York alta e ricca, di algida eleganza ed elevato stile, feticizzata da un visone biondo che è, letteralmente, la sua seconda pelle. Mica per niente la interpreta Cate Blanchett, qui definitivamente armanizzata quale icona fashion, con il rischio di somigliare un po’ troppo alle mannequin d’epoca fotografate da Avedon o Penn su Vogue e Bazaar. Come se Blanchett già di suo non tendesse al regale-ieratico. Inomma, la Carol, mentre sta in una grande magazzino in cerca del giocattolo giusto da regalare all’adorata pargola per Natale, incrocia la vendeuse Therese, la puntuta e cerbiattesca Rooney Mara. Attrazione più o meno fatale. La Carol invita la Therese fuori, le fa un mucchio di complimenti, e la Theresa subisce subito il fascino di quella signora così di classe, se ne lascia corteggiare. Certo, prima che finiscano a letto, in una scena che neanche alla lontana è al livello di La vie d’Adèle, passa più di un’ora di film abbastanza estenuante. Todd Haynes lavora di avvolgenti movimenti di macchina, suggerisce atmosfere che un tempo si sarebbero dette morbose e adesso non si può più, la tira per le lunghissime, a suggerire come l’amore tra donne fosse in quel tempo, in quegli anni, ancora un amore che non osava pronunciare il proprio nome (cit. Oscar Wilde). Certo noi, che adesso siam sommersi un giorno sì e l’altro pure da gioiose foto, anche su fb, di lesbiche che si sposano e procreano e adottano, da tutta quella lungaggine restiamo un po’ annoiati. Non manca il côté (melo)drammatico, con Carol che sta divorziando dal marito carogna: il quale, sapendola lesbica dopo aver scoperto la sua relazione con l’amica Abby, ora le vorrebbe togliere la figlia. Proprio mentre Carol passa la sua prima notte d’amore in un hotel con Therese, succede il fattaccio. Un detective assoldato dal consorte registra tutto, e scatta il vile ricatto. Carol abbandona Therese, rientra subito a New York, torna a fare la finta moglie devota e perfetta sperando che non le venga tolta la bambina. Ecco, il film dovrebbe finire qui, con il trionfo della convenzione borghese e delle sue implacabili regole sulla legge del desiderio. Come esige il paradigma del melodramma anni Cinquanta alla Sirk al quale evidentissimamente Haynes si ispira. Invece no. Comincia da lì un estenuante balletto tra le due donne, in cui non capiamo più chi voglia chi e che cosa. Il tutto, immagino, per potere presentare al pubblico, in omaggio all’imperante politicamente corretto, una omosessualità femminile non sconfitta. Ma così facendo si va contro ogni buonsenso e ogni coerenza narrativa, fino a un finale sì aperto, ma che non sta né in cielo né in terra. Non ho letto la Highsmith, ma presumo che tutta la parte ultima non venga dal suo libro e sia invece pura invenzione degli sceneggiatori (se mi sbaglio correggetemi, please). Il film è anche fin troppo cauteloso e ovattato quando entra in ballo la diferenza di classe tra le due donne. Quel regalo costoso di Carol a Therese, quella richiesta di Therese a Carol si prendere in hotel la camera più cara: sono indizi che potrebbero far pensare che in quella storia, in quel rapporto, intercorrano il denaro e l’interesse. Ma Haynes cancella subito ogni possibile sospetto e dubbio, e la stori finisce affogata in un indistinto sentimentale. Stranamente, il regista dolcifica, attenua le contraddizioni e le crudeltà che percorrono sottotraccia l’amore delle due protagoniste. Applausi molto caldi e convinti. Di sicuro un premio se lo prenderà. Voto tra il 6 e il 7

Cemetery of Splendour(Rak Ti Khon Kaen) di Apichatpong Weerasethakul. Un certain regard.
Davano Apichatpong alla stessa ora, alle 11, del nuovo Pixar movie Inside out: ho scelto Apichatpong, il thailandese la cui Palma d’oro per Uncle Boonmee ancora fa discutere dopo anni e anni. Quando è salito sul palco della Salle Debussy, chiamato da Thierry Frémaux a introdurre questo suo nuovo film, la platea è esplosa in un’ovazione, lo stesso a fine proiezione. A dimostrazione che il nostro conta su uno zoccolo durissimo di cultori, alla faccia dei tanti che lo disprezzano. Diplomaticissimo (come aveva anche dimostrato a Locarno tre anni fa da presidente della giuria), ha ringraziato tutti, dichiarandosi felice e onorato di essere a Un certain regard, e dunque tacitando indirettamente chi accusava il festival di non averlo messo in concorso e relegato nella sezione B. Due ore e cinque minuti di un film assolutamente suo, che non potrebbe che essere suo. Thailandia. Foresta profonda. Una piccola città. Soldati (ci sono quasi sempre soldati nei suoi film: la divisa come feticcio, anche erotico). In un piccolo ospedale giacciono dei giovani militari in stato di sonno perenne, sonno indotto da farmaci o da coma. Intorno medici e infermiere. E volontarie, tra cui una signora affetta da zoppia (il dettaglio avrà poi la sua rilevanza), più una medium che fa da tramite tra i soldati dormienti e i loro familiari. Consideratela pure una banalità, ma per AW la vita è sonno e sogno, letteralmente. Il film è questa fluttuazione tra la veglia e quanto ci sta sotto, tra la realtà visibile e quella nascosta, tra l’al di qua e l’al di là. Due bellissime ragazze si rivelano essere due principesse laotiane morte tornate sulla terra (i revenants vanno molto a questo Cannes). La medium descrive la bellezza di un palazzo che solo lei percepisce. Nel sottosuolo dell’ospedale c’è un cimitero in cui si agitano i fantasmi di re del passato: i quali, per continuare le loro guerra, succhiano le energie dei soldatini addormentati. Il mondo e i suoi mondi paralleli, come sempre in Apichatpong, come in Uncle Boonmee. Con sequenze visivamente formidabili, i notturni nello stanzone d’ospedale con le luci cangianti ad esempio sono di una bellezza che toglie il fiato. Il magico orientale diffuso e come dimensione naturale del quotidiano. Non mancano, come spesso nel regista thai, gli intermezzi pop, una signora delle televendite che si palesa a piazzare la sua maschera miracolosa al caucciù, numeri di ballo da povero musical, canzoni e canzonacce. Più un erotismo palpabile. AW da quei corpi di ragazzi nel sonno cava una macchina di desideri e di sesso, con tanto di erezione totemica sotto un lenzuolo blu. Finché resta nell’ospedale il film è semplicemente meraviglioso, ma quando esce open air si perde in sequenze tortuose e enigmatiche. Con una delle scene più disturbanti viste ultimamente al cinema, e qui a Cannes: la giovane medium che scopre la gamba malata della volontaria e la lecca e la bacia. Pensate quello che volete, ma Apichatpong è un maestro vero. Voto 8 e mezzo

Chronic di Michel Franco. Concorso. A Michel Franco è andato il premio per la migliore sceneggiatura.
Ci si aspettava qualcosa di più dal regista messicano che tre anni fa aveva vinto qui a Cannes a Un certain regard con After Lucia. In Chronic ce la fa benissimo a creare un mood soffocantee di plumbea, costante minaccia inespressa, dirige molto bene Tim Roth (alla sua migliore interpretazion da parecchio tempo in qua), ma esagera con le ellissi, il non detto, l’allusione, e si esca alla fine insoddisfatti con troppe domande in testa rimaste senza risposta. Chi è David, il protagonista? Del suo passato sappiamo e sapremo poco in corso di film. Lo vediamo giorno per giorno esercitare il suo mestiere di infermiere a domicilio di malati cronici e/o terminali. Tutti i giorni nell’anticamera della morte, di cui sembra di sentire il respiro e l’odore. Nonostante la maschera di impassibilità che si è costruito, David è un ottimo professionista, sa stare vicino ai suoi malati con pazienza, empatia, anche affetto. Incapperà in una brutta storia, i famigliari di un anziano architetto da lui accudito lo accuseranno di molestie sessuali solo perché David gli ha permesso di godersela un po’ con dei video porno. Ci saranno altri pazienti, ci sarà un’eutanasia. Con un finale balordo che denuncia l’imbarazzo del regista a trovare una via d’uscita coerente al suo racconto. Imperfetto, ma interessante, e adeguatamente disturbante. Tra Haneke e Reygadas. Voto tra il 6 e il 7

Comoara

Comoara

Comoara (Le trésor – Il tesoro) di Corneliu Porumboiu. Un certain regard. Vincitore del premio Un certain talent.
Comincio a pensare che dopo questo film, e dopo i suoi precedenti When Evening Falls on Bucharest or Metabolism (Locarno 2013) e il geniale The Second Game (Berlinale 2014), il rumeno Corneliu Porumboiu sia uno degli autori europei oggi meno omologati e più imprevedibili. Questo Comoara è stato una sorpresa, salutato alla fine da un lungo e convinto applauso. Commedia con tocchi stralunati, realizzata con un’impassibilità, con un approccio deadpan alla Buster Keaton, con una travolgente idea narrativa di partenza e sviluppi assai divertenti. Il buon Costi si fa coinvolgere da un vicino ad andare con lui in quella che è stata un tempo la villa della sua famiglia, in un villaggio a due ore da Bucarest. Lì nel giardino, dice il dirimpettaio, prima del comunismo il bisnonno ha sepolto un tesoro. Se mi aiuti a trovarlo, fa a Costi, te ne darò la metà. Ingaggiano per la mission un tizio dotato di metal detector di vario tipo, e via verso la villa. Con sequenze irresistibili, come la ricerca del tesoro mediante il detector sibilante, e i bisticci tra il tecnico e i due cercatori. Un finale che è tra i più inventivi visti a questo Cannes. Sotto la commedia perfettamente costruita, e benissimo recitata, c’è anche un viaggio nella storia della Romania. Quella villa è stata una residenza borghese, poi in tempi di comunismo una scuola elementare, poi dopo la caduta di Ceausescu un bar e club notturno con tanto di lapdance. Qualcuno lo importi in Italia, please. Voto 7 e mezzo

Dheepan di Jacques Audiard. Concorso. Vincitore della Palma d’oro.
E stamattina (giovedì 20 maggio, ore 8,30, Grand Théatre Lumière) è arrivato il film che a oggi – del concorso mancano ormai solo tre titoli – è la mia personale Palma d’oro. Jacques Audiard, regista grande quanto sottostimato e inesorabilmente poco premiato – forse perché autore di un cinema-cinema corporale, di fisica e palpabile imediatezza più che cerebral-intelettualistico, e fors’anche perché non disdegna di flirtare con i generi – , ha portato in concorso il suo Dheepan, e ancora una volta ha fatto centro pieno. La dovrebbero dare a lui la Palma d’oro, anche se temo che a vincere sarà invece il più paraculo e arty Carol di Todd Haynes, tipico prodotto da salottino chic. Oltretutto sarebbe pure un risarcimento per le mancate vittorie del passato per Un prophète e Un sapore di ruggine e ossa, tutte e due le volte battuti dalla bestia nera di Audiard, Michael Haneke, prima con Il nastro bianco poi con Amour. La parte d’inizio di Dheepan sembra un altro dei film, talmente tanti ormai da aver dato vita a un vero e proprio genere, sui migranti che scappano dalla lande più desolate della terra per raggiungere con ogni mezzo l’opulenta (ma fino a quando?) e democratica (ma fino a quando?) Europa. Sri Lanka, nel nord Tamil, territorio a tradizione indù, colpito da decenni da una guerra e guerriglia con il governo centrale buddista. Ferocie da entrambe le parti, morti a milioni. Il trentenne Dheepan ha perso la famiglia, gli procurano un falso passaporto da cui risulta sposato, e dunque gli aggregano una donna che non ha mai visto che si spaccerà per sua moglie e una bambina atrettanto sconosciuta come figlia. Tre poveri disgraziati che per passare le frontiere e essere accolti in Europa come rifugiati politici devono recitare la commedia del nucleo familiare d’acciaio. Arrivano in Francia. Dheepan ottiene presto un posto come custode di uno di quei palazzoni della banlieu dove lo stato non arriva (per dirla nei modi del nostro giornalismo indignato), diciamo una Scampia francese. Ci si chiede con un certo allarme a quel punto se anche Audiard non sia passato nelle file del cinema engagé e filoterzomondista e ci voglia illustrare in perfetto spirito didascalico e predicatorio le tribolazione di un migrante venuto dalla parte sfortunata del mondo. Sembra essere così, in parte forse è così, ma grazie a Dio Audiard piega questa storia a se stesso, al suo cinema, alle sue ossessioni, che son quelle di indagare e rappresentare i rapporti di potere che passano attraverso le passioni e i corpi, e ne cava qualcosa che ricorda molto da vicino il suo Un prophète. Lì nella banlieu, nel territorio senza legge, Dheepan e la sua falsa famiglia devono imparare a sopravvivere, esattamente come quando lui militava tra le tigri tamil. Il palazzo in cui abitano è sotto il controllo di una banda impegnata nei soliti loschi traffici, e in lotta con dei rivali ansiosi di sloggiarli dal fortino e di impossessarsi del territorio. Le sequenze di questa parte dimenticata di Francia (s)regolata da leggi neotribali, dove conta l’obbedienza cieca al boss e lo sgarro è punito con la morte, dove gli uomini armati della banda dominante presidiano ingressi, scale e tetto, sono l’Audiard che conosciamo, tra i più bravi a leggere e mettere in cinema le regole criminali, la rete dei poteri sotterranei alla crosta della società legale. Con una regia nitida e precisa, una messinscena potente, muscolare, con poche concessioni a psicologismi o estenuazioni né tanto meno alla paccottiglia sentimentaloide. Qui, più che mai, il cinema di Audiard è puro gioco dei potenti e dei sottomessi, con movimenti tutti interni a una scacchiera rigidamente delineata e regolata. La banlieu di Dheepan è come la prigione di Un prophète, con i suoi capi, i guardiaspalla, i gruppi armati, i servi. Dheepan e la sua falsa famiglia vengono collocati di default in questa ultima casella, e imparano presto a stare al proprio posto per salvar la pelle. Ma tornano nell’operoso custode di caseggiato gli incubi dei massacri vissuti, e fors’anche attuati, nello Sri Lanka,  e quando la frizione fra bande diventa guerra si lascia fagocitare dal ricordo e dalla paura. Compiendo un passo falso che rischia di compromettre la sua sopravvivenza e quella dei suoi. Audiard non sbaglia niente, perseguendo e attuando la sua idea di cinema primario e insieme sofisticato, capace di massima comunicabilità e presa sullo spettatore. Tutta la parte finale, nel fuoco della guerra urbana, è allarmante e poderosa. Forse si concede allo spettatore qualcosa di troppo nell’ultima scena, ma sono dettagli marginali in un film che resta magnifico e che è il più compatto e convincente di tutto il concorso. Ma sarà dura scalzare il politicamente correttissimo Carol. Speriamo nei Coen. Voto 8 e mezzo

Hayored ema’ala  (L’esprit de l’escalier) di Elad Keidan. Proiezione speciale. Piccolo, bizzaro film israeliano ultraindipendente, di quelli che di solito non si vedono a Cannes ma piuttosto a Berlino, Locarno, Rotterdam. Sospeso tra la bufala e il manifestarsi, l’erompere di un autore giovane che potrebbe diventare qualcuno. Cinema fatto di niente, di incontri e di conversazioni alla Hong Sang-soo, con qualche reminiscenza di Rohmer, ma senza la loro leggerezza. Si salgono e si scendono le scale del Monte Carmelo, nella città di Haifa, porto d’Israele, e di Israele forse la più bella città (a parte Gerusalemme, ovvio). Moshe è un uomo maturo e assai provato dalla vita che si mette alla ricerca di un’orecchino perso dalla moglie. Farà un’amarissima scoperta, mentre di lui apprenderemo il complicato passato. In parallelo seguiamo il più giovane Gavi, riservista di Tsahal che vuol schivare la chiamata per un’esercitazione. In realtà sta per imbarcarsi su una petroliera e lasciare Israele. Le traiettorie dei due si incroceranno, per poi separarsi. Cinema del caso e della necessità. Spiazzante, soprattutto a Cannes. Moshe a un suo amico arabo (palestinese ma cittadino israeliano) confida la voglia di mettere su un museo dedicato alla Nakba, l’esodo palestinese da Israele: “Se lo faccio io che sono un ebreo nessuno avrà da ridire”. Voto 6 e mezzo

Hrútar (Montoni) di Grímir Hakonarson. Vincitore di Un certain regard.
Premiato stasera dalla giuria di Un certain regard presieduta da una Isabella Rossellini con clamorosa stola (molto, molto applaudita, intendo la Rossellini) quale miglior film, e anche qui mi pare un’esagerazione. Pensare che a Apichatpong Weerasethakul e al suo meraviglioso Cemetery of splendour non hanno dato neanche un premio minore, zero. Però questo film islandese, furbo al punto giusto, era piaciuto immensamente fin dalla sua prima proiezione, ed era tra i favoriti. Storie di montoni e di fratelli. Siamo ngli immensi landscapes islandesi, senza geyser e però con molti pascoli, con due fratelli allevatori di montoni pregiatissimi (e pecore loro concubine) che abitano a due passi, ma non si parlano da quarant’anni. Poi arriva la malattia, una cosa tipo mucca pazza in versione ovina, e viene ordinato l’abbattimento di tutti i montoni e le pecore della vallata. Ma uno dei due fratelli, per salvare una razza pregiatissima, ne nasconde qualche esemplare in cantina. Sarà questo a riavvicinare i due. Più che un film sui raporti tra umani e animali, come filosofeggia la motivazione della giuria letta da Isabella Rossellini, una storia di fratelli che pur odiandosi non possono dimenticarsi. Troppo piacione per i miei gusti. Di sicuro farà una gran carriera internazionale e potremmo ritrovarlo nelle liste Oscar e Golden Globes per il migliore film straniero. Per il cinema islandese, che da qualche anno sta crescendo parecchio, un’importante affermazione. Voto 6

Kishibe No Tabi

Kishibe No Tabi

Kishibe No Tabi (Jouney to the Shore – Verso l’altra riva) di Kiyoshi Kurosawa. Prsentato a Un certain regard, dove Kiyoshi Kurosawa ha vinto il premio per la migliore regia.
Delude il regista giaponese che due anni fa aveva portato al festival di Roma il meraviglioso Seventh Code e tre anni fa a Locarno il molto interessante Real. Qui prende a piene mani dalla tv serie Les Revenants, mostrandoci un uomo che dopo tre anni torna dall’al di là non si capisce bene per che cosa. Alla moglie, di mestiere insegnante di piano, dice che vuole portarla da coloro che lo hanno aiutato nel ritorno a questo mondo. I due si mettono in viaggio, avranno a che fare con gente varia, alcuni sono révenants pure loro altri no, e non si capisce il perché. Girato elegantissimamente, con gusto e delicatezza estrema. Già, ma dove sta la polpa in un film così? Per fortuna Kurosawa (non parente) non esagera con il new age preferendo stare sull’indagine psicologica. L’altra riva è quella dell’altro mondo, ovvio. Voto 5 e mezzo

Krisha di Trey Edward Shults. Semaine de la critique.
Approda alla Semaine de la critique, in concorso, il film che ha trionfato all’ormai sempre più importante SXSW, il festival del cinema indipendente americano di Austin. Messa in scena di una storia vera con la famiglia che l’ha vissuta, una miscela insomma tra documentario e narrativizzazione che è uno dei modi del nuovo cinema. La Krisha del titolo, che di cognome fa Fairchild, sessant’anni e qualcosa, arriva in vacanza nella grande famiglia della sorella dopo anni di lontananza, e forse di ostracismo, dovuti ai suoi problemi di alcolismo. Dice di essere clean, disintossicata, fuori dalla dipendenza, rassicurando la sorella che la accoglie insieme al marito, ai loro figli, al marito di una delle figlie. A completare la reunion arriverà anche la vecchia madre in Alzheimer (che non riconoscerà Krisha). All’inizio funziona tutto molto bene, ma poi un piccolo incidente in casa rivela come Krisha sia ubriaca e non si sia mai liberata dalla sua addiction. Da lì scoppia il melodramma familiare, come ne abbiamo visti tanti al cinema e nella vita. Krisha nega, mente, si difende, contrattacca, ma non riuscità a evitare il rigetto che intanto è scattato nel gruppo. Fino al climax, la rivelazione di un segreto di famiglia. Tenete conto che la protagonista è la vera Krisha Fairchild, e che il regista è uno dei nipoti. Oggi alla presentazione del film c’erano l’una e l’altro. Esperimento assai interessante, tra la terapia familiare e la messa in mostra dei panni sporchi nell’era dell’esibizionismo di massa. Il bello è che che dammaturgicamente tutto funziona alla perfezione, e sembra a momenti di stare in un Tennessee Williams. Stile registico fluido e prensile, tra Cassavetes e Altman. Questo Krisha rischia di fare parecchia strada. Voto 8

Il racconto dei racconti di Matteo Garrone. Concorso. (Recensione scritta all’uscita in Italia del film)
Si capisce subito che qualcosa non quadra in questo film, da un inizio faticato e ansimante con una carovana di circensi girovaghi che arriva in una landa non così favolosa a dare spettacolo a corte, il tutto collocato in un tempo sospeso, metastorico, con un che del Seicento spagnolo e italo-meridional-mediterraneo e un po’ del tempo mitico del nuovo fantasy per pubblici globali. Guitti, giocolieri e mimi che recitano e ahinoi danzano con quella goffaggine di tanto nostro cinema geneticamente e antropologiocamente lontano dalla sapienza corporea e dalla naturale dinamicità di tanto cinema americano (dai musical agli action), e incapace di rendere credibile scene di pura fisicità. Ed è una sequenza d’apertura che non si può guardare, e quando il re (John C. Reilly, visivamente perfetto, peccato che scompaia dopo una decina di minuti: ma valeva la pena ingaggiarlo per una comparsata?) sorride, i cortigiani sorridono e la regina invece se ne sta corrucciata e accigliata (una Salma Hayek figurativamente a posto, ma meno convincente nella sua performance d’attrice), noi siamo tutti con lei, ché non capiamo proprio come ci si possa divertire a un tale mesto e modesto spettacolo.
Questo blocco iniziale racconta e mostra già parecchio del film (due ore e qualcosa) che verrà, e dei suoi limiti. Con quella tensione a una messinscena visivamente opulenta e densa di richiami pittorici (Garrone ha detto di aver tenuto d’occhio Goya e i suoi Capricci), e però incerta, irrisolta, come intimidita dal gigantismo di un progetto così insolito per il panorama italiano. Con tempi e ritmi allentatissimi e dilatatissimi, estenuanti fino alla letargia. Garrone, che ci aveva dato con L’imbalsamatore e Gomorra due film meravigliosi, qui inciampa, confermando le perplessità suscitate tre anni fa con Reality. Cui peraltro questo film esplicitamente si connette. Il racconto dei racconti, nella sua sontuosità fiabesca, sembra voler riprendere e dilatare l’incipit – che era poi l’unica parte rimarchevole – di quel film, con il matrimonio davvero da favola in una Napoli cafonesca-camorristica-neomelodica riplasmata sul sogno e la grandeur spagnoleggiante e borbonica della Napoli gran capitale mediterranea nei suoi secoli d’oro. Con carrozze, lacchè in polpe, dame e signori, sovrani e sovrane, e intorno la plebe. Nostalgia canaglia di una città, di un mondo, di un regno detto (anche) delle due Sicilie che sapeva fare di sé uno spettacolo magniloquente a uso dei padroni e della moltitudine di servi-sudditi. La pompa barocca come droga per gli occhi e le menti, come balenio già lisergico di un mondo altro, come dichiarato escapismo. Da quel tempo, da quell’universo, da quella cultura Matteo Garrone prende uno dei testi esemplari e costitutivi, Lu cunto de li cunti, raccolta secentesca di favole anche assai crudeli e sanguinarie di Giambattista Basile, incunabolo e matrice e serbatoio cui attimgeranno successive infinite raccolte di novellistica, a partire da quella dei fratelli Grimm. Ne prende tre, di racconti di Basile, riscrivendoli e mescolandoli con una qualche libertà, ma con sostanziale fedeltà, lasciando stare quelli che hanno ispirato Cenerentola e Il gatto degli stivali, e privilegiandone di meno famosi e logorati dall’uso. Operazione fascinosa e azzardata, che è devoto e sacrosanto omaggio a quella Napoli barocca e fosca macchina produttrice di incubi, miti, sogni e visioni, e rivendicazione orgogliosa, anche, del primato e della primogenitura di Basile su tutta la favolistica europea e occidentale. Come a dire che, in un tempo e in un cinema, e in una serialità tv che hanno fatto del fantasy e del fantastico uno dei generi principe dell’industria dell’intrattenimento, noi italiani possiamo rispondere ai trionfi del Signore degli anelli e di Il trono di spade rispolverando la nostra tradizione, immergendoci nel nostro rimosso passato e cavandone materia per uno spettacolo che sia allo stesso tempo nostro e di tutti, nazional-locale e globale. Gran bel progetto. Peccato che il film non riesca a realizzarlo. Tant’è che si pensa con rimpianto a precedenti e ormai remoti, e più soddisfacenti, utilizzi di Basile da parte del nostro spettacolo, il C’era una volta popolare e ‘di classe’ di Francesco Rosi con la coppia Sofia Loren-Omar Sharif e, soprattutto, il magnifico esempio di teatro (barocco) con musica che fu agli inizi degli anni Settanta La gatta Cenerentola di Roberto De Simone, caposaldo e capolavoro. Qui purtroppo siamo parecchio lontani da quei risultati. Il racconto dei racconti sembra indeciso a tutto. Rinuncia alla lingua napoletana di Basile e usa l’inglese (nella versione originale non doppiata), assembla un cast internazionale english-speaking nell’evidente e condivisibile intento di confezionare un prodotto che parli al mondo e sia esportabile. Cavalca visibilmente l’onda dell’attuale fantasy trono-spadesco acccentuandone il côté crudele e dark (senza però il suo gioco dei potenti shakespeariano) e ricorrendo agli effetti del digitale e a varie mostruoserie. Non è il caso di scandalizzarsi, anzi va apprezzata l’intenzione di realizzare qui e ora, in Italia, un cinema di spettacolarità e respiro sovranazionali in grado di competere con i colossi che sappiamo prodotti da Hollywood (e anche dai francesi, vedi La bella e la bestia con la coppia Cassel-Seydoux). Solo che questo progetto non viene coerentemente perseguito. Perché rinunciare al napoletano se poi si affondano i tre racconti in un paesaggio e in un tempo, e in una densità figurativa, che sono pur sempre, e evidentissimamente, quelli del barocco secentesco-partenopeo? Con quelle location, al solito fornite dalla onnipresente e dilagante Apulia Film Commission, certo meravigliose, ma anche assolutamente nostre, assolutamente e inconfondibilmente italo-mediterranee. E neanche per un momento, nonostante la presenza dei vari Salma Hayek, John C. Reilly, Toby Jones e Vincent Cassel, pensi al mondo mitologico tra il nibelungico e il celtico che è di quasi tutto il cinefantasy contemporaneo. Ne esce un ibrido in cui le diverse anime e intenzioni non si amalgano mai, anzi si mostrano vistosamente nel loro contraddirsi e cozzare. E perché, in un film che vuole (giustamente) titillare il pubblico popcorn planetario indulge a estenuati citazionismi pittorici non sempre così giustificati e, soprattutto, a un ritmo narrativo blandissimo e soporifero? Se si vuol cavalcare il mainstream che lo si faccia con decisione, senza riserve e sensi di colpa autorialistici e alibi autoprocurati. Non convincono nemmeno le tre storie scelte e adattate. Soprattutto due, quelle della coppia di sovrani pronta a tutto pur di avere un erede, e quella delle due sorelle vecchie alle prese con il desiderio del giovane re, sono stranamente ondivaghe, partono su un tracciato per poi biforcarsi e biforcarsi ancora e perdersi in deviazioni e altri giri (chi è la figura protagonista del primo racconto: la regina? suo figlio? l’amico del figlio? e quella dell’altro racconto? Il re, la sorella che ringiovanisce o l’altra sorella?), e finisce che l’unica storia ad avere una sua compattezza sia quella delle principessa finita in sposa all’orco. Sono anche affascinanti queste piste narrative che si contraddicono e confondono e che, negandosi e autodistruggendosi, ne generano altre, ma mi paiono alquanto inadatte, nella loro capricciosità e complessità e casualità di sviluppo, a un’operazione di fantasy a destinazione globale che esigerebbe la massima nettezza e linearità. Non è nemmeno così sorprendente e nuovo che si esaltino gli aspetti oscuri e orrorifici della fiaba: il film abbonda di mostri, ferocie, pasti selvaggi, sangue, mutilazioni, scorticamenti, ma è da un bel pezzo, almeno da Freud e Jung, arrivando a Bettelheim, che sappiamo dell’anima nera e delle pulsioni sessuali che si celano nel fondo delle favole e, tanto per dire, ce l’ha ricordato anche il recente, per quanto mediocre, Into the Woods di casa Disney. Non gridiamo al miracolo, please, non parliamo di coraggiosi scoperchiamenti e disvelamenti dei contenuti occulti delle fiabe, perché queste sono ormai ovvietà, e ‘demistificazioni’ che si dicono e si fanno da una vita. Si fa fatica a interessarci a vicende e a figure non così travolgenti, nonostante gli ammiccamenti a temi della nostra contemporaneità, come l’ossessione per l’eterna giovinezza (nella storia delle due sorelle) o l’omosessualità (i due amici-gemelli). E certe sequenze son francamente fastidiose (penso a tutte le scene erotico-orgiastiche, con tanto di lesbismo, con al centro il re sporcaccione Vincent Cassel). La parte migliore mi è sembrata la strana gara cui sono sottoposti i pretendenti della principessa Viola, grazie anche a un’attrice inglese – si chiama Bebe Cave – che sa rendere irresistibile, con un naturale talento per il tragicomico, la scena, e tutte le successive di cui è protagonista. Teniamola d’occhio, potremmo risentirne parlare. Lo splendore figurativo è più perseguito che raggiunto, e solo in alcuni momenti il film ha l’intensità che ci si aspettava, come nella magnifica sequenza notturna del funerale del re o quella finale dell’acrobata misterioso sospeso sopra le teste di sovrani e cortigiani. Nella parte della vecchia ringiovanita ritroviamo la Stacy Martin lanciata da Nymphomaniac di Lars Von Trier. Musica tonitruante e iper narrativa di Alexander Desplat, che azzecca un tema musicale che in altri tempi avrebbe scalato le classifiche. Ma non è più quel tempo, quando a Nino Rota con Juliet’s Theme capitava di espugnare le charts americane. Voto 5

Inside Out di Pete Docter. Fuori concorso.
Si son lette recensioni strabilianti di questo nuovo Pixar movie dopo la prima mondiale di ieri (io l’ho recuperato solo oggi alla Salle du Soixantième). Per molti il miglior film di questo Cannes e il migliore film di sempre di casa Pixar. Dissento. Il concept è straordinario, di una raffinatezza e complessità come poche volte nel cinema di massa. Ma non tutto funziona, anzi. Storia di una ragazzina di nome Riley di undici anni, e delle emozioni di base che regolano il suo cervello, il suo umore, la sua vita. Emozioni che diventano personaggi, e che vediamo agire alla console di un quartiere centrale cerebrale determinando con le loro decisioni quello che capita a Riley e come lei lo percepisce. Idea semplicemente pazzesca, che pure diventa un film di massima godibilità. Leader delle emozioni al lavoro è Gioia, mentre il suo opposto è la cuperrima e sfigata Tristezza. Ma ci sono anche Paura, Rabbia e Disgusto. Si resta ammirati per il coraggio degli autori, e per la sottigliezza della trovata, e per le meravigliose invenzioni narrative (quella trasformazione astratta e cubista di Gioia e i suoi compagni!). E però. Però bisogna pur dire che la trama è contorta e lambiccatissima, che le zone oscure son più di quelle chiare e comprensibili, che il personaggio di Tristezza non si capisce che funzione abbia (e perché Gioia, che l’ha sempre osteggiata, alla fine la apprezzi). Diciamo che siamo, in versione Pixar, tra Il mago di Oz e Inception. Con un aspetto molto, molto inquietante. Che la povera Riley è una marionetta priva di libero arbitrio, il cui agire dipende solo da quel che fanno le Emozioni alla console. E questo, consentitemi, è agghiacciante, è il frutto di una visione meccanicistica e veterodeterministica della mente umana. Tant’è che se nel film al posto delle Emozioni ci fossero, poniamo, delle figure che rappresentano ciascuna uno psicofarmaco, il risultato sarebbe lo stesso. Sopravvalutato. Voto 7 meno

Irrational Man di Wody Allen. Fuori concorso.
Woody Allen con delitto, come Crimini e misfatti e Match Point. Poche battute, e invece sotto con il ritratto allarmante di un professore di filosofia che, imbevuto di boria superomistica, realizza un delitto perfetto. Sciocccando la studentessa Emma Stone che ne è innamorata (lui è un Joaquin Phoenix panzuto, ma di irresistibile richiamo sul genere femminile tutto). Notevole, come sempre quando Woody Allen non fa il piacione e guarda al cuore nero delle cose e della gente. Seconda parte che si ammoscia un po’, diventando un piccolo giallo con goffa scena finale. Ma avercene. Voto 7+

Je suis un soldat di Laurent Larivière. Un certain regard.
Film per metà assai interessante, che va a indagare un’attività illegale poco conosciuta come il traffico clandestino di cuccioli di cane, ma che poi si affloscia e autodistrugge nella seconda parte. Sandrine, trent’anni, ha perso lavoro e casa ed è costretta a tornare dalla madre a Roubaix. Comincia a lavorare dallo zio, proprietario di un canile specializzato in vendita di cuccioli. Un’attività che rende bene. Sandrine non ci mette molto a capire che quei cani arrivano clandestinamente dall’Est Europa, e che lo zio si procura attraverso un veterinario compiacente falsi certificati di vaccinazioni cui i cani non sono mai stati sottoposti. Per un po’ sembra che anche lei voglia entrare nel giro e fare i soldi, ma il punto di rottura arriva quando dei cani acquistati da Sandrine si rivelano malati e muoiono, e lo zio le chiede di rimborsargli la perdita. Segue una crisi devastante, in cui Sandrine si ribellerà ritrovando, abbastanza incongruamente, i sani valori che aveva dimenticato. Il film è bello e importante fino a quando ci mostra le leggi che regolano quell’economia sotterranea e criminale, diventa melenso e moraleggiante quando Sandrine si pente. Con la bellissima Louise Bourgoin, vista in La religiosa di Nicloux, qui deglamourizzata da abitacci maschili. E nella parte dello spietato zio si rivede un irriconoscibile e bravo Jean-Hugues Anglade. Voto 4 e mezzo

La loi du marché (La legge del mercato) di Stéphane Brizé. Concorso. Al protagonista Vincent Lindon è andato il premio come migliore interprete maschile.
Le aspettative erano basse, tant’è che son stato tentato stamattina di evitare la solita levataccia (la proiezione era alle 8.30 al Grand Théatre Lumière, come pomposamente è chiamata la sala grande) e di stare a dormire. Del francese Stéphane Brizé non mi aveva convinto per ninte il precedente Quelques heures de printemps dato un quattro anni fa a Locarno, dove un cinquantenne accompagna la madre malata a farsi l’eutanasia in Svizzera. Con un titolo poi così didascalico e militante, tra Syriza e Podemos, come La legge del mercato, mi aspettavo la solita lagna e invettiva cointro la troika, il capitalismo, il glabalismo, il capitalismo finanziario e quant’altro. Invece a La loi du marché son bastete le prime sequenze per convincermi. Sì, certo, Brizé costruisce meticolosamente e quasi brechtianamente il suo apologo-atto d’accusa contro l’ipercapitalismo arrembante nella sua versione più liberistica, ma grazie a Dio lo fa attraverso lamessa in scena di un racconto esemplare quanto avvincente, con un protagonista cui non puoi non affezonarti, con un’aderenza impeccabile a quanto sta succedendo in decine di milioni di famiglie d’Europa colpite dalla disoccupazione e dalla crisi economica. Thierry, anni 51 – un meraviglioso Vicent Lindon mai così bravo, di commovente dignità anche nei momenti più disgraziati – perde il lavoro, e cominciano le strategie di sopravvivenza,gli affannosi tentativi per stare a galla, con un mutuo ancora da pagare e un figlio disabile e assai capace a carico che ha per obiettivo quello di entrare alla facoltà di biologia, e dunque bisognoso di supporto. La trafila dei colloqui di lavoro, dal vivo o via Skype, con algidi interlocutori di quella branca aziendale detta risorse umane, ma pià disumane che umane, e spesso incarnata da gente futile quano non proterva. La cortesia dei reclutatori sotto cui si cela la durezza e spesso la brutalità, le contrattazioni con il possibile nuovo datore di lavoro che tenta in ogni modo di tirar giù il presso e ottenere la massima disponiblità (“accetterebbe una posizione inferiore a quella che occupava prima?, “è disponibile a orari flessibili?”). E i corsi di formazione. E – agghiacciante – una seduta su come presentarsi nel miglior modo ai reclutatori e fare la giusta impressione (“attento al linguaggio del corpo!”), sintomo dell’abisso e del vuoto cui siamo arrivati nella gestione delle risorse disumanizzate in occidente. Si procede per blocchi, ognuno autonomo, ognuno con un pezzo di vita di Thierry brechtianamente esposto. La ricontrattzione del mutuo e la richiesta di un prestito in banca, la vendita della roulotte per tirar su qualche migliaio di euro. Fino all’assunzione come vigilante in un centro commerciale, alle prese con taccheggiatori e povere ladre di tessere-sconto. Naturalmente viene in mente Due giorni, una notte dei Dardenne, film partito proprio da Cannes l’anno scorso e già diventato un classico del cinema di questa decade. Brizé non ha lo stile così riconoscibile dei fratelli belgi, non ce la a ricreare come loro un mondo a parte di esclusione e sofferenza, non è soprattutto uno storyteller alla loro altezza. Ma non è un regista qualunque, è di quegli autori che redono ancora generosamente nella possibilità di rappresentare la realtà e magari di poterla un po’ cambiare. Diciamo, un Guédiguian dei momenti migliori, ecco. E il suo film così onesto si imprime nella memoria e in quella cosa che un tempo si chiamava coscienza, e non va più via. Voto 7 e mezzo

La tête haute di Emmanuelle Bercot. Fuori concorso.
Nel 1959 il film di un esordiente chiamato François Truffaut lasciò il suo segno sul festival di Cannes con la storia di un ragazzino difficile, malamato in famiglia, finito in un istituto correzionale. Era I 400 colpi, naturalmente. Vedendo stamattina La tête haute, film d’apertura di questo Cannes numero 68, mi son ritrovato a pensare a quel Truffaut aurorale. Anche qui si racconta di un ragazzino – nome: Malony, uno di quei nomi da banlieu che son già da soli uno stigma sociale – che oggi nel linguaggio dell’assistentato sociale si dice difficile, disagiato, disadattato. Certo, Emmanuelle Bercot che sta dietro la macchina da presa e ha co-scritto la sceneggiatura, mica è Truffaut, e però a quel ribellismo senza causa, a quei furori istintualmente anarchici e distruttivi e pure autodistruttivi si riallaccia, e da francese che fa cinema come potrebbe essere altrimenti? Son molti i sussurri polemici nei corridoi del Palais contro le scelte di Thierry Frémeaux, il signor delegato, di fatto direttore artistico, in particolare riguardo alla decisione di aprire con il film di una regista come Bercot considerato minore e inadeguata e di includere in concorso altri cinque francesi tra cui Nicloux, Bizé, Donzelli che non godone certo della stima entusiasta dei giornalisti branché. E si depreca e ci si indigna e si sussurra allo scandalo perché Arnaud Desplechin non è stato messo nella compétition e ha dovuto cercare rifugio politico alla Quinzaine con il suo Trois souvenirs de ma jeunesse di cui si dicon già meraviglie. E però, dico io, i conti si fanno, e i giudizi si danno, a film visti, dunque aspettiamo prime di emettere sentenze anticipate. A me La tête haute non è dispiaciuto per niente, anche se non grido al miracolo (e però insomma l’anno scorso l’apertura con Grace andò peggio), e molti devono averla pensata come me visto che alla fine ho sentito qualche applauso, subito zittito dagli intransigenti, dalle vestali dell’autorialità dura e pura da festival che evidentemente male han sopportato il finale larmoyant. Credo invece che il pubblico soprattutto francese apprezzerà, perché si tratta di una storia popolare, semplice e universale, mille volte vista e raccontata, certo, ma pur sempre in grado di produrre una narrazione avvincente se appena la si sa aggiornare ai contenuti e ai modi della contemporaneità. Operazione che Emmanuelle Bercot sa condurre con mestiere e un bel po’ di partecipazione verso i suoi personaggi. Malony, anni 16, è il solito grumo di rabbia compressa, pronto a esplodere contro tutto e tutti, in attacchi violenti contro cose e persone. Figlio di una madre sola accanto alla quale si succedono vari uomini senza che nessuno se ne stia lì stabilmente, e con un fratellino, Toni, al quale vorrebbe rispamiare la ripetizione cartacarbone della sua vita, Malony è un incazzato con il mondo. Che vuol dire ribellismi a scuola, fuga dalla stessa, teppismi, reati vari con particolare propensione per il furto di macchine e la guida pericolosa, la sua passione. Finisce davanto alla giudichessa dei minori, una Catherine Deneuve monumentale, madre putativa di un nugolo di ragazzi disagiati e disgraziati messi sotto la sua tutela, incarnazione di un potere femminile che ha a che fare con gli eterni archetipi della Grande Madre e della Grande Dea. Deneuve grandiosa, che quando è in scena incenerisce tutto intorno e tutti soggioga, cui basta uno sguardo, un fremito della voce per esercitare il dominio, e spalancare mondi mondi e abissi, e quando alla fine accenna a un pianto è tutta la platea che dà mano ai fazzoletti(cosa che non sarà mai perdonata dai critici più estremi). Il film è il tragitto del ragazzetto tra carcere minorile e istituto di rieducazione dove cercano di contenere le sue esplosioni di rabbia e di incanalarle verso un qualcosa. Ma lui è riottoso, ogni tentativo si dimostra inutile, ogni pur timido miglioramento si rovescia presto in una nuova catastrofe, e l’impresa di condurlo a una possibile convivenza con il mondo sembra fallire più di una volta. C’è di mezzo una ragazzetta, Tess, faccia e modi da tomboy, di cui Malony si innamorerà. Con una parte finale che è la meno convincente, con le sue sbavature sentimentali e un buonismo che non ce la fa a gurdare fisso il male e lo nasconde sotto il tappeto. Ma per almeno la metà e oltre La tête haute tiene, Bercot ce le fa benissimo a costruire il suo main character immergendolo in contesti credibili, facendolo agire e parlare in un lingugaggio che mima efficacemente il broken french delle subculture giovanil-banlieusarde-rappettare. In fondo, questa è la storia di un giovane maschio dal testosterone troppo alto e non tenuto sotto controllo, che passa dalla selvaggeria alla civilizzazione, dalla fase anarchica e violenta di componente del branco a uomo consapevole delle proprie responsabilità sociale. Processo che da tempo immemore nelle varie culture è affidato anche alle donne attraverso il matrimonio e la formazione di una coppia stabile. Anche in questo film è una ragazza a far mettere, letteralmente, le testa a posto a Malony, è una donna-regista a raccontarne esemplarmente il tragitto, è una donna-giudice, Deneuve, a regolare sapientemente le tappe. Film di un femminile protagonista e forte, e di un maschile in ritirata, oscillante tra la violenza distruttrice e l’accettazione di una piatta normalità. Con troppa enfasi su quello smisurato apparato di controllo sociale che si è formato in  Occidente nelle ultime decade attraverso assistenti sociali, educatori, educatrici, tribunali dei minori, centri di recupero. Forse non abbastanza autoriale per aprire Cannes, e però Bercot sa raccontare, sa mettere in scena con efficacia ricorrendo alla solita macchina a mano pronta a buttarsi nella mischia dei suoi personaggi, a restituirne il peso fisico, la consistenza corporea. Gli attori son tutti assai bravi, e anche le star – Deneuve e Benoît Magimel – si spogliano di ogni aura divistica e si calano nella naturalezza della vita secondo i codici mimetici del cinéma-vérité. Sara Forestier, la madre disgraziata, è parecchio cambiata dai tempi in cui ci incantò in La schivata di Abdellatif Kéchiche, ma è sempre brava. Il ragazzino Rod Paradot ricorda da vicino il protagonista di Mommy visto in concorso un anno fa (film con cui c’è qualche somiglianza, e però Bercot non è Dolan, diciamolo). Immaginabile per stasera, alla proiezione ufficiale, un’ovazione per Madame Denueve. Se la merita. Voto 6 e mezzo

La tierra y la sombra di César Augusto Acevedo. Presentato alla Semaine de la critique, dove ha vinto il Prix SACD e il Prix Révélation France. Vincitore della Caméra d’or come migliore opera prima di Cannes 2015.
Un perfetto film terzomondista-miserabilista da festival, di quelli che commuovono pubblico e giurie e si prendono invariabilmente un qualche premio. Difatti La terra e l’ombra è uscito dalla Semain con il Prix SACD. Storia di poverissimi campesiños in una Colombia Infelix dove spadroneggiano i latifondisti della canna da zucchero. Storia di una famiglia composta da padre, madre, bambino di sei o sette anni, anziana nonna. Il padre è a letto malato, non può più andare a tagliare la canna da zucchero e dunque ci vanno le due povere donne, senza peraltro essere mai pagate. Un quadro di desolazione, tutto girato dall’ambizioso regista in una stile altissimo-autoriale fatto di tempi dilatati e ritmi ipnotici, interminabili carrellate, paesaggi e persone riprese spesso a camera fissa onde aumentare il tasso di ieraticità. Tra Bela Tarr e il Nuri Bilge Ceylan più anatolico. Arriva il padre dell’uomo malato, andatosene via anni prima mollando la moglie e il figlio. Sarà lui a dare una scossa a quella famiglia inesorabilmente indirizzata verso l’implosione e la morte. Dappertutto polvere, e la cenere dei campi di canna incendiati. E in casa, finestre sempre chiuse perché il malato non respiri quei miasmi. Il meglio sta nell’atmosfera claustrofobica, nel rapporto malato tra veccia madre e quel figlio come tenuto in ostaggio da lei. Però i manierismi da film da festival sulle sfighe del mondo sono in quantità insopportabile. Voto 5

Le Glace et le Ciel di Luc Jacquet. Film di chiusura del festival. Fuori concorso.
I film di chiusura dei festival son sempre tra le cose peggiori. Questo conferma in pieno la tradizione. Del regista di La marcia dei pinguini un’altra storia, che poi è un biopic, sui ghiacci. Si ripercorre, un po’ con documenti e video dell’epoca, molto con fintissime ricostruzioni di oggi, la vera storia del maggior glaciologo (o ghiacciologo?) di Francia, insomma esperto di ghiacci: Claude Louris, 82enne (e presente stamattina alla conf. stampa). Dalla sua prima spedizione in Antartide – ed è lì che scopre la sua vocazione – agli anni Duemila Con scoperte, pare, fondamentali per stabilire le oscillazioni climatiche del pianeta terra da quand’è nato a oggi. Epopee di mesi e mesi passati in stazioni-buco laggiù in Antartide, ammassati in pochi metri quadri, e 50 sottozero quando fa caldo. Belli i carotaggi, però. Massimo rispetto per Louris, ma la voce fuori campo è di un trombonismo che solo i francesi. E poi tutto un “ma il global warming l’avevamo già predetto decenni fa”, “l’umanità si avvia verso la catastrofe”, etc. Se non sono scappato è perché mi do come regola di vedermi sempre un film, anche pessimo, fino in fondo. Voto 2

Le Tout Nouveau Testament (The Brand New Testament) di Jaco Van Dormael. Quinzaine des Réalisateurs.
Quei mattocchi dei belgi. Il surrealismo dei vari Magritte e Delvaux continua rigoglioso al cinema con registi come Jaco Van Dormael. Il quale con questo Le Tout Nouveau Testament si colloca sulla scia dei Monty Python, con parecchie baroccaggini alla Terry Gilliam e Jean-Pierre Jeunet. Non proprio il mio cinema, ecco. Come dice il pressbook: Dio abita a Bruxelles. E, aggiungo io, vive con una moglie che schiavizza e una figlia di nome Ea che prende a cinghiate (il figlio Gesù Cristo è presente in famiglia solo come statuina di gesso). Insomma, è un pessimo soggetto (lo interpreta Benoît Poelvoorde) che se ne sta chiuso nel suo ufficio a determinare con il computer fortune e disgrazie del mondo e degli umani. Succede che Ea penetra nell’ufficio, sabota il computer, inviando a tutti gli umani sul telefonino la data della loro morte decisa dal papà Dio. Poi scappa di casa, si ritrova per le strade di Bruxelles, diventa amica di un homeless, si mette in cerca di sei nuovi apostoli per scrivere con loro il nuovo Nuovo Testamento. Ci si diverte molto, alcune idee sono geniali, anzi Van Dormael ne spara a raffica, inesauribile. Però ahinoi accanto alla vena derisoria e satirica trapela anche quella del patetico, di un surrealismo purtroppo magico e poetico (il finale, per esempio). C’è anche Catherine Deneuve che tradisce il marito stronzo con un gorilla. Signori, di questo è capace Madame Deneuve. Ma ci pensate a un altro mito del cinema che fa l’amore con uno scimmione? Voto tra il 6 e il 7

L’ombre des femmes (In the Shadow of Women) di Philippe Garrel. Quinzaine des Réalisateurs.
Il glorioso Philippe Garrell imbastisce, come nel precedente La Jalousie, la fenomenologia di una coppia corrosa da tradimenti, gelosie e incomprensioni. Nei modi eterni della Nouvelle Vague e in un bianco e nero meraviglioso su grande schermo. Un cinema che sembra impastato alla vita e nutrirsene, da tanto è credibile e naturale, eppure inequivocabilmente cinema. Pierre è un documentarista, Manon ha mollato una brillante carriera per stare con lui e lavorare con lui. Non hanno soldi e non ce la fanno a essere felici. Quando lui ha una storia con Elisabeth le cose precipitano. Manon accetta la corte di un uomo bello e gentile, e presto arriva la fine di quella che sembrava una coppia inossidabile. Amarsi eppure farsi del male, come abbiamo visto tante volte al cinema e nella vita. Alla fine uno spiraglio si apre. Tra commedia e mélo, ma senza urli. Un gruppo di schiamazzanti haters oggi in sala ha sbertucciato e deriso i due protagonisti e relativi dialoghi, che hanno la sola colpa di riportare quello che tutte le coppie che si tradiscono e si rodono dalla gelosia e dal rimorso si dicono, peraltro scritti (anche) dal mitologico Jean Claude Carrère. Garrel introdue una sottotrama parecchio intressante, quella di un traditore che si è spacciato per tutta la vita come eroe della resistenza, e non si può non pensare al bertolucciano La strategia del ragno. Stanislas Mehrar (visto un quattro anni fa nel formidabile La folie Almayer di Chantal Ackerman) è Pierre, Clotilde Coureau in Emanuele Filiberto è Manon. Fotografia del glorioso Renato Berta. E poi ridono, i ragazzacci. Voto 7 e mezzo

Louder than Bombs (Più forte delle bombe) di Joachim Trier. In concorso.
Il norvegese Joachim Trier, già autore del molto premiato Oslo, 31 agosto, fa il salto con questo Louder thean Bombs verso il cinema di budget medio-alto, in linga inglese e con cast internazionale (Gabriel Byrne, Isabelle Huppert, Jesse Eisenberg). Ma il film è tediosissimo, pretenziosissimo, troppo lungo, troppo parlato, troppo piattamente didascalico. Intriso di insopportabile umanitarismo chic. Di quei film dove tutti fanno mestieri fighissimi, abitano in case da urlo, preparano mostre e se scrivono qualcosa, lo scrivono per il New York Times. Mamma Isabelle Huppert, celebre fotografa di guerra, muore in un incidente stradale, e le conseguenze sulla sua famiglia saranno devastanti. Seguiamo per quasi due ore il marito e i due figli, il maggiore è un furbetto già in carrieta, sposato e neopadre, il secondo un adolescente inquieto e odioso come solo certi adolescenti sanno essere. Sono passati tre anni dalla dipartita di lei, si prepara una mostra con i suoi lavori, e mamma è sempre lì, più incombente che mai. In realtà la sua morte nasconde un segreto, la cui rivelazione fa esplodere i precari equilibri di famiglia. Trier forse pensa a Bergman, ma finisce più col somigliare a Susanne Bier. Con solo una scena potente, alla Haneke, quella dello sputo in faccia alla professoressa amante del padre. Il resto è paccottiglia psicologistica, anche se girata con molto senso dello stile e della contemporaneità cinematografica. Finale tremendo. Uno dei film peggiori. Voto 4 e mezzo

Love di Gaspar Noé. Fuori concorso – Proiezioni di mezzanotte.
Eccolo lo scandalo ampiamente annunciato di questo Cannes, il film sporcaccione-chic del regista argentino-francese Gaspar Noé, già aduso ai pugni nello stomaco dello spettatore avendo realizzato Irréversible e Enter the Void. Attesa pazzesca. Peccato che la prima proiezione sia stata ieri notte alle 0,15, e stamattina il press screening delle 11 era nella piccola quanto famigerata e inaccessibile Salle Bazin. Chiaro che, benché mi sia messo presto in fila, non ce l’abbia fatta a entrare. Per essere sicuro di vedere Love mi sono piazzato in fila davanti alla Salle du Soixantième per l’ultima proiezione, quella delle 16, alle ore 13,45, vale a dire due ore e un quarto prima, non so se mi spiego. Ma questo, signori, è Cannes. Ne valeva la pena? Ecco, io che di Noé sono un estimatore (ritengo Enter the Void uno dei film fondamentali della decade) son rimasto parecchio deluso. L’idea di immettere sesso esplicito e pornografico all’interno del cinema alto non è poi così nuova, soprattutto dopo il fluviale Nymphomaniac. L’ambizione di Noé è quella enunciata dal protagonista del suo film, un giovane filmmaker americano di nome Murphy che dello stesso Noé è una proiezione, se non proprio un alter ego: “Voglio fare un film sull’amore in cui ci sia anche il sesso, cosa che il cinema non ha mai fatto” (non è vero, ma tant’è). E, è ancora Murphy a parlare: “Il cinema deve essere sangue, sperma e lacrime”. Detto fatto. Love è l’applicazione quasi notarile di questi enunciati. Dunque una storia d’amore tra le più classiche e perfino soappistiche, con dentro una quantità massiccia di scopate a due, a tre, pompini, sodomizzazioni e quant’altro. Tutto con macchina da presa a rovistare in ogni anfratto corporeo maschile e femminile. Murphy sta con Omi, da cui ha avuto un bambino. Ma continua a struggersi d’amore per Electra, che lo ha mollato dopo aver saputo che lui aveva messo incinta un’altra, e da allora è sparita, volatilizzata. Pensare che l’altra, Omi, era stata coinvolta inzialmente dalla coppia Murhpy-Electra solo per una triangolazione erotica, quale momentaneo diversivo, e invece ne è poi diventata l’elemento distruttore. Il film è un percorso à rebours che mima Irréversible, e l’ultima scena è quella in cui Murphy e Electra si incontrano per la prima volta. Di sesso ce n’è una quantità, con il pene di Murphy (Karl Glusman) orgogliosamente esibito come uno scettro. Con perfino, visto che il film è in 3D, fiotti di sperma lanciati verso lo spettatore. Ma nel fondo Love resta un film debolmente ipersentimentale e piagnucoloso, con dialoghi spesso sciampistici, e se vogliamo anche l’mmaginario erotico è un filo stantio. Per dire: la fantasia più trasgressiva di Murphy e Electra è quella di coinvolgere a letto un’altra donna, e come massima porconaggine i due vanno in un club di scambisti: che son cose da ragionieri padani anni Novanta in cerca di brividi. Circola, forse volutamente (ma non ci viene spiegato), un’aria retrodatata, come se tutto fosse fissato, supposte perversioni comprese, a un paio di decenni fa almeno. Gaspar Noé cerca di aggirare il banale con una messinscena rigorosa e autorialistica che potrebbe impressionare i critici francesi, con inquadrature quasi tutte frontali e a camera fissa (più qualche lungo piano sequenza che fa sempre chic). Ma così facendo e girando finisce col mimare quei porno finto-alti che trent’anni fa cercavano di vendersi come autoriali. Il meglio del film sta nel suo clima malato e alterato, in un’alterazione delle immagini, della coscienza (anche per l’uso massiccio di ogni droga possibile, oppio incluso) e della nostra percezione. Qui sì che ritroviamo il Noé di Enter the Void. Ma non basta a farne un grande film. Comunque da rivedere fuori dagli stress festivalieri. Voto 6, ma solo per la stima che ho di Gaspar Noé.

Macbeth di Justin Kurzel. Concorso.
Applausi, ma anche molti buuh, i più sonori che si siano sentiti a una proiezione stampa. Ma perché mai? Forse sono le vedove inacidite di Orson Welles che non vogliono che dopo il Maestro nessuno al cinema ci provi più con il Macbeth. Come capitava alle poverette che facevan Traviata alla Scala e venivano subito distrutte dagli inconsolabili della Callas. Invece questo nuova versione di una delle più fosche tragedie shakespeariane è barbara, corrusca e selvaggia al punto giusto. L’australiano Justin Kurzel, al suo secondo lungo, non tenta spericolate reinterpretazione, ma si attiene fedelmente al testo e cerca di cavarne fuori il cuore nero, riuscendoci. “Ci sono scorpioni nella mia mente”, dice Macbeth, e il film dilata queste parole trasformandosi in una specie di lungo delirio. Se qualcuno tira in ballo Il trono di spade prendetelo a calci, semmai qui qualche parentela c’è (nelle scene di battaglia) con il Braveheart di Mel Gibson. Grandissimo Michael Fassbender, nato per essere Macbeth. Ottima Cotillard, Lady Macbeth trattenuta e implosa, lontana dalle isterie della tradizione. Fassy potrebbe portarsi a casa il premio per la migliore interpretazione (e però se la dovrà vedere con Vincent Lindon, Vincent Cassel e Tim Roth). Voto 7+

Mad Max – Fury Road di George Miller. Fuori concorso.
Applausi fragorosissimi per quella che si è rivelato un’opera visionaria assai autoriale e personale, più che un blockbuster furbetto confezionato secondo le regole del marketing . George Miller dopo i tre Mad Max suoi degli anni Ottanta rebootizza il personaggio e se stesso, rifonda e ricomincia la saga, sempre immersa in un futuro post-apocalittico dove alla penuria di energia si aggiunge, modernamente, quella d’acqua. Uomini-mostro si combattono per la sopravvivenza nella solita landa desolata e desertica. Imagerie heavy-punk e anche steam-punk, molto diversa da quella dei supereroistici attuali cui deve contendere il box office (ce la farà?, ho qualche dubbio). Tom Hardy eccellente come al solito, ma sottoutilizzato. I film se lo prende tutto Charlize Theron. Bellissima anche rapata, guercia e con un braccio protesi. Grandioso il combattimento con gli uomini-antenna che oscillano e si abbassano a colpire e uccidere. Voto 7 e mezzo

Marguerite et Julien di Valérie Donzelli. Concorso.
Piaccia o meno, il film evento della giornata (Inside Out a parte)un film che ha lasciato ils egbno e che continua a far suscitare commenti e discussioni. Uno dei film francesi, e di donne registe, fortissimamente voluti da Thierry Frémaux. Valérie Donzelli, il cui La guerra è dichiarata è diventato un piccolo classico, e un culto soprattutto femminile, qui mira altissimo, riscrivendo una sceneggiatura di Jean Gruault destinata a Truffaut però mai realizzata. E ricostruendo con ampi margini di libertà un incestuoso amore tra fratello e sorella, Marguerite e Julien de Ravalet, che scandalizzò la Francia tra tardo Cinquecento e primo Seicento e finì con la condanna a morte della coppia. Devo dire che Donzelli ci mette l’anima in questo film, mostra di avere un’idea di cinema e una visione, tenta la messinscena grandiosa e spettacolare, e mai banale, fregandosene di ogni minimalismo. Massino rispetto per il suo coraggio. Però strafà, deborda, mette insieme un pastiche spesso indigesto mescolando registri diversi e generi diversi. L’idea, buona, è quella di non ricostruire cronachisticamente il caso, o di adottare piattamente le convenzioni del period movie. Donzelli inscrive invece la sua storia nel fiabesco e nel mitologico, ma poi sbanda e va sul melodramma, sul feuilleton ottocentesco, sul romanzo popolare, sul racconto orale. Di tutto. Aggiungete che, per sottolinare come l’incesto sia un tabù rimasto tale per secoli e millenni, condannato ieri come oggi, ambienta la sua storia in un tempo oltre la Storia che mescola il Cinquecento dell’inquisizione ai processi mediatici di oggi (con tanto di microfoni nella corte e uso di elicotteri nella cattura dei due colpevoli), passando per il Settecento e l’Ottocento borghese. Da perderci la testa. Però questo è un film sballato che ne contiene un altro molto riuscito. Sono i venti-venticinque minuti in cui Donzelli, per merito anche della grazia dei suoi due interpreti, Anaïs Demouster e Jérémy Elkaïm, sembra rifarsi a certi amori stilizzati e nobili, da fregio araldico, raccontati da Rohmer (Gli amori di Astrea e Celadon) o Bresson (Lancillotto e Ginevra), con perfino un che di Kubrick, De Oliveira, Charles Laughton (La morte corre sul fiume). Insomma, incredibilmente si sfiora il sublime e poi ci si schianta al suolo del cattivo gusto e del sentimentalismo sciampistico. La prima parte dell’infanzia al castello è tremenda, lo stesso il coro delle bambine. Peccato, occasione buttata via. Voto tra il 5 e il 6

Masaan di Neeraj Ghaywan. Un certain regard. Vincitore come migliore promessa per il futuro (ex aequo con Nahid di Ida Panahandeh).
Film indiano che somiglia parecchio a certi nostri melodrammi popolari degli anni Cinquanta, con ragazze che perdevano l’onore e differenze di classe a ostacolare l’amore. Matarazzo, ma anche certo Alberto Lattuada. Invece qui siamo nell’India di oggi, lungo il Gange, a Vanarasi/Benares. Una ragazza viene sorpresa con il suo boyfriend dalla polizia in una stanza d’albergo, lui si suicida per l’onta, lei rischia di finire in tribunale e di essere svergognata. Anzi, disonorata. Tornerà dal vecchio padre che, per impedire lo scandalo, è costretto a pagare un poliziotto corrotto con il potere di insabbiare tutto. Intanto ecco in parallelo la storia di un giovane uomo che studia ingegneria, ma che, come da sempre nella sua famiglia, brucia i cadaveri sulle rive del Gange, secondo un rituale regolato da rigidi codici. Dopo il rogo, bisogna spezzare il cranio con un bastone “perché l’anima possa scappare via”. Si innamorerà di una ragazza di casta troppo elevata per lui, e saranno dolori. Puro melodramma che pone le questioni delle distanze di casta ancora così stringenti in India, e della condizione femminile. Con, per noi, un sapore di inesorabile inattualità. In India di sicuro Masaan può avere la sua utilità, dando una mano all’abbattimento ci certi tabù sociali e alla cosiddetta modernizzazione. Ma a Cannes? Che senso ha portarlo a Cannes? Voto 5

Mia madre di Nanni Moretti. Concorso. (Recensione scritta all’uscita in Italia del film)
Certo, aggiungere righe ai jalissiani fiumi di parole già versati per questo film – e sono passati solo due giorni dalle anteprime stampa, chissà cosa ci toccherà ancora – mi crea un vago disagio. Ma tant’è. Tiriamo dritto e scriviamo, perché anche un blogger ha i suoi doveri. Avanti, ma per dire cosa? Che questo è un bel film, e lo dico da uno che Moretti non l’ha mai amato molto, e che l’ha retto fino alla stagione di Sogni d’oro e Bianca, poi ha gettato la spugna. Eppure stavolta ci siamo. Moretti fa un passo indietro, anche più di uno, non si mette in prima fila, rinuncia all’egolatria, all’Io espanso che di lui non m’è mai piaciuto, si astiene dalla zavattiniana sindrome del ‘parliamo tanto di me’ che l’ha (quasi) sempre afflitto, quella che, nella mia modesta opinione, gli ha impedito di diventare un grandissimo del cinema facendolo arrestare alla pur rispettabile balza degli autori eccellenti. Resta da vedere se Mia madre sarà solo una pausa, una temporanea deviazione, o un ricominciamento, una specie di autoreboot, per il suo regista (e interprete). Fatto sta che qui Nanni Moretti si colloca pudicamente in un ruolo collaterale, rinuncia a ogni protagonismo e a ogni pompa narcisistica, non si ritaglia nemmeno una delle sue scene mattatoriali, se ne sta discretamente accanto a Margherita Buy protagonista autoconfinandosi nella parte del fratello dimesso, grigio, assennato, devoto alla madre. Una madre cardiopatica che, dicono i medici, si avvicina inesorabilmente alla morte, ed è intorno al suo progressivo spegnersi che il film si struttura, annettendo la parabola della figlia regista di cinema alle prese con un caotico nuovo set, e quella del figlio ingegnere (di cui niente sappiamo, se non che ha preso un’aspettativa per stare vicino alla genitrice, o forse per inguaribile stanchezza di quel lavoro, di sé, della vita), più quella della nipote adolescente alla nonna affezionatissima. Moretti, nel raccontare questa storia familiare, che è anche un po’ la storia familiare sua (ha perso la madre qualche anno fa, professoressa di latino come la signora Ada del film, tant’è che i libri che vediamo nella casa di Giulia Lazzarini son gli stessi della biblioteca materna), racconta la storia di molti, di tutti. Chi della sua generazione non ha avuto o non ha un genitore anziano bisognoso di cure, assistenza, attenzioni perché, semplicemente, è la sua vita che se ne sta andando? Impossibile non riconoscere qualche brandello della propria esperienza in certe scene del film, i ricoveri d’ospedale, le giornate appese alle medicine salvavita, l’affievolirsi della capacità conoscitive della madre, il suo entrare e perdersi in una zona di demenza, e lo strazio di assistere sgomenti e impotenti al decadimento. Sì, in Mia madre si guarda la morte in faccia, ci si fa i conti, anche se, proprio come capita ai due figli della signora Ada, e più alla figlia che al figlio, verrebbe voglia di distogliere gli occhi, dimenticare, raccontarsi palle, autoingannarsi, non ammettere quel che è evidente. E cioè che lei (lui, loro) sta morendo. Questa storia personale e insieme generale Moretti la racconta al massimo possibile del pudore, della sobrietà, andando di sottrazione in una messinscena così priva di orpelli, così disadorna da sembrare a momenti qualunque e perfino sciatta. Ovvio che non è così, è se mai una gran prova di maturità registica questo mimare, riuscendoci, il tono, il suono basso e quasi impercettibile, della realtà. Per centrare l’obiettivo Moretti non si tira solo vistosamente indietro, rinuncia anche a fabbricare battute seriali, di quelle che deliziano i suoi estimatori e che sono entrate pure nel lessico collettivo italiano, e solo qua e là il suo acido corrosivo erompe e zampilla in parole che graffiano e si stampano nella memoria, ma siamo a livelli quantitativi assai inferiori alla media morettiana. Io, che al massimo ricordo il suo ‘faccio cose e vedo gente’, non me ne dolgo, anche perché son convinto che le battute ben riuscite possono diventare una patologia d’autore quando son fini a se stesse, macchinette celibi, servendo magari a mascherare vuoti drammaturgici e insufficienti architetture narrative. D’altra parte, qui c’è poco da ridere, e pure da sorridere. Nel ritratto di famiglia che è Mia madre il centro è lei, la signora Ada (ma quant’è brava Giulia Lazzarini, che non ci son parole per dirlo), che dopo una vita dedicata ai suoi allievi e ai figli se ne va via, per il resto c’è poco spazio, ed è giusto così. In tutta evidenza il personaggio di Margherita, regista nevrotica, scorticata e brusca benissimo resa da una Buy alla sua prova più difficile, è proiezione e riflesso dello stesso Nanni Moretti, è modellato a sua immagine, e anche questo è coraggio: l’aver rinunciato, intendo, a costruire il film intorno a un regista uomo molto somigliante a Moretti, magari chiamato Michele Apicella e interpretato da Nanni Moretti. Si dirà: ma questo dissimularsi di Moretti dietro la Buy, il suo tenersi in disparte e però sempre raccontando di sé, seppure meno smaccatamente e con più mediazioni, altro non è che una forma più sofisticata di narcisismo. Mi allontana dal centro della scena per meglio esserci (morettianamente: mi noteranno di più se ci sono o non ci sono?). Ma, come lo stress, c’è un narcisismo cattivo e uno buono, e questo, ammesso che narcisismo sia, è buono, non è invadente, presta il materiale – pezzi di sé – per costruire una storia universale, e allora ben venga.
Moretti non rinuncia a una corposissima sottotrama che si affianca all’asse narrativo costituito dal legame tra madre e figli, ed è quella del film (che francamente mai andrei a vedere) che Margherita sta girando tra molte paturnie e difficoltà, alle prese con un attore venuto dall’America – è John Turturro, che ormai monopolizza le parti di americano in Italia nei nostri film, vedi Tempo instabile uscito la scorsa settimana. Una sottotrama che serve da alleggerimento, per introdurre quelle note più tradizionalmente, tipicamente morettiane, e che, nelle schermaglie sul set tra la regista e il suo attore, qualche sorriso lo induce in platea, allontanandoci dai climi plumbei delle corsie d’ospedale. Quella di deviare dal corso principale della storia verso una sottostoria Moretti l’ha fatto anche nel precedente, e meno riuscito di questo, Habemus Papam, colla godibile ma del tutto superflua e ininfluente parte dello psicanalista (interpretato da lui, of course) alle prese con i cardinali. Se vogliamo, anche in Mia madre tutta la narrazione del set potrebbe essere piallata via senza intaccare il nucleo vero della narrazione, anzi esaltandolo (così avrebbe fatto un Bergman, per dire), e l’averla mantenuta può essere visto come un segno di debolezza da parte degli autori. E però. Però Moretti sa cavare da questa sottotrama un po’ troppo furba e di alleggerimento un film parallelo pieno di notazioni interessanti, un altro film che in qualche misteriosa e sotterranea maniera riesce a connettersi con la storia della madre morente. Ho avuto l’impressione che, proiettandosi nella regista Margherita, Moretti abbia girato, magari inconsapevolmente, il suo Otto e mezzo (scusate, forse sono io a essere ossessionato da quel remoto ma sempre vitalissimo capolavoro di Fellini, tant’è che lo vedo continuamente rifatto e citato e omaggiato in produzioni di ragazzi di ogni parte del mondo). Mica per niente Mia madre è disseminato di indizi e citazioni felliniane. L’attore americano a Roma, in una rivisitazione della Hollywood sul Tevere di La dolce vita e Toby Dammit. La canzoncina-tormentone di Nino Rota Bevete più latte che scandiva l’episodio di Fellini di Boccaccio ’70 Le tentazioni del dottor Antonio, qui cantata in macchina da Margherita, dall’americano e (se ricordo bene) dall’aiuto regista. La conferenza stampa di Margherita, molto somigliante a quella di Mastroianni che in Otto e mezzo si sottrae ai giornalisti. Le convulse riprese di Turturro in macchina, simili a quelle sul raccordo anulare in Roma. E la madre. La madre Ada dolente e insieme indomita di Giulia Lazzarini che a me, solo a me?, ha riportato alla mente quella, revenante, di Guido sempre in Otto e mezzo. È in lei, nella figura materna, nel suo esserci e nel suo sparire e insieme nel suo non andare mai via, nella sua persistenza, che si saldano il film principale e quello laterale-parafelliniano di Mia madre. Voto 8+

Mon Roi di Maïwenn. Concorso. Emmanuelle Bercot ha vinto il premio come migliore attrice ex aequo con la Rooney Mara di Carol.
Cannes l’aveva lanciata qualche anno fa con l’assai bello Polisse, adesso di Maïwenn si tenta la consacrazione a regista di rango con questo Mon Roi. Operazione mica tanto riuscita. Film liquidato perlopiù come una scioccherella romantic comedy alla francese e invece niente male, solo che non è quell’opera davvero importante che ci si aspettava, ecco. La lunga, travagliatissima, contorta storia tra l’avvocatessa parigina di futuro successo Tony (Emmanuelle Bercot, sì, la regista del film d’apertura di questo Cannes La tête haute) e il ristoratore – mestiere coolissimo, si sa – Giorgio. Ovvero un Vincent Cassel al massimo dell’istrionismo, con un che del migliore e più spudorato Vittorio Gassman. Un gaglioffo, un puttaniere sempre pronto a tradire e mentire, se necessario a truffare. Quando Tony lo incontra (s’erano sfiorato qualche nano prima) ha ancora una gamba imbragata per incidente da sci, ma tra i due è subito sesso travolgente. Lui ha un’altra, e continua a tenrsela, anche se sfacciatamente nega l’evidenza. Arriva un figlio chiamato, poveretto, Simbad. Tutto un mollarsi e poi riprendersi e poi lasciarsi. Tutto un rinfaccio e adesso ti distruggo, ti rovino, per poi riacchiapparsi e scopare con gran godimento. E per dieci anni, mica due o tre. Troppo lungo – due ore e dieci minuti, mannaggia – però assai vispo, con parecchie idee e invenzioni, molto corporale, molto contemporaneamente girato con macchina prensile e nevrotica, gran ritmo, dialoghi-mitraglia benissimo scritti in quel francese sporco ormai dilagante. Cassel enorme, da premio per il migliore attore. C’è anche Louis Garrel, nella parte del cognato, ed è una presenza ectoplasmatica. Ma perché l’han chiamato per poi fargli fare così poco? Ottima l’idea del gruppo in riabilitazione post-traumatica che ciconda di affetto proletario Tony.Come moglie di Garrel c’è Isild LeBesco, che poi della regista Maïwenn è la sorella. Voto 6+

Mountains May Depart (Shan He Gu Ren) di Jia Zhang-Ke. Concorso.
Sulla carta, e prima del press screening, era considerato uno dei favoriti per la Palma. Ma il film di Jia Zhang-Ke, la cui proiezione stampa è stata funestata da problemi tecnici (sottotitoli inglesi non funzionanti, immagini sovrapposte, sonoro troppo alto), ha abbastanza deluso, o perlomeno ha suscitato forti perplessità, anche se alla fine l’applauso dei molti supporter è stato calorosissimo. Feuilleton girato nel suo stile robusto, e con la consueta muscolare carica emotiva (e lavorando più di accetta che di cesello), dal cinese Jia Zhang-Ke. Nella Cina anni Novanta in rapida crescita economica due amici amano la stessa donna, ma lei, Tao, sceglierà e sposerà il più furbo, quello che ha fatto i soldi e ancora di più ne farà. Quando nascerà il loro figlio, lo chiameranno Dollar. Molti anni dopo l’amico abbandonato torna nella hometown, ormai malato in fase terminale, mentre Tao ha divorziato e si è vista portare via il figlio dal marito diventato nel frattempo un caid della finanza a Shanghai. Il terzo atto di Mountains May Depart si svolge nel futuro, nel 2025, in Australia, in una Melbourne assai affluente, ed è una resa dei conti affettiva e con la propria identità, con le proprie radici. Con Dollar ormai ventenne che faticosissimamente recupera la sua cinesità rimossa e dimenticata e, chissà, forse anche una qualche vicinanza con la madre. Momenti formidabili e potenti (come il funerale del nonno), ma la terza parte è assolutamente balorda. Con personaggi persi per strada di cui non ci viene più detto niente, come l’amico malato. Chiara l’intenzione di raccontare attraverso la storia di Tao, dei suoi due amici, e di suo figlio, la storia maggiore della Cina, la sua trasformazione in paese socialista-capitalista e in superpotenza economica con l’avvento dei nouveaux riches selvaggi e vitalistici. Altrettanto chiaro il j’accuse del regista, che già aveva fatto lo stesso nel precedente A Touch of Sin, alla Cina che ha smarrito se stessa. E i ravioli che nonostante tutto mamma Tao non ha mai smesso di preparare diventano il simbolo di un qualcosa che deve restare, che non può essere buttato via con la modernizzzione. Mamma Tao è la Grande Madre Cina, come la Maria Braun di Fassbinder era la Germania della ricostruzione. Mountains May Depart è un film imperfetto ma potente, grandioso e insieme spudoratamente sgangherato e kitsch. Potrebbe crescere con il tempo. Da rivedere. Voto 7

Mustang di Deniz Gamze Ergüven. Quinzaine des Réalisateurs. Premio Label Europa Cinemas.
L’applauso più lungo che ho sentito a questo Cannes è stato oggi alla Quinzaine per Mustang, film turco con dentro però parecchio di francese (i capitali, la cosceneggiatrice, che è poi Alice Winocour, la regista di Maryland dato a Un certain regard). Una storia di giovani donne oppresse e conculcate, e di una difficile emancipazione, di quelle che destano sempre l’adesione entusiasta nelle platee festivaliere sinceramente democratiche, umanitarie e politicamente corrette. Turchia, anzi Anatolia profonda, dalle parti di Trabzon/Trebisonda, mille chilometri da Istanbul. Cinque sorelle orfane (non si sa a causa di cosa), tutte teenager, allevate dalla nonna e da uno zio, entrami iper tradizionali. Alla fine dell’anno scolastico le ragazze hanno la cattiva idea di festeggiare tuffandosi in acqua con alcuni ragazzi. Costerà alla maggiore di loro la fama di disonorata. Bisogna dunque correre ai ripari, e così nonna e zio chiudono in casa le sorelle per preservarne la verginità e si dan subito da fare per procurare un marito alla più grande, la più compromessa. Che però un fidanzato segreto già ce l’ha. Oh, come si indigna la platea di fronte a certe barbarie quali il matrimonio imposto/combinato, e come freme la coscienza progressista. A me è sembrato di ripiombare in uno di quei film italiani anni Cinquanta-Sessanta con dentro l’ossessione della verginità, la fuitina, il matrimonio riparatore, quando si rideva sguaiatamente alle spalle dei siciliani considerati, pure con un certo razzismo, il massimo del sottosviluppo cuturale. Per carità, il film è furbo e si lascia guardare volentieri, nella sua parte commedia come in quella drammatica. Perché a un certo punto dramma sarà. Ma la repressione sarà sconfitta, non temete. Attenzione, potrebbe diventare un successo internazionale, ne ha tutti i segni di predestinazione. Voto 5 e mezzo

Ni le ciel, ni la terre di Clément Cogitore, Semaine de la Critique. Premio ‘Aide da la Fondation Gan à la diffusion’.
Ieri sera corsi di recupero alla Semaine, alla riproiezione dei film vincitori. Uno, l’argentino Paulina, vincitore del premio Nespresso, il maggiore, quello assegnato dalla giuria presieduta dall’attrice-regista israeliana Ronit Elkabetz, l’avevo già visto (e già recensito). Ieri alle 19,30 mi son messo invece in fila (fila modesta rispetto a quelle del Palais) per questo film francese che per me è stato una quasi-rivelazione. Uno dei meno omologati di tutto Cannes, al confine tra cinema di genere e ricerche visuali, anche se abbondamente imperfetto, con sbandate nella parte finale. Ma quel che viene prima è davvero molto interessante. Siamo in Afhganistan, nel territorio tenuto sotto controllo delle truppe francesi della coalizione Isaf. In un fortino in mezzo al nulla, solo montagne, pietraie, un villaggio infido a una qualche distanza, il capitano Antarès Bonassieu comanda un manipolo di uomini. Fino a che due dei soldati, dislocati in un punto di osservazione oltre il fortino, scompaiono misteriosamente. Rapiti dai Talebani? Da da Al Qaeda che lì vicino si è rifatta sotto minacciosamente? Uccisi? Rapiti per riscatto? L’incertezza, la rabbia, la paura cominciano a impossessarsi dei militari di quell’avamposto nel niente, non così diverso da quello del Deserto dei tartari. Altri due scompariranno, senza che il minimo indizio lasci intuire un razionale perché. Un mistero. Ci sono strani fenomeni, sogni comuni a più di un soldato in cui si sognano gli scomparsi, dormienti in una grotta. Si stabilisce una tregua con il nemico, che ha pure misteriosamente perso un uomo. Si azzardano interpretazioni religiose, tirando in causa una sura del Corano, quella degli uomini addormentati nelle caverne. Il regista crea man mano un clima di allucinazione e alterazione della mente, anche attraverso riprese effettuata attraverso i visori a infrarosssi e le altre tecnologie di individuazione visuale. Il capitano sembra entrare in una zona di follia, in un clima che ricorda quello della parte terminale di Apocalypse Now. Quello che segue è il tentativo da parte del regista di uscire dall’impasse narrativo trovando una soluzione, ma è quanto convince meno del film, e non mancano nemmeno scivolate nel misterico dozzinale da new age (“c’è sempre un mondo parallelo a questo mondo”). Il film invece è assai bello quando fa montare l’onda dell’inconoscibile, del nemico invisibile, quando il non razionale spariglia le carte della realtà. Riesce a Cogitore, regista che viene dalle sperimentazioni art, quello che non è riuscito al Nicloux di Valley of Love, saldare realismo e mistero. Non il solito Afghanistan-movie. Meriterebbe una distribuzione italiana. Voto 7

Paulina di Santiago Mitre, presentato alla Semaine de la Critique, dove ha vinto il premio Nespresso assegnato dalla giuria.
Ci sono andato per sbaglio, credendo che dessero Les Anarchistes, proiettato invece in un altro cinema, e poi ci son rimasto. Anche perché il regista, l’argentino trentenne Santiago Mitre, aveva portato qualche anno fa a Locarno un buon film, El Estudiante, ritratto di un furbetto in carriera politica, e dunque mi intrigava questo suo nuovo lavoro. Certo che l’inizio fa cascare le braccia. La benestante Paulina, ottima famiglia, ottime prospettive di carriera come avvocato, decide di mollare Beunos Aires e andarsene in una landa desolata dell’Argentina ai confini con Paraguay e Brasile a fare l’insegnante di, diciamo così, educazione civica, ma sarebbe il caso di dire di democrazia. Sembra la solita lagna terzomondista, ma c’è un clamoroso twist quando Paulina viene stuprata da un torvo tizio di nome Ciro. Quel che segue, anche se raccontato con piattezza, è però parecchio intressante. Paulina non solo non denuncia il suo violentatore, pur sapendo chi è, ma, una volta scopertasi incinta, decide di tenere il bambino. Con disperazione del borghesissimo padre, e sembra di rivedere il recente La scelta di Michele Placido. A conferma che al cinema oggi non si abortisce: l’aborto, almeno sullo schermo, è stato messo fuorilegge. Il film non va granché a fondo, e però qundo il padre chiede a Paulina “se a violentarti fosse stato il tuo fidanzato avresti abortito?”, lei risponde: “Sì, avrei abortito”. E allora signora mia si aprono abissi. Perché Paulina non denuncia e si tiene il figlio dello stupro? Per quella solidarierà agli oppressi che ha sempre predicato, anche se gli oppressi se ne fregano di lei? Come si vede, c’è materia per parecchie discussioni, anche se il film di suo non è gran cosa. Voto 6

Saul Fia (Il figlio di Saul) di Laszlo Nemes. Concorso. Vincitore del Grand Prix.
Forse il film di questo Cannes. Tutti, prima della proiezione, in fremente attesa del capolavoro annunciato. Perché per Saul Fia lo stesso delegato genrale Thierry Frémaux aveva speso parole inusuali di elogio nella conf. stampa di presentazione del programma. Opera prima – l’unica del concorso – di un cineasta ungherese allievo di Bela Tarr, che è una credenziale di peso, altroché. Un film sulla Shoah, una storia insostenibile. Che non può non porci di fronte all’eterna questione: ma è possibile rappresentare quell’orrore? non è che ogni rappresentazione è in una qualche misura un tradimento? ed è possibile mantenere per lo spettatore di fronte a un film sulla Shoah un distacco critico? Bisognerà riparlare, di Il figlio di Saul, che sicuramente si prenderà più di un premio, e magari anche la Palma. Da dove partire per darne un’idea? Ecco, siamo in un campo di sterminio. L’ebreo ungherese Saul è un Sonderkommando, uno di quegli internati scelti per spogliare coloro che vengono condotti alla camera a gas, per ripulire le camere dopo ogni ‘operazione’, per bruciare i cadaveri nei forni, per spargere le ceneri nel fiume. Gente che dopo pochi mesi viene a sua volta uccisa peché non possa raccontare quel che ha visto e ha fatto. (Attenzione: esiste anche un libro dal titolo Sonderkommando Auschwitz scritto da Shlomo Venezia, un ebreo romano che ad Auschwitz è sopravvissuto). Un giorno tra i corpi tirati fuori dalla camera a gas c’è anche quello di un ragazzo, è il figlio di Saul. Che da quel momento ha solo un obiettivo in testa: dargli sepoltura degna, trovare un rabbino che reciti per lui il Kaddish. Antigone nei lager. Intanto nel campo è, letteralmente, l’inferno. Nemes ha un’idea forte e precisa di cinema, e la applica al suo racconto con coerenza assoluta. Macchina da presa sul volto del suo protagonista, e pronta a seguirlo nel suo affannarsi in quella bolgia demoniaca in lunghi piani-sequenza, a simulare il tempo reale. Intorno a Saul tutto, uomini e cose, è sfuocato, indistinto, e questo consente a Nemes di sfuggire almeno in parte al dilemma della non rappresentabilità dell’orrore. Capolavoro? Non saprei. Certo, la scelta stilistica forte di seguire con la macchina da presa la faccia e il corpo di Saul nella bolgia ci fa precipitare noi stessi nell’orrore, ce ne rende partecipi, come mai prima in un film sulla Shoah. Straordinariamente girato e di inaudita potenza, soffre di qualche inverosimiglianza. Com’è possibile nascondere abbastanza a lungo un cadavere in un luogo ossessivamente controllato come un campo di sterminio? Ma bisognerà pensarci ancora su, a Il figlio di Saul. Voto 7 e mezzo

Sicario di Denis Villenuve. Concorso.
In un festival che finora ha fatto vedere pochi film davvero notevoli, a differenza dell’anno scorso dove c’era un’abbomdanza qualitativa da lasciare senza fiato, fa la sua ottima figura anche un prodotto di genere come questo Sicario. Diretto dal québecois Denis Villenueve, già regista del capolavoro Incendies – La donna che canta e del tortuoso e malato Prisoners, e qui prestato – non è la prima volta -  al cinema americano. Luridissima storia, sporca e cattiva, et pour cause, essendoci dimezzo la guerra statunitense – con pericolose alleanze però nella Latinoamerica – ai cartelli messicani, clan ormai paramilitari e padroni di intere regioni, e tra le realtà più feroci sulla faccia della terra. Sicario è un film di genere, un action che si incrocia con il genere bellico, tant’è ch nelle prime sequenze di invasione militare dei territori messicani sotto controllo dei narcos ricorda il cinema degli ultimi quindici anni sulla guerra americana allo jihadismo e sui confliti irakeno e afghano. Juarez, cittadella dei signori della coca, come la Baghdad di The Hurt Locker, la Falluja di American Sniper o, per tornare più indietro, la Mogadiscio di Black Hawk Down. Denis Villeneuve tira fuori tutto il suo senso per il male e per il massacro, per la strutturale, genetica violenza umana. In una messinscena che trasforma una storia di genere in discesa all’inferno. Con parecchi twist, e, molto à la Villeneuve, con l’abbattimento di ogni barriera tra buoni e malvagi, essendo tutti malvagi, a parte l’angelica agente Fbi Emly Blunt cui tocca, come dire, rappresentare il raggio di luce nelle tenebre. Qualcuno dopo la proiezione di stamattina ha mugugnato, lamentandosi che un film così non è da festival, non è da Cannes. Non sono d’accordo. Villenueve imprime il suo segno su ogni scena, e autorialmente fa proprio il film, pur rispettando le convenzioni del genere fino in fondo. Ricorso oltre oltre la media e la norma del campo lungo, a confondere i protagonisti con il paesaggio e la folla, minimizzandone quando non necessario gli atti e le parole. Perché tutti, protagonisti e comprimari e anonimi, sono ugualmente partecipi, vittime o carnefici, del grande massacro, tutti sono dei vivi già all’inferno. Una squadra speciale di agenti americani messa in piedi non si sa bene da chi, ma di sicuro con l’avallo dei mssimi vertici della federazione, appronta una missione che non intende solo arginare il narcotraffico, ma distruggere  i potentati messicani che lo organizzano e controllano, mantenendo il potere attraverso il terrore. Si ingaggia un’agente dell’Fbi (Emily Blunt) già adusa a missioni impossibili e un suo collega e amico, ma i due sono tenuti all’oscuro di molti segreti e retroscena. A guidare la missione, insieme al capo americano della squadra, un uomo che si dice procuratore messicano, ma che si rivelerà essere ben altro. Fino alla resa dei conti finale, un bagno di sangue che è pura tragedia greca e/o teatro elsisabettiano, dove anche gli innocenti paghranno. Il bene non sta da nessuna parte, sembra dirci Villeneuve con un altro dei suoi cupi affreschi. Benicio Del Toro è il misterioso uomo venuto da oltre la Frontera, Josh Brolin il disincantato responsabile dell’operazione. Difficile che Sicario si prenda un premio, però il diritto di piena cittadinanza a Cannes se l’è ampiamente  conquistato. Molti gli applausi al press screening. Voto 7

Taklub (Trap) di Brillante Mendoza. Un certain regard.
Il più famoso regsta filippino insieme a Lav Diaz gira un affresco sui sopravvissuti al tifone Hayan che ha devastato il paese. Tra documentarismo e fictionalizzazione, ritratti di gente che non aveva niente e che è rimasta anche senza quel niente. Ognuno con i suoi morti da piangere, una vita da rimettere in sesto. Donne coraggiose che tengon insieme come possono i pezzi rimasti della famiglia. Un incendio che devasta la tendopoli degli accampati. Il rifugio nella religione e nei suoi riti. Mendoza gira benissimo, e questo lo sapevamo già. Ma non ce la fa ad andare oltre l’edificante e il convenzionale, e i momenti di forza sono pochi. Anche se la lunga sequenza della tempesta e della minaccia di un nuovo tsunami è straordinaria. Degli effetti di un tifone delle Filippine si era già occupato Lav Diaz con il documentario Storm Children, Book 1, presentato allo scorso Torino Film Festival e migliore di queto Taklub. Voto 5 e mezzo

The Assassin di Hou Hsiao-Hsien. Concorso. Vincitore del premio per la migliore regia.
Fermato da una minitroupe tv cinese all’uscita di The Assassin dalla Salle Debussy, un ragazzo ha commentato questo elegantissimo, estenuato wuxiapian del venerato maestro taiwanese Hou Hasia-Chen con il gesto del sonno: testa reclinata e appoggiata alle mani unite. Linguaggio dei segni che non aveva bisogno di traduzione per dire: letargico. Certo ci vuol pazienza, e i giovani signora mia si sa che non ne hanno troppa, per apprezzare e voler bene a questo film alieno, anomalo, fuori da ogni medietà e anche dal genere wuxiapian in cui vien facile collocarlo, genere qui usato solo come cornice riconoscibile per una messa in scena che si autonomizza subito dalla convenzione puntando sulla lentezza ieratica anziché sulla velocità survoltata dei soliti duelli acrobatici, su un’epica da camera in ambienti ridotti e spesso tenebrosi, con pochi personaggi e senza scene di massa. Una lezione di stile, e anche di moralità cinematografica. Prendere una delle forme narrative che hanno fondato il cinema cinese e ne sono diventato il marchio per svuotarla dal di dentro, essenzializzarla, asciugarla. Operazione che ricorda quella fatta sempre sul wuxiapian, anche se su un versante stilistico molto diverso, da Wong Kar-wai tre anni fa con The Grandmaster. Hou Hsiao-Hsien in questo cappa e spada da camera e da palazzo si scatena in una sontuosità visiva che, più che scenografica, è coloristica, a comporre quadri viventi, spesso a camera fissa (solo nella seconda parte la mdp comincia a muoversi, e sempre più sinuosamente) che sono un tripudio di blu, rossi, oro, viola, rosa, verdi. Un incanto, ecco, e fa niente se l’azione latita, la lentezza è asiaticamente maestosa e si rischia l’abbiocco. Quel che conta è la bellezza, e costruire una narrazione che si faccia rito, cerimonia, spettacolo ipnotico, veicolo dell’inconscio. Si parte con un prologo in bianco e nero, su sfondo di vertiginosa squisitezza composto da ciliegi in fiore. Quando il colore esplode, comincia l’azione, anche se sottoposta al massimo possibile della sobrietà, del rigore, della rarefazione. Siamo distanti dal cinema colossale e action di Tsui Hark e anche dai wuxia di Zhang Yimou, qui è tutto raccolto, intimo, pudico, come un racconto orale attorno a fuoco. Tende che nascondono minacce, giade rivelatrici, spade e pugnali che saettano, dame vestite di nero e dame vestite di bianco ugualmente pericolose. Torce nella notte, danze di concubine e del loro sovrano, una corte familiare e domestica però di strabiliante perfezione formale. La storia? Abbastanza nebulosa, ma che importa, in fondo è solo un pretesto per scatenare la maestria di Hou Hsiao-Hsien e la sua dedizione al cinema e alla tradizione storica. Siamo nel settimo secolo, in una Cina dove la debolezza del potere centrale ha fatto fiorire province sempre più autonome e più potenti. In una di queste, Weibo, si nuove una letale donna-killer addestrata da una monaca biancovestita con la missione di uccidere i tiranni. E suo bersaglio diventerà anche il cugino, un tempo suo promesso sposo, adesso seduto sul trono. Tra agguati fuori e dentro il palazzo, complotti e tradimenti, gli ex innamorati si ritroveranno drammaticamente faccia a faccia. Se a un primo livello The Assassin ci sembra solo un esercizio di stile, ci si rende conto a una certa distanza dalla visione di come abbia invece lavorato sulla nostra percezione e sul nostro sguardo potenziandoli, inducendoci a vedere il non visto. Voto 8

The Lobster di Yorgos Lanthimos. Concorso. Premio speciale della giuria.
Ci si aspettava un gran film, e grande film è stato. Il migliore tra i cinque presentati fino a oggi in concorso. Nel solito futuro vicino, malato e distopico, i single sono messi fuorilegge, rieducati in speciali hotel acciocché si trovino un partner e mettano su coppia e si sistemino. Se non ce la faranno entro il termine prestabilito verranno trasformati in animali (e però almeno possono scegliere che bestia diventare: quasi tutti optano per cane e gatto, ma il protagonista sceglie l’aragosta: che ci sia un riferimento a David Foster Wallace?). Un mite singolo in rehab a un certo punto scappa dall’albergo-lager e si unisce ai singoli ribelli che fan la resistenza al regime naturalmente nella foresta (campagna contro città, un classico delle rivoluzioni). Solo che pure loro son totalitari e intolleranti quanto il regime che combattono, tanto da proibire alla gente di metter su coppia e famiglia, punendo nel modo più atroce chi sgarra. Capita la parabola? Lanthimos monta un racconto perfetto nella prima parte, di un surreal-perverso con parecchie citazioni da Kafka, Ovidio, Tati, The Hunger Games. Si perde un po’ nella seconda, ma riagguanta il film nel finale confezionandoci una chiusura memorabile. A questo punto perché non ipotizzare la Palma d’oro? Voto 8+

The Other Side (Louisiana) di Roberto Minervini. Un certain regard.
Molto atteso questo documentario di un giovane regista marchigiano trasferito da tempo in America e lì operante come filmmaker indipendente. Il suo precedente docu Stop the Pounding Heart, lanciato propri a Cannes due anni fa fuori concorso, lo ha fatto conoscere nel giro dei festivalieri. Adesso è arrivata la convocazione per Un certain regard. The Other Side è quella parte di America povera e ai margini, quella che non vediamo, non conosciamo, non finisce sotto la lente dei media. Minervini porta la sua macchina da presa in una parte lontana da ogni possibile centro, in una Louisiana dei margini, tra tossici-spacciatori, povericristi che si fanno e strafanno di alcol e ogni sostanza. Una lapdancer incinta, una tizia che si fa fare le pere di eroina nei seni (in tutti e due) o, in alternativa, al polso. Non è la prima volta che il cinema va a rovistare nel white trash, si pensi a Un gelido inverno, a Re della terra selvaggia o al remoto Un tranquillo weekend di paura. Minervini ci aggiunge un iperrealismo che non ci risparmia nulla, anche se fatichiamo a capire dove voglia andare con il suo film. Con, spesso, un’eterogenesi dei fini, tant’è che il tossico Mark, che dovrebbe testimoniare l’abisso e il degrado, alla fine si trasforma in un protagonista di irresistibile simpatia (e le scene con la mamma malata portano lo spettatore tutto dalla sua parte). I limiti sono un cronachismo che non ce la fa mai ad andare oltre l’accumulo di dettagli e singoli episodi, spesso ripetuti e ridondanti, e una spaccatura netta del film tra la prima parte dedicata ai tossici e la seconda sull’esercitazione militare di un gruppo di reduci delle varie guerra, gente che dovrebbe farci capire il lato oscuro e violento dell’America. Secondo un cliché che però abbiamo visto fin troppe volte. Il film esce in Italia il 28 maggio con il titolo Louisiana. Voto 6

The Sea of Trees, un film di Gus Van Sant. Concorso.
Fischi e buuh, purtroppo meritati. Pensare che per almeno un’ora Gus Van Sant ci illude di aver centrato dopo tanto tempo il grande film. Sì, quel vagare di due uomini, un americano e un giapponese, in quella che chiamano la foresta dei suicidi, ai piedi del monte Fuji, è un pezzo di cinema incantato e sospeso. Con un Van Sant che senza retorica e trombonisni ecoverdi sa raccontarci le traiettorie di due aspiranti suicidi connettendole malickianamente alla natura e al ciclo cosmico (grazie anche a un montaggio formidabile e fluidissimo di Pietro Scalia). E pure la storia in flashback dell’americano (un bravissimo al solito Matthew McConaughey) con la sua partner è di un secchezza e di un rigore inusuali. Poi tutto precipita nell’ultima mezz’ora, in un imbarazzante delirio new age di fiori che sono anime spiranti e migranti, foreste che sono la porta del paradiso, presenze che sono spiriti protettivi e così via, correndo verso il precipizio dell’imbarazzante. L’ultima parte di The Sea of Trees è quanto di peggio si sia visto al cinema da parecchio tempo in qua. Ma cosa è successo a Gus Van Sant? Voto 4

Trois souvenirs de ma jeunesse di Arnaud Desplechin. Quinzaine des réalisateurs. Vincitore del Prix SACD alla Quinzaine.
Bellissimo. Forse il miglior film visto fino a oggi a questo Cannes. Tant’è che si capisce sempre meno perché non sia stato messo in concorso e sia stato intercettato invece dalla Quinzaine. S’è detto: già troppi film francesi nella compétion, cinque, più il film d’apertura della Bercot fuori concorso. Non c’era più posto. Ma non sta in piedi come spiegazione, impossibile che i cinque film francesi siano meglio di questo meraviglioso Desplechin, qui al suo massimo, e in stato di grazia dopo il deludente Jimmy P di due anni fa. Un classico racconto semiautobiografico, o almeno con parecchi echi autobiografici, di formazione in quel di Roubaix, non allegra provincia nord-francese, la piccola patria in cui Desplechin ha ambientato parecchi dei suoi film. Qui torna il suo alter ego Mathieu Amalric, quale antropologo che dopo aver vagato, vissuto e lavorato in parecchie plaghe del mondo, quelle centroasiatiche soprattutto, ora è di ritorno a Parigi per prendere un incarico al Ministero degli esteri. È il pretesto per scatenare i ricordi, della sua infanzia, soprattuuto di lui adolescente a Roubaix e poi giovane uomo a Parigi. Ne abbiamo visti centinaia, di bildungroman come questo. A rendere Trois souvenirs diverso e superiore alla media è l’infinita grazia, lo stile della messinscena, lo sguardo mai convenzionale, l’organizzazione del racconto in blocchi quasi autosufficienti, veri capitoli. Madre suicida, padre assente e dai comportamenti non così limpidi verso la sorella della protagonista. E poi, il meraviglioso quadro con la nonna lesbica e la sua fidanzata russa il cui marito è stato travolto dal terrore staliniano. E il gruppo dei coetenai, e l’incontro con l’antropologa del Benin che gli fa da mentore, e l’amore con Esther, l’amore inestinguibile, l’unico amore. Esther è tra i più bei personaggi femminili che il cinema ci abbia dato in questo ultimi anni, e già da sola merita la visione. Si spera solo che venga distribuito in Italia. Voto 8 e mezzo

Umimachi Diary (Our Little Sister) di Kore-eda Hirozaki. Concorso.
Finalmente recuperato oggi alla Salle Lumière il film giapponese del concorso perso ieri due volte alla Salle Bazin. Troppo lungo (due ore e passa, e almeno mezz’ora è di troppo), con un inizio noiosissimo. Poi però piano piano questa cronaca familiare di tre giovani sorelle, che accolgono in casa una sorella più giovane avuta dal padre con un’altra donna, prende quota, e si finisce con il voler bene a questo clan tutto femminile. Di Kore-eda piacciono la pulizia nell’uso dell mdp, la trasparenza, il nitore, il pudore e il rispetto con cui entra nella vita dei suoi personaggi. Succede niente e succede di tutto: come nel cinema di Richard Linklater, succede la vita. Molto amato dal pubblico. Potrebbe vincere qualcosa. Voto 6 e mezzo

Valley of Love di Guillaume Nicloux. Concorso.
Quinto film francese in concorso e francamente se ne sarebbe potuto fare a meno. Non funziona niente in questo strano Valley of Love in cui una coppia di divorziati – lei è Isabelle Huppert, lui Gérard Depardieu – si riunisce dopo molti anni. A convocarli, dando loro appuntamento nella Death Valley in un arco preciso di giorni, è il figlio. Solo che Michael, il rampollo, si è suicidato mesi prima a San Francisco. Eppure la lettera risulta scritta dopo ed è indubitabilmente sua. Cosa c’è sotto? Michael è forse ancora vivo? Il suicidio era una messincena? O c’è un piano diabolico architettato da qualcuno? Il film parte con la reunion di due vecchi ex coniugi costretti da quel forzato incontro a fare i conti con il loro passato. Solo che poi dal dramma di coppia Valley of Love vira incongruamente sul film alla Lynch e perfino sull’horror supernatural. Il guaio è che Nicloux non si decide a scegliere in quale genere incastrare il suo film e sbanda paurosamente finendo nell’imbarazzante e anche nel ridicolo. Peccato per la coppia Huppert-Depardieu, che meritava di meglio. Voto 4

Youth – La giovinezza di Paolo Sorrentino. Concorso.
I molti haters di Sorrentino si possono scatenare come e più che con La grande bellezza. Questo è il peggiore suo film di sempre. Girare in inglese – in un inglese assai più ricco di quello di Garrone, però tronfio, sentenzioso e insopportabilmente arty – non gli fa bene, come s’era già capito in This Must Be the Place. Che film è mai questo? Cosa mai vuol raccontarci? Film irritante (temo volutamente) che si guarda bene dal costruire una qualsiasi narrazione, si sfrangia in un pulviscolo di microscopici récit, alcuni al limite della battuta e dello schizzo veloce, con personaggi perlopiù odiosi e assenti pure da se stessi di cui non ci importa niente e che non fanno niente per rendersi interessanti ai nostri occhi. Varia fauna umana deambulante e concentrata in un grande albergo-clinica con ampio uso di acque termali lassù sulle montagne della linda Svizzera, molti vecchi e qualche corpo più giovane e altri di mezza età ancora tonici. Però la grande bellezza non abita qui ed è scappata via da un pezzo se mai ci ha abitato. Sorrentino non crea trame, nemmeno personaggi degni di tal nome e di una qualche consistenza, solo un casuale porsi di quella gente in quello spazio, con altrettanto casuali interrelazioni. Nessuno si connette all’altro, tutto è sconnesso, quell’albergo è solo il contenitore o la scena o la passerella di figure ectoplasmatiche che transitano e anche se son stanziali sembrano sempre volatili, precarie. Sorrentino punta moltissimo sulla scrittura-scrittura, sui dialoghi, perdendosi in sentenziosità sulla vita, la morte, la vecchiaia, la govinezza, il successo, il denaro, insomma su quelle cose classificabili sotto la categoria Massimi Sistemi, ammorbandoci con banalità travestite e incartate con degnazione e sussiego. E citando in un compulsivo namedropping Novalis e Stravinsky, riesumando i fantasmi di Hitler e della Grande Storia. Con clin d’oeils al Thomas Mann di La montagna incantata, di cui inconsciamente (?) Youth è un esangue ricalco contemporaneizzato, e Morte a Venezia. Si soffoca, vien voglia di scappare, nonostante la salubre aria alpino-svizzera. L’ospite su cui si concentra l’attenzione del regista (e di necessità anche la nostra) è un direttore d’orchestra e compositore ormai in ritiro, Michael Caine, la cui abulia viene spezzata da un invito arrivato da Bukingham Palace a tenere davanti alla regina un concerto delle sue composizioni più famose. Rifiuta, ma alla fine cederà. Nel frattempo gli fa compagnia nel suo letargo una sorta di alter ego, un quasi ottantenne regista americano di cinema dalla gloriosa carriera circondato lì all’hotel da un gruppo di giovani sceneggiatori hipster incaricati di scrivere il suo nuovo film, “il mio testamento” dice lui. Intanto, il figlio del regista molla la figlia bellissima (è Rachel Weisz difatti) del direttore per accoppiarsi con una cantante pop di massima ordinaretà e volgarità “perché è brava a letto”. L’abbandonata farà presto a consolarsi con un rude alpinista assai tonico oltre che barbuto nonostante l’età non freschissima. I due signori artisti vanno in piscina, si lasciano massaggiare, fanno passeggiate, osservano gli ospiti dell’albero-sanatorium, spettegolano, purtroppo filosofeggiano anche. Intorno altre e varie figurine, il giovane attore americano che vuol uscire dal personaggio ultrapop che l’ha reso famoso ma anche ingabbiato e vuol darsi al cinema impegnato preparandosi a interpretare addirittura Hitler. Un bonzo che tenta la levitazione (e ci riuscirà). Una Miss Universo di ottime curve e discreto cervello. Nessuno comunque che riesca a entrare nei nostri radar e ad attirare la nostra attenzione. Bisogna asspettare l’entrata in scena di una clamorosa Jane Fonda mai così camp per divertirsi finalmente un po’. La sua scena madre in cui rinfaccia al vecchio regista di essere bollito e di non volersi rassegnare al ritiro è fantastica ed è l’unico momento in cui il film sembra accendersi. Il resto sono le composizioni figurative, in abbondanza, cui Sorrentino ci ha abituato. Figure figurine e figurette come in un presepe-installazione da Biennale. Giocando facile con i riflessi della molta acqua dell’albergo-terme e le distorsioni ottiche dei corpo immersi. Una cantante d’hotel rifà i popsongs degli ultimi decenni (però la coppia canterina di The Lobster, sempre stando ai divertimenti polverosi d’albergo, è molto meglio). Circola dappertutto più che un’aria di stanchezza e di senile decrepitezza, una boria, una svogliatezza, un’aridità, una freddezza antipaticamente snobistica. Un film che non ci vuole bene, e ce lo fa capire. Ripaghiamo della stessa moneta. A questo punto forse bisognerà impedire a Sorrentino di guardarsi Fellini, che le citazioni sono ormai strabordanti. Se La grande bellezza saccheggiava La dolce vita e Roma, qui c’è, tanto per cambiare, tanta roba presa da Otto e mezzo. Tutta la parte termale viene da lì, compresi i vecchi acquattati nel fumigante bagno turco e la processione dei clienti-pazienti verso le piscine. Vogliamo poi parlare della tremenda sequenza delle attrici che compaiono tutte insieme al regista in un’allucinazione che rifà pari pari l’harem di Otto e mezzo? Io, che mi ero fatto piacere La grande bellezza nonostante l’overdose di narcisismi, qui mi sono dovuto arrendere. E quando alla fine apprendiamo di che dolori e sofferenze si siano nutrite le vite del Direttore e del Regista, è troppo tardi per commuoverci. Voto 4 e mezzo

Zvizdan (Soleil à plomb – High Sun) di Dalibor Matanić. A Un certain regard, dove ha vinto il premio della giuria.
Questo film croato di un regista poco più che trentenne è una delle sorprese di Cannes 2015. Siamo in un villaggio della Croazia (in Slavonia?) nell’annus horibilis 1991, mentre già cominciano le frizioni con i serbi e si costruiscono barriere e checkpoint per separare gli uni dagli altri. Ivan è croato, suona nella banda del paese, ama godersi la vita con la fidnzata Jelena, serba. Finirà malissimo, sarà ammazzato, vittima delle tensioni interetniche. Seguono altre due storie, una nel 2001, l’altra nel 2011. Sempre nello stesso vilaggio, sempre con amori impossibili tra un croato e una serba. Anche molti anni dopo la guerra le differenze non si cancellano, i traumi passati nemmeno, e andare a letto con il nemico resta dannatamente complicato. Il regista ha la bellissima idea di far interpretare le tre coppie sempre agli stessi attori, tracciando una sorta di sotterranea continuità da un decennio all’altro, inserendo nei vari episodi elementi e dettagli degli altri (nel terzo vediamo ad sempio la tomba di Ivan, il ragazzo ucciso nel primo). Nei toni della tragedia e anche tragicommedia balcanica – corpi furiosamente intrecciati, violenza belluina, musica chiassosa, strepiti e urla – Dalibor Matanić costruisce una sofisticata architettura a incastro, giocando sulla ripetizione e i rimandi, come in un Marienbad trasportato oltre Zagabria. Da premiare. Voto 8


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