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Considerazioni libere (269): a proposito di licenziamenti e di una "giusta causa"...
Creato il 04 febbraio 2012 da LucabilliLa tenacia con cui il governo Monti vuole cancellare dalla legislazione italiana l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori è figlia di una precisa visione ideologica. Nulla di più: non ci sono ragioni di politica economica per sostenere la necessità di abrogare quella norma. Non esiste un motivo "tecnico" - nonostante i tentativi teorici dei vari Ichino e compagnia cantante - per cancellare questa norma.
La rigidità del mercato del lavoro del nostro paese è molto sopravvalutata, è una di quelle bugie che, a forza di esser dette, finiscono per essere considerate vere. L'Ocse - ossia la più autorevole organizzazione internazionale di studi economici, nata come strumento per aiutare gli stati europei a usufruire delle risorse del Piano Marshall - ha definito un indice per misurare proprio la rigidità dei regimi di protezione dell'impiego, quindi uno strumento per misurare la facilità o la difficoltà delle imprese a licenziare i lavoratori. L'Ocse - e, ripeto, non la Terza Internazionale - ha calcolato questo indice per quarantasei paesi. L'ultimo rapporto, quello riferito al 2008, mette in evidenza per l'Italia una relativa facilità di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato nelle imprese con più di quindici dipendenti, proprio quei lavoratori a cui si applica il famigerato art. 18; l'indice Ocse posiziona l'Italia al decimo posto, al livello della tanto decantata Danimarca, che dovrebbe essere il modello a cui tendere. Chi sostiene la necessità di abolire l'art. 18 spiega che una minore rigidità nelle norme che definiscono i licenziamenti favorirà la crescita dell'occupazione. Non è vero. Questa correlazione non è dimostrata empiricamente da nessun risultato statistico, per nessun paese. In Italia il progressivo calo dell'occupazione - che ha ormai una tendenza strutturale - non è stato né fermato né rallentato dalle riforme del 1997 e del 2003, varate rispettivamente da un governo di centrosinistra e da uno di centrodestra. L'introduzione di una proliferazione di nuovi contratti, la crescita di sempre maggiori forme di precarietà non ha significato un aumento dell'occupazione. Tutt'altro. I dati che l'Istat ha presentato in questi giorni sono lì e rappresentano una realtà drammatica, soprattutto per i giovani, per le donne e per il Mezzogiorno: per una giovane donna campana o siciliana, per quanto brava, trovare un lavoro è un'impresa al limite dell'impossibile.
Sulle conseguenze dell'introduzione di leggi per favorire la diffusione dei contratti cosiddetti atipici c'è un documento - redatto da quei comunisti del Fondo Monetario Internazionale - in cui si dice esplicitamente che nei paesi in cui sono state introdotte riforme tese a introdurre una maggiore flessibilità, specialmente con l'estensione dei lavori a tempo determinato - per non parlare di altre fantasie della legislazione italiana - c'è stato un aumento della disoccupazione. Nel documento si spiega che questo aumento della disoccupazione è certo e provato nei periodi di crisi, come quello che stiamo vivendo; a chi sostiene che comunque, superata la crisi, queste riforme genereranno nuovi posti di lavoro, il documento risponde in questo modo: "In principio, il mercato del lavoro duale dovrebbe portare benefici durante la ripresa, poiché le imprese dovrebbero essere più pronte a reimpiegare i lavoratori con contratti temporanei, piuttosto che permanenti. Se ciò si verificherà è ancora da vedere". Ci permettiamo anche noi di dubitare, come i compagni del Fondo. C'è infine un'ultima considerazione, che naturalmente per Monti non riveste grande interesse, visto che lui è ricco di suo e ha un ottimo stipendio, ma che a noi di sinistra dovrebbe far suonare qualche campanello d'allarme. C'è una relazione precisa tra minore rigidità dei regimi di protezione dell'impiego e diminuzione dei salari, ossia nei paesi dove è più facile licenziare i salari tendono a essere più bassi. Questo è facilmente verificabile anche tra i giovani italiani, la generazione nata intorno al 1980, quella che Gianluca Briguglia definisce dei "precari nativi", ossia la "prima generazione di persone che non si pone il problema della pretesa di un posto fisso": i loro salari medi sono inferiori a quelli dei loro genitori.
Se allora l'abolizione dell'art. 18 non garantisce affatto la crescita dell'occupazione, non sarà che Monti - e chi per lui - pensa che questa riforma sia utile proprio per ridurre i salari dei lavoratori? Il sospetto viene perché pare strano che Monti e i suoi amici si incaponiscano in una lotta per puro spirito ideologico, per il solo gusto di togliere una norma che ritengono sbagliata. A qualcosa - e a qualcuno - deve servire togliere l'art. 18. Ai lavoratori no.
Mi rendo conto che al punto in cui siamo già la difesa dell'art. 18 pare un compito troppo duro per le nostre deboli forze, eppure la nostra scelta dovrebbe essere quella di rilanciare, bisognerebbe fare una battaglia culturale, prima ancora che politica, per chiedere l'estensione dell'art. 18 anche alle aziende con meno di quindici dipendenti. Non dico sia semplice, ma ne varrebbe la pena e forse potrebbe aggregare una maggioranza più ampia di quella che ci possiamo aspettare: sarebbe davvero una "giusta causa".
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