I fatti sono noti: sabato 19 giugno, intervenendo alla manifestazione che il Pd ha organizzato contro la manovra economica, l'attore Fabrizio Gifuni ha esordito con "compagne e compagni", scatenando l'applauso fragoroso della platea. Nei giorni successivi alcuni giovani del Pd hanno scritto a Bersani, dichiarando il loro disappunto perché secondo loro quella formula appartiene a una tradizione che il Pd avrebbe dovuto superare e quindi non dovrebbe essere più usata. Da questa lettera è cominciato il dibattito, svoltosi spesso sul tono dell'ironia e del sarcasmo, in cui si sono cimentati i soliti noti, dentro e fuori - ma soprattutto fuori - del partito. Proprio perché la discussione si è stancamente protratta su questo livello basso, ho preferito non occuparmene qui, anche perché contemporaneamente si stava parlando della vicenda di Pomigliano, una questione decisamente più seria e su cui si è definitivamente giocata - almeno secondo me - la credibilità del Pd come partito del centrosinistra, erede della tradizione riformista italiana. Di questo ho già parlato, nella "considerazione" nr. 131, per la precisione.
Ho però ripensato alla cosa e mi sono reso conto che per me quella parola è carica di significato e quindi qualche riflessione si impone. Fin da bambino ho sentito usare questa parola, i miei genitori erano compagni, i miei zii, tante delle persone che conoscevo, mio nonno era compagno - un compagno socialista, ma sempre un compagno. Come credo di aver già scritto, anche prima di capire qualcosa del mondo, la parola "compagno" ha avuto per me un significato positivo e ammetto che mi è rimasto una sorta di riflesso incondizionato. Poi ho conosciuto tante compagne e tanti compagni, ho imparato a conoscerli e a lavorare con loro, e quella parola è diventata per me sempre più importante. Ricordo l'emozione con cui l'ho pronunciata nelle prime occasioni in cui ho avuto l'opportunità di intervenire in sezione o quando, un po' di tempo dopo, mi è capitato di pronunciare il discorso per un compagno che ci aveva lasciato. Ho riletto in questi giorni un passo più volte citato di Mario Rigoni Stern:
Compagni è un nome bello e antico che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino “cum panis” che accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l’esistenza con tutto quello che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze. È molto più bello Compagni che “Camerata” come si nominano coloro che frequentano stesso luogo per dormire, e anche di “Commilitone” che sono i compagni d’arme.
Ecco, noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere.
Queste parole raccontano, come meglio non si potrebbe fare, tutto quello che ho sentito e sento. E questo sentimento non potrà cambiare, almeno per me. E' un insieme di emozioni e di ragionamenti che mi accompagnerà, perché fa parte ormai del mio percorso.
Se però ragiono a mente fredda sulla questione, trovo che a loro modo di vedere quei giovani del Pd che hanno scritto a Bersani hanno ragione. Non sono stati loro, ma chi questo partito ha voluto far nascere a spiegare che era finito un mondo e che con la fine di quel mondo era finito anche un certo modo di concepire la politica. Il Pd è già qualcosa di profondamente diverso da quello che era il maggior partito che ha contribuito a fondarlo, nonostante i tentativi gattopardeschi di alcuni dirigenti che continuano a sostenere che c'è una continuità tra quella storia e la nascita del Pd. E nonostante Berlusconi continui a rappresentare il Pd come una costola della terza Internazionale. Sbaglia lui e sbagliano i gattopardi: il Pd è già qualcosa di molto diverso da un partito socialista e temo - almeno dal mio punto di vista - che il processo sia irreversibile.
Nei momenti di rabbia mi verrebbe da dire che è giusto che gli iscritti al Pd non si chiamino tra loro compagni, che non ne hanno il diritto. Ad esempio l'ho pensato leggendo certe dichiarazioni sulla vicenda di Pomigliano. Poi, passata la rabbia, mi rendo conto che sarebbe un peccato d'orgoglio: non ho certo io il diritto di dire a uno che si vuol chiamare compagno se può o non può farlo. E' una delle cose che mi hanno insegnato i compagni.