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Oliver Roy, in un articolo nell'ultimo numero di Internazionale - di cui sono debitore per queste riflessioni - spiega che una delle conseguenze più devastanti della cosiddetta "dottrina Bush" è stata quella di considerare allo stesso modo, ossia come nemici da sconfiggere, costi quel che costi, movimenti politici diversi tra di loro. Per gli Stati Uniti di Bush erano "terroristi islamici" al-Qaeda naturalmente - e in questo caso la definizione è esatta - ma anche - e qui la questione si complica - Hamas, che è un partito nazionalista prima che islamico, movimenti locali che vogliono instaurare la sharia, come i talebani afghani, e infine anche movimenti genericamente islamisti, che pongono rivendicazioni di carattere etnico e nazionalista. Per qualche fondamentalista della destra cristiana i "nostri" nemici sono i musulmani tout court, ma questi per nostra fortuna sono una minoranza, anche se non così esigua come potremmo sperare. Considerare tutti questi movimenti come terroristi semplifica troppo e ha fatto commettere molti errori. Trattare con i terroristi è sbagliato - oltre che essere molto complicato, perché è difficile trovare l'interlocutore con cui avviare dei negoziati - mentre con tutti gli altri è sempre possibile avviare delle trattative, anzi è doveroso farlo prima di cominciare un conflitto. Il fatto di aver considerato tutti terroristi allo stesso modo ha portato ai conflitti di questi anni, dall'Afghanistan all'Iraq, con i risultati che abbiamo visto. Uno dei meriti di Obama è stato quello di accettare la complessità del mondo, che Bush e la destra conservatrice avevano irrimediabilmente appiattito nella dicotomia buoni/cattivi, come nei film con i cow-boys e gli indiani. E di conseguenza il governo degli Stati Uniti ha deciso di ritirare il proprio esercito dall'Afghanistan e dall'Iraq, per andare a uccidere - preferibilmente con i droni - i terroristi o quelli che si presume lo siano, in qualunque parte del mondo essi si trovino e qualunque sia la loro nazionalità. Naturalmente questo nuovo "metodo" apre una serie di problemi di natura giuridica e politica molto complessi, ma ha un'indubbia efficacia militare, come ha dimostrato l'uccisione di Osama bin Laden.
Purtroppo questa confusione semantica è apparsa con tutta evidenza in Mali, dove la Francia, più o meno convintamente sostenuta dagli altri paesi europei, è intervenuta con due obiettivi precisi: combattere i "terroristi islamici" e ristabilire l'integrità territoriale di quel paese. Il problema però è che questi due obiettivi sono in parziale contraddizione tra di loro, perché l'integrità del Mali non è minacciata direttamente dal terrorismo islamico, ossia dai gruppi che fanno riferimento diretto alla rete di al-Qaeda. L'integrità del Mali è minacciata dalle rivendicazioni - in parte legittime - dei tuareg che vivono nel nord del paese, che ritengono da molti anni di non essere sufficientemente considerati dal governo centrale, che è espressione da sempre della maggioranza dei neri africani, che vivono prevalentemente nel sud. Si tratta di un problema che risale almeno a trent'anni fa, alla fine del regime coloniale e che interessa anche altri paesi del Sahel, dove convivono con difficoltà gruppi etnici differenti. In una "considerazione" del dicembre 2009 ho parlato della situazione della Mauritania, dove c'è un conflitto etnico sicuramente più acceso, anche se a parti invertite rispetto a quello del Mali: in qual paese è la popolazione di origine nordafricana, discendente dai nomadi, a tenere in condizione di vera e propria schiavitù la popolazione nera africana.
Effettivamente nel nord del Mali, insieme ai tuareg, c'erano dei terroristi islamici collegati ad al-Qaeda, che avevano approfittato di quel conflitto per stabilire nuove basi e ovviamente per cercare nuovi sostegni: i terroristi, a ogni latitudine, cercano situazioni come queste e cercano di infiltrarsi dove ci sono tensioni e focolai di malcontento. Sono stranieri, nomadi del terrorismo, capaci di spostarsi in pochissimo tempo da un paese all'altro. La drammatica vicenda dell'attacco alla raffineria di In Amenas in Algeria ha dimostrato ancora una volta l'estraneità di questi gruppi a quella realtà: si trattava quasi esclusivamente di stranieri, in alcuni casi di convertiti. In seguito al fulmineo intervento francese i jihadisti più radicali, i terroristi veri - quelli con cui non si possono instaurare trattative - sono immediatamente fuggiti, come hanno fatto in altri paesi - Afghanistan compreso - lasciando sul campo i tuareg. In Afghanistan siamo caduti nella trappola, fuggiti i terroristi, abbiamo continuato a combattere contro i talebani, che, proprio a causa della violenza dell'attacco occidentale, sono diventati ancora più ostili e ancora più radicali: in questo modo abbiamo fatto un favore all'islamismo terrorista, che ha guadagnato nuove leve. Probabilmente non è stato soltanto l'attacco francese a spingere gli uomini di al-Qaeda a lasciare quella regione, ma anche una certa ostilità di quelle popolazioni, che, pur essendo di religione musulmana, non condividono l'estremismo puritano, ad esempio nei confronti delle donne, dei jihadisti. Questo è un ulteriore indizio per farci capire che il mondo islamico è complesso, con molti variabili e in continua evoluzione, impossibile da etichettare in una definizione unica, così come sarebbe assai riduttivo pensare che i precetti della chiesa cattolica rappresentino il sentire comune di tutti gli italiani, tutti i francesi, tutti gli spagnoli, tutti i bavaresi, solo perché sono popoli "cattolici". Ora, affinché questa evoluzione non faccia dei passi indietro e soprattutto per non dare nuovo credito alle tesi jihadiste tra la popolazione del nord del Mali - insomma per non cadere nuovamente nella trappola - bisogna avviare un negoziato serio con i tuareg, per accogliere una parte delle loro rivendicazioni. Come ho scritto nella mia precedente "considerazione" sarebbe necessario ripensare anche allo sviluppo di quei paesi, che le nostre aziende sfruttano, anche corrompendo i loro governi, come emerge dalle recenti inchieste giudiziarie sulle attività africane dell'Eni. In questo modo la politica potrà tornare a essere protagonista e anche l'uso delle armi, che in questo caso ha avuto un esito positivo, non sarà stato vano o peggio controproducente.
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