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Per capire quello che sta succedendo in queste settimane in Egitto bisogna capire cosa è successo in questi cinquant'anni in cui si è passati dall'autosufficienza alimentare a una pericolosa e costosa dipendenza dall'estero. Il regime egiziano, così come quelli degli altri paesi mediorientali, ha garantito il pane alla propria popolazione, attraverso un largo utilizzo di sussidi alimentari, assicurandosi il tal modo il favore popolare e quindi la stabilità del regime. Sadat, alla fine degli Settanta, tentò di ridurre i sussidi, ma questo provocò la cosiddetta "intifada del pane" del '77. Dopo il suo assassinio nell'81, il suo successore Mubarak riprese senza esitazioni la politica dei sussidi, sia utilizzando le risorse legate alle esportazioni di petrolio sia gli aiuti statunitensi. Attravreso il programma Food for peace, gestito dall'Agenzia per lo sviluppo internazionale, l'Egitto ha ricevuto dagli Stati Uniti 4,6 miliardi di dollari tra prestiti e sovvenzioni varie. Questa politica di sussidi ha garantito a Mubarak di rimanere al potere per quasi trent'anni, ma si è alla fine rivelata fatale non solo per lui - del che può interessare poco - e per l'intero Egitto. Infatti gli aiuti stranieri e il basso prezzo dei cereali sui mercati internazionali negli anni Ottanta e Novanta hanno spinto il governo egiziano a non investire nell'agricoltura e quindi si è innescato quel meccanismo che ha portato alle rivolte di queste settimane.
L'equilibrio è saltato quando è cominciato ad aumentare il prezzo del grano. Da un lato il governo egiziano ha continuato la sua politica di sussidi, vendendo la farina ai fornai a un prezzo bloccato; ma, dal momento che il prezzo della farina stava crescendo sul mercato internazionale, i fornai hanno trovato più conveniente vendere la farina al mercato nero, ricavandone anche cinque volte di più rispetto ai normali prezzi di vendita calmierati; questa crescita del mercato nero è stata possibile grazie alla connivenza delle autorità locali, in una spirale perversa di corruzione, in cui i soli a rimetterci gli egiziani poveri, ossia la grande massa dei consumatori. In Egitto, come anche in Tunisia, è aumentato il Pil, ma c'è stato un netto calo degli standard di vita in tutte le fasce della popolazione, escluso il 20% più ricco: è aumentato il divario tra i ricchi e i poveri e il 40% della popolazione egiziana è arrivata a vivere con meno di due dollari al giorno.
C'è un altro aspetto interessante di questa vicenda, in cui la politica si intreccia strettamente con le scelte economiche. La maggior causa dell'aumento del prezzo del grano a livello internazionale è l'aumento del prezzo del petrolio. In un'agricoltura sempre più meccanizzate e sempre più dipendente dall'uso di fertilizzanti e pesticidi realizzati sinteticamente, è sempre più necessario il petrolio. Il carburante è necessario per far funzionare i macchinari, per garantire il funzionamento dei sistemi di irrigazione, per trasportare i raccolti, per realizzare i prodotti chimici, in cui il petrolio viene usato sia come materia prima sia per alimentare un ciclo produttivo che ha bisogno di moltissima energia. Tra la metà del 2007 e la metà del 2008 il prezzo del greggio è aumentato dell'87%, passando da 75 a 140 dollari al barile; nello stesso periodo sono aumentati i prezzi dei generi alimentari, da 160 a 225 dollari, secondo gli indici predisposti dalla Fao. Inoltre si è scoperto che i cereali possono essere utilizzati per la produzione di carburante e questo ha rivoluzionato il campo agricolo: negli ultimi sei anni l'aumento della produzione mondiale di mais è stato assorbito per due terzi dall'industria per la produzione di biocarburanti, lasciando una quantità inferiore alla disponibilità per soddisfare la domanda mondiale di cibo, che nel frattempo è aumentata con l'aumentare della popolazione. La Banca mondiale ha calcolato che ogni volta che il petrolio supera i 50 dollari al barile, un aumento dell'1% si traduce in un aumento dello 0,9% del prezzo del mais, perché aumenta il margine di profitto dell'etanolo e quindi la richiesta di mais. Naturalmente i proventi del petrolio hanno contribuito non alla crescita economica dei paesi produttori, ma all'arricchimento delle élites legate ai vari dittatori e alle loro famiglie. C'è una spirale perversa che in qualche modo bisogna trovare il modo di spezzare: le rivolte di queste settimane, legate in gran parte alle proteste per i rincari dei generi alimentari, stanno provocando un aumento del prezzo del petrolio, che conseguentemente provocherà un aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità, a partire dal pane.
Questa analisi - che ho ricavato da due interessanti articoli tradotti nel nr. 891 di Internazionale, uno di Annia Ciezadio e uno di Michael T. Klare, pubblicati rispettivamente su Foreign Affairs e su The Nation - può sembrare a prima vista troppo tecnica. Eppure se ne possono ricavare alcune indicazioni immediate, su cui i governi occidentali - e naturalmente le forze di sinistra, che siano al governo o all'opposizione - dovrebbero riflettere.
E' chiaro che la politica dei sussidi e degli aiuti deve essere immediatamente fermata, tanto più la dove serve a mantenere al potere dittatori corrotti. Occorre lavorare per far riprendere l'agricoltura nei paesi in via di sviluppo. I paesi del G8 si erano impegnati a devolvere 20 miliardi di dollari in tre anni a favore di questo settore; le somme effettivamente spese sono meno di un ventesimo e si è fatto poco per aumentare davvero la produzione agricola mondiale. Poi occorre ridurre drasticamente il prezzo del petrolio e questo è possibile soltanto riducendone il consumo. Sono cose certamente più semplici a dirsi che a farsi, ma bisogna pur cominciare, se si vuole offrire una qualche prospettiva a quei giovani che altrimenti non potranno far altro che cercare di arrivare in qualche modo da noi.
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