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Presa in sé la polemica di questi giorni - naturalmente rovente, secondo una delle più viete e abusate metafore giornalistiche - tra Bersani e Grillo non è particolarmente significativa, si tratta di un normale episodio di campagna elettorale, sopravvalutato dalla stampa cosiddetta "indipendente", pigra e incapace di guardare oltre alla polemica di giornata, e ovviamente enfatizzato dai giornali "lepenisti", di proprietà di B. e degli amici di B., che, essendo perennemente in un clima di "guerra civile", devono criticare sempre e comunque quello che avviene nel campo dei "comunisti". Al di là della polemica, dei suoi protagonisti e delle loro intenzioni, però ci sono due aspetti della questione che meritano un po' di attenzione e stimolano una qualche riflessione.
Partiamo dalle cose che ha detto Bersani, da quelle che ha detto davvero - come al solito Rainews ha svolto questo servizio, a differenza degli altri "grandi" mezzi di informazione nazionali - e non da quelle che gli hanno fatto dire nella vulgata dei giorni successivi. Secondo me il segretario del Pd ha detto una cosa giusta e una cosa sbagliata; spero per questo di non essere considerato un "cerchiobottista", uno alla Pierluigi Battista per intenderci: come sapete ormai, questo non è proprio il mio "stile".
Comincio dalla cosa - secondo me - sbagliata, facendo contenti i miei amici e lettori a Cinque stelle. Nel corso del suo intervento Bersani ha invitato quelli che lo criticano - anche se criticare, come vedremo poi, è un eufemismo - a "uscire" dalla rete e ad esprimere le stesse cose in confronti faccia a faccia. Questo tipo di atteggiamento va bene con quelli - e ci sono ancora purtroppo - che scrivono di notte sui muri delle sezioni, strappano i manifesti o bruciano le bandiere delle feste. Si tratta spesso di giovani teppisti, più ignoranti che altro, che scimmiottano atteggiamenti squadristici che hanno imparato nelle curve degli stadi. In rete ci sono anche questi, ci sono gli ultras anonimi che se ne approfittano e si nascondono, lanciando insulti e volgarità gratuite, così come ci sono i pedofili e i criminali che usano internet per i loro scopi; il problema, come ho sempre detto, non è la rete, ma chi la usa. La pedofilia, come la criminalità, come l'ignoranza, non sono invenzioni della rete: c'erano ben prima. Bersani però non si riferiva ad anonimi contestatori, ma a persone ben definite, con nomi e cognomi, persone che conosciamo, persone che utilizzano la rete in maniera molto diversa da come la usano, almeno in Italia, i politici che potremmo definire "tradizionali". Qui c'è un problema non solo riferito a quel che si dice - e di questo voglio parlare dopo - ma anche riferito a come si dice e a dove si dice. In questo caso, le questioni di metodo diventano questioni di merito.
Bersani, dal suo punto di vista, può dolersi del fatto che una parte del discorso politico avvenga in sedi così diverse rispetto a quelle che lui conosce bene, secondo schemi e con modalità altre rispetto a quelle con cui lui e molti altri hanno cominciato a fare politica. Questo lo capisco bene, è difficile anche per me, che pure essendo un po' più giovane di Bersani, ho avuto una formazione molto simile alla sua, fatta di incontri in sezione, dove prima ascoltavi e solo dopo un qualche tempo parlavi, fatta di un apprendistato nei livelli locali delle istituzioni e così via, dove il tuo punto di vista si esprimeva attraverso un discorso o un pezzo scritto, più o meno lungo. Anche queste "considerazioni", pur essendo ospitate nella rete, sono figlie di quell'apprendistato e risentono di questo modo - chiamiamolo "tradizionale" - di fare politica. La rete ci imporrebbe un linguaggio più schematico, più diretto, più semplice, anche se a volte rischia di essere semplicistico. Personalmente affianco a questi pezzi, a volte anche troppo lunghi - ma ormai dovete sopportarmi così, son troppo vecchio per cambiare "stile" - le frasi di Twitter e in genere faccio fatica a dire quello che voglio dire in 140 caratteri: a volte ci riesco, a volte no. La concisione è difficile, ma è un esercizio utile, soprattutto per noi che non siamo stati educati a praticarla. Scrivere per la rete non è la stessa cosa che scrivere per un giornale o peggio ancora per un intervento in un congresso: bisogna imparare a farlo e bisogna valorizzare il fatto che se se hai poco tempo e poco spazio devi essere chiaro, molto chiaro. In un discorso lungo, se sei bravo, puoi anche riuscire a non dire nulla, in una sola frase qualcosa devi dire, sempre, e devi riuscire a farti capire.
Poi c'è una questione di luoghi; io per un pezzo non irrilevante della mia vita ho fatto politica e avevo quindi luoghi per poter parlare: l'aula del consiglio comunale, gli incontri di partito, i comizi alle feste, gli articoli sulla stampa. Non voglio enfatizzare: si trattava del consiglio comunale di un piccolo Comune della pianura bolognese, di comizi in paesi sperduti della montagna o della bassa con pochi e fedeli ascoltatori, di articoli sulla stampa a tiratura rionale, eppure erano occasioni utili, anche di formazione politica. Ora queste occasioni non le ho più, per diversi motivi, ma principalmente perché non ho più un partito a cui far riferimento e mi rendo conto che tanti sono in questa condizione; devo ammettere che me ne rendevo conto meno quando facevo politica, all'interno di un partito e di questo mi dispiace: temo sia un difetto intrinseco della politica su cui dovremo riflettere. La rete per me è un'occasione importante, posso continuare a esprimere un'opinione senza dover partecipare alla vita di un partito e posso confrontarmi con persone che la pensano più o meno come me su molti temi. E sono in gran parte persone che non conosco, che probabilmente non conoscerò personalmente perché abitiamo in città diverse, in alcuni casi anche in paesi diversi. Scusate questa digressione personale, ma mi è sembrata l'unico modo per spiegarmi in maniera efficace. Si sta affermando, grazie alla rete, un modo diverso di fare politica, che è in parte simile a quello che c'era prima, ma in parte è anche diverso. Ora io parlo a una quarantina di persone, che leggono con abnegazione questo blog, ma ci sono altre persone che hanno le capacità - e forse le competenze - per parlare a molte più persone. Questo mondo esiste, sono persone che hanno idee, opinioni, che hanno voglia di parlare, i partiti non possono continuare a far finta di nulla, perché un pezzo della politica si agita anche qui e soprattutto alla fine le persone che parlano sulla rete vanno a votare e il loro voto conta. Da un lato si restringono i campi della democrazia perché le istituzioni sono sempre più chiuse, perché nei paesi occidentali la democrazia si indebolisce - come ho scritto molte volte - e anche i partiti tendono a chiudersi a riccio di fronte a forme vere di partecipazione; nella rete, forse in modo confuso, forse in modo velleitario, forse in modo narcisistico, si fa comunque politica e Bersani più di altri lo dovrebbe capire. Con il suo intervento rischia di dare un ruolo maggiore a soggetti che nella rete si muovono con più competenza e con più agilità rispetto a lui, ma soprattutto dà il senso di essere lontano da un mondo che esprime, in larga maggioranza - lo si è visto su un tema essenziale come quello dei beni comuni e lo si vede in generale sul tema dei diritti - una possibilità di dialogo con pezzi del centrosinistra. Bersani non dovrebbe chiedere con tono minaccioso ai suoi interlocutori della rete di partecipare ai dibattiti, dovrebbe invece cominciare davvero a frequentare la rete; secondo me ci guadagnerebbe, anche in termini elettorali.
Veniamo ora alla seconda affermazione, che, a dire il vero, è stata pronunciata per prima da Bersani ed è quella su cui si è maggiormente animato il dibattito ed è quella - incidentalmente - su cui sono d'accordo. Così faccio contenti i miei lettori del Pd: ultimamente mi capita poche volte di essere d'accordo con il loro segretario e lo segnalo. Secondo i giornali, Bersani avrebbe detto che Grillo, Di Pietro, Travaglio e quelli che scrivono gli editoriali sul Fatto quotidiano sono fascisti. Bersani non l'ha detto, anche perché sa che non è vero. Ha detto che ci sono persone - e quelli citati sono tra questi - che usano "linguaggi fascisti", facendone alcuni esempi piuttosto efficaci. Basta fare un giro tra le bacheche di "faccialibro" per farsene un'idea sufficientemente chiara. Naturalmente i giornali, e molti politici dopo di loro, hanno voluto semplificare: se Grillo usa un linguaggio fascista è tout court fascista. Il segretario del Pd poteva supporre che questa semplificazione sarebbe stata fatta, probabilmente l'aveva messa nel conto, ma evidentemente gli interessava marcare il concetto. Non è inutile ricordare che qualche giorno prima Ezio Mauro, il direttore di un altro "partito" del centrosinistra, aveva scritto un editoriale sul tema della cosiddetta "seconda destra", riferendosi sempre a questi stessi interlocutori, colpevoli a suoi occhi di attaccare Napolitano e quindi Monti. E' Mauro che sbaglia, perché effettivamente in Italia due destre esistono, ma non sono quelle messe in fila dal direttore di Repubblica: una destra - non so se è la prima o la seconda - è quella guidata da Monti, la destra "tedesca" insomma, l'altra destra è quella guidata da B., il "lepenismo" in salsa italiana, antieuropeo, omofobo e razzista.
Bersani, più sottilmente, si è soffermato sui "linguaggi" e purtroppo su questo ha ragione. Ripeto io non ho particolare simpatia per il Pd, lo critico spesso, probabilmente anche più duramente di quanto critichi la destra, perché, essendo un fazioso, dalla destra non mi aspetto nulla, mentre dalla sinistra - ossia dalla parte in cui ho militato, milito e militerò - mi aspetto molto di più; ma un conto è criticare la politica, un conto è cominciare a definire qualcuno "uomo morto".
Il termine fascista ha molti significati, c'è naturalmente il significato storico riferito al regime dittatoriale che c'è stato in Italia dal '22 al '45, ma c'è anche un significato più ampio che precede e segue quel drammatico episodio storico. E' un linguaggio fascista quello che si ascolta ogni domenica negli stadi italiani per denigrare con ogni tipo di insolenza le tifoserie avversarie; c'è un linguaggio fascista che si legge nelle scritte sui muri delle nostre città contro gli omosessuali e gli stranieri; c'è un linguaggio fascista che si è fatto larga strada nella politica. In Europa gli anticorpi contro questi linguaggi sono diventati sempre più deboli, tanto che movimenti fascisti sono riusciti, sfruttando proprio questi linguaggi e questa semplificazione estrema e violenta del discorso politico a diventare centrali nella vita politica dei loro paesi. In Ungheria un partito sostanzialmente fascista è al governo e ha modificato la Costituzione in senso nazionalista e autocratico; in Austria e in Olanda movimenti fascisti hanno avuto ruoli nei governi di centrodestra; in Francia è una parte rilevante della destra di quel paese, che pure è un movimento complesso, che si è forgiato nella lotta contro il nazifascismo; in Grecia c'è un partito nazista che organizza le ronde notturne contro gli immigrati; in Italia è stata una delle componenti culturali di fondo dei governi di B. e della Lega, costituendone uno dei legami forti per tenere unita una coalizione che avrebbe avuto molti altri motivi per dividersi. In molte delle cose che si leggono sui giornali e che si leggono in rete c'è un di più di violenza che dovrebbe far preoccupare, perché uno dei caratteri fondanti del fascismo culturale, oltre al razzismo e al maschilismo, è l'idea che la violenza sia l'elemento principale della risoluzione dei conflitti. Proprio perché le parole sono importanti e lo sono tanto di più - come ho cercato di spiegare prima - perché hanno il pregio di essere chiare e hanno l'opportunità di arrivare a una platea molto vasta, chi le usa lo dovrebbe fare con attenzione. Perché le parole poi viaggiano da sole, prendono forza e non si sa bene dove si possono fermare.
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