Come certo ricorderete, il 17 dicembre del 2010 il giovane commerciante Mohamed Bouazizi si diede fuoco davanti al palazzo del governatorato di Sidi Bouzid: il suo fu un atto di protesta - certamente esasperato e non proporzionale alla causa, ma comunque disperato - contro la decisione delle autorità di sequestrargli la merce. Quel gesto ebbe delle conseguenze imprevedibili, dando l'avvio a quel movimento che ci siamo abituati a chiamare "primavera araba". Di questo tema ho parlato molto nel corso di questi anni, perché credo sia un fatto molto rilevante - se non il più rilevante - della nostra storia recente. La vittoria più clamorosa di quelle proteste fu la fine del regime di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto; questo esito ha generato la falsa impressione che queste proteste avessero un carattere eminentemente politico e che i giovani fossero scesi in piazza per rivendicare diritti politici e democrazia. Questo è vero solo in parte. Io ho sempre sostenuto che la vera miccia di quelle proteste fossero la povertà disperata di quei popoli e l'impossibilità per quella massa di giovani di avere una qualche prospettiva per il loro futuro. Di conseguenza credo che la nostra - ossia dei paesi occidentali - inadeguatezza nel rispondere alla domanda di sviluppo che veniva da quelle piazze sia stata la nostra sconfitta più grave, il segno della nostra incapacità di rispondere a quelle legittime domande di futuro. Penso anche che la sinistra europea, che si è smarrita - e non si è ancora ritrovata - nel dibattito tra rigore e sviluppo, abbia perso un'occasione per riflettere su stessa e soprattutto di gettare un ponte verso quei popoli. Non è un caso che la politica in quei paesi si sia radicalizzata a favore di partiti che sostengono forme più o meno spinte di islamismo; noi non abbiamo saputo offrire altri modelli, non abbiamo capito che le "primavere arabe" erano soprattutto figlie della crisi, come la protesta degli indignados in Spagna o il movimento Occupy Wall street negli Stati Uniti. Lo stesso voto italiano è sintomo di un malessere economico prima che politico.
Anzi, noi occidentali siamo andati in quei paesi mostrando la nostra faccia peggiore. Giustamente, un pezzo - anche se purtroppo minoritario - della sinistra europea denuncia l'inefficacia delle risposte contro la crisi che vengono dalle autorità finanziarie internazionali - in Grecia, come in Spagna, adesso nella povera Cipro, tra poco in Italia - ma lo stesso sta avvenendo ad esempio in Tunisia, senza che la cosa desti particolare scandalo. Nel novembre dell'anno scorso il governo tunisino ha concordato dei prestiti per 700 milioni di dollari con alcuni grandi finanziatori; la parte del leone l'ha fatta, come al solito, la Banca mondiale che ha erogato un prestito di 500 milioni di dollari. Per rassicurare la Banca mondiale sul fatto che questo debito verrà ripagato, il ministro Bettaieb ha dichiarato che il governo del suo paese ha già richiesto un prestito di circa 2 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale sul bilancio 2014; in sostanza si contrae un debito più alto per dare le necessarie garanzie che se ne pagherà uno minore, in una spirale perversa che fa alzare i tassi di interesse, anche perché le agenzie di rating "indipendenti" danno al paese giudizi severamente negativi.
Il Fondo monetario internazionale naturalmente ha vincolato il suo "prestito di garanzia" all'adozione delle cosiddette "riforme strutturali": la ricetta è nota, basta fare copia-e-incolla e cambiare il nome del paese nelle slide. Il Fmi chiede di ridurre drasticamente i sussidi statali utilizzati dal governo per calmierare i cosiddetti "prodotti sensibili": generi alimentari, medicinali, carburanti; si tratta di circa il 5% del pil del paese. Naturalmente è facile prevedere che in particolare la crescita dei prezzi dei carburanti provocherà un aumento generalizzato dei prezzi. Chiede poi di aumentare l'Iva e in generale di spostare il carico dalla tassazione diretta a quella indiretta: è la linea di Tremonti prima e di Monti dopo. Nel pacchetto ci sono poi liberalizzazioni e privatizzazioni; anche in questo caso la ricetta è nota e sappiamo anche chi solitamente beneficia di queste "svendite". Il Fondo chiede infine di aumentare le tasse per le società che esportano e di favorire le importazioni, eliminando i dazi doganali in entrata; queste misure sono destinate a uccidere nella culla la nascente economia tunisina, che finirebbe per diventare l'ennesimo mercato per le industrie dei paesi più forti o più capaci di delocalizzare. L'insieme di queste "riforme" provocherà l'aumento della disoccupazione, la diminuzione dei salari e la crescita dei prezzi: il tutto ovviamente a spese delle fasce più deboli della popolazione. E' un piano a suo modo perfetto: la Tunisia in questo modo è destinata a essere sempre più dipendente dai prestiti dei paesi occidentali, che per continuare a erogare denaro chiederanno di avere sempre più voce in capitolo nella politica del paese, operando scelte che perpetuino il debito stesso. E' successo già troppe volte: lo schema è perfettamente rodato.
Non è un caso che il Fmi spinga sulle autorità tunisine per accelerare la firma di questo oneroso contratto, togliendo di fatto la competenza della decisione all'Assemblea nazionale costituente, per concludere tutta la partita con l'attuale governo, già dimissionario. Come avviene in Europa - e lo abbiamo sperimentato nel nostro paese - politiche economiche ultraliberiste vanno di pari passo e si sostengono a vicenda con riforme politiche che diminuiscono gli ambiti democratici.
Le cose da fare sono altre. Il gruppo di blogger che ha dato vita alla piattaforma Nawaat ha elencato alcuni punti su cui intervenire. Li riporto in maniera succinta.
Come è evidente si tratta di punti che, pur non essendo rivoluzionari, finirebbero per danneggiare gli interessi occidentali in Tunisia e per questo non vengono neppure presi in considerazione dal Fondo monetario. Le "ricette" di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale rischiano seriamente di compromettere quel minimo di riforme che i tunisini sono riusciti a introdurre, dopo la fine del regime. Tra dieci anni la condizione dei commercianti ambulanti, come Mohamed Bouazizi, rischia di essere ben più grave di quella patita sotto il regime di Ben Alì e, a quel punto, sarà stata tutta colpa "nostra". Sarà difficile chiedere ai tunisini, come agli egiziani, come a tutti gli altri, di stare calmi e di essere alleati fedeli di un occidente che li ha sfruttati e le cui cure sono state peggiori della malattia.
- Valutare le istituzioni pubbliche e rafforzare il controllo sul loro budget di spesa, dal momento che queste assorbono il 75% degli introiti statali.
- Introdurre strumenti di controllo riguardanti le sovra-fatturazioni nell'import e le sotto-fatturazioni nell'export.
- Lottare contro l'evasione fiscale e fare accertamenti approfonditi per gli uomini di affari sospettati di corruzione e associati al clan Ben Alì.
- Adottare misure di trasparenza nella spesa e nella gestione delle casse statali, incluse le gare d'appalto nazionali e internazionali e il fatturato energetico.
- Lottare contro la corruzione, in aumento secondo studi nazionali e internazionali recenti.
- Fare accertamenti seri per ritrovare il denaro preso in prestito durante il regime di Ben Alì, con lo scopo di tracciare la destinazione dei fondi sottratti all'epoca e di recuperarne una parte.
- Creare nuovi accordi di commercio con l'Africa per ridurre la dipendenza dall'Europa - che adesso rappresenta l'80% del commercio estero del paese - e per ammorbidire l'impatto della crisi economica.
- Rafforzare la sicurezza per dare nuova forza al settore turistico.
- Ricapitalizzare le banche pubbliche, individuando i prestiti mai ripagati dai compagni di affari dell'ex dittatore.