So bene che il tema dell'accoglienza dei rom è uno di quelli che divide, ma questo non è un motivo per non affrontarlo. Quando si parla di rom, di zingari, solitamente i toni si alzano, le polemiche si fanno trancianti. Si fronteggiano con questa enfasi due minoranze. Da un lato ci sono quelli che posso definire schematicamente i "cattivi": sono quelli che dicono che i rom non lavorano perché non vogliono lavorare e preferiscono rubare, quelli che dicono che è inutile spendere risorse per loro visto che non sono più recuperabili, quelli che dicono che le case andrebbero date agli italiani e così via; abbiamo sentito tutto il repertorio pochi giorni fa. Dall'altra parte ci sono i "buoni": sono quelli che, con la stessa incrollabile sicurezza dei primi, trovano una giustificazione per qualunque cosa facciano i rom, quelli che imputano alla nostra società le loro difficoltà a trovare un lavoro, a inserirsi, quelli che pensano che di fronte all'accoglienza debba essere sacrificato ogni altro principio. Nessuno di questi alla fine aiuta a risolvere il problema. In mezzo a questi due poli opposti c'è la maggioranza delle persone, quelli che guardano ai rom con sospetto e paura, quelli che dicono che il problema è troppo complesso, quelli che dicono che in fondo ci sono problemi ben più gravi. Loro sono la maggioranza - siamo la maggioranza - e quindi inesorabilmente il tema si elude, si tralascia. Il giorno dopo la tragedia il Corriere della sera riportava la notizia in cronaca, nelle pagine interne, dopo la cosiddetta cronaca politica e le notizie dall'Egitto; dopo pochissimi giorni la notizia ha smesso di essere tale e quindi eliminata dal giornale. La polvere è stata rapidamente messa sotto il tappeto.
Dei rom ho già parlato in altre "considerazioni" - la nr. 154 e la nr. 166, per la precisione - provando a spiegare cosa intendo io per politica di accoglienza. Se avete voglia cercate quelle riflessioni, su cui non voglio tornare oggi per concentrarmi su un'altra questione.
La presenza dei rom, oltre che alle questioni legate alle scelte di politica sociale delle diverse amministrazioni, dovrebbe anche farci riflettere sul complesso rapporto che esiste nelle nostre società - per brevità le definisco europee, anche se ci sono profonde differenze le une dalle altre - tra la maggioranza e le diverse minoranze, spesso anche numericamente consistenti, con culture, stili di vita, religioni differenti. Trovo piuttosto curioso che su questo tema, almeno in Europa - non dico in Italia perché qui parliamo sempre e solo di una cosa sola - si stia esercitando più il fronte conservatore che quello progressista: personalmente ritengo che questa sia una causa, non secondaria, delle attuali difficoltà della sinistra europea a parlare con i cittadini. Prima Angela Merkel e poi David Cameron, che guidano paesi in cui l'immigrazione è un fenomeno molto consistente, hanno parlato della fine del multiculturalismo, pochi giorni fa il cardinal Ravasi, "ministro degli esteri" di Benedetto XVI, ha parlato della necessità di sostituire l'approccio multiculturale con quello interculturale.
Voglio riportare alcune riflessioni di Ravasi che mi sembrano particolarmente interessanti.
Bisogna costruire un confronto che non sia scontro, nel quale anche i valori siano comunicati ma senza perdere la propria identità: una sorta di convivenza culturale, molto delicata e complessa.
Il multiculturalismo è un dato di fatto fin dall'antichità, ma oggi è diventato emblematico nelle città, dove si vedono compresenze di identità culturali diversissime, talvolta quasi dei fondamentalismi che stanno uno accanto all'altro: con scintille, scontri.
Il dialogo, come dice questa bella parola greca, presuppone il dia-logos e quindi il rapporto tra due logoi. Il che significa che l'interculturalità non ha come meta l'identificazione, la costruzione di un'unica società globalizzata.
La tentazione multiculturale era quella del duello: il più forte riesce a occupare più spazio. Ciò che dobbiamo creare con l'interculturalità è piuttosto un duetto, che in musica può essere costituito da un basso e da un soprano. Cosa c'è di più diverso di queste due voci? E perché ci sia armonia, è forse necessario che il basso canti in falsetto e il soprano abbassi il tono?
No, l'essenziale è avere una forte coscienza della propria identità, perché non si fa dialogo senza un volto.
Credo che, a partire da quello che avviene nel nostro paese con le difficoltà di una convivenza sempre più difficile per finire con quello che sta succedendo nel mondo, in particolare nelle coste meridionali del Mediterraneo, questa sia una riflessione da sviluppare con attenzione.