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Considerazioni libere (372): a proposito di Erode...

Creato il 13 luglio 2013 da Lucabilli
Ci sono discorsi destinati a segnare la memoria delle persone che li hanno pronunciati e anche i ricordi di quelli che hanno avuto l'opportunità e la fortuna di ascoltarli. Come sapete, io sono ateo, pur avendo rispetto per chi crede, ho escluso da tempo questa dimensione dalla mia vita, eppure sono convinto che l'omelia pronunciata da papa Francesco durante la messa penitenziale, che ha voluto celebrare - in maniera inaspettata e irrituale - lunedì scorso, a Lampedusa, sia uno di questi discorsi. Qualcosa su cui riflettere e di cui ci ricorderemo. Su facebook ho fatto un commento a caldo sulle cose dette dal papa, e ringrazio i molti di voi che lo hanno apprezzato e condiviso. In sostanza ho detto che le parole di questo papa "nuovo" impegnano noi che cristiani non siamo - e infatti è più difficile essere anticlericali da quando c'è Bergoglio, quantomeno perché si rimane spiazzati dai suoi modi gentili - ma soprattutto impegnano moltissimo i cattolici, perché è difficile seguire gli insegnamenti di questo papa, richiede una determinazione e una forza che non possono esaurirsi in una pratica domenicale, in una qualche preghiera serale o in un gesto di frettolosa elemosina.
In quel discorso, nonostante l'apparente semplicità delle parole e l'assenza calcolata e calibrata di retorica, ci sono livelli diversi: naturalmente papa Francesco parla ai cattolici e lo fa con l'autorità del suo ruolo e l'autorevolezza della sua persona, ma parla anche al resto del pianeta e lo fa affrontando un nodo complicato di questi anni, quello dell'emigrazione, che mette a nudo il contrasto tra il nord e il sud del mondo, tra i pochi che hanno molto e i molti che hanno poco. Anche qui però credo sia importante non fermarsi alla prima lettura delle parole del papa, come ha fatto ad esempio Fabrizio Cicchitto. Al di là della meschinità e della piccineria della persona, questo servo sciocco del centrodestra vede nel papa che piange per i migranti morti in mare solo il monito verso una politica - la loro, soprattutto, ma non solo - che per anni ha criminalizzato quelle persone, tanto da inventarsi un'aberrazione giuridica come il reato di immigrazione clandestina. Naturalmente c'è anche questo nelle parole e nei gesti del papa, ma sbagliano pure quelli che si sono sentiti per così dire legittimati dall'omelia di Lampedusa: per intenderci, mi pare che al papa poco importi del dibattito italiano sullo ius soli e sarebbe ingiusto "tirare" le sue parole per far propaganda a questa idea. Capisco che sia difficile, perché sono vent'anni che siamo immersi in questa "merda", ma ogni tanto proviamo a parlare di politica senza tirare in ballo B., che per altro con la politica poco c'entra. Per tornare al papa, a me pare che ci sia qualcosa di molto di più nelle sue parole e su questo vorrei soffermarmi in questa mia "considerazione". Dice Francesco, in quello che secondo me è il passaggio chiave dell'omelia di Lampedusa:
Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi. Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c'è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell'anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo.
Ovviamente papa Francesco parla prima di tutto alle coscienze, anzi alla coscienza di ciascuno di noi, chiedendoci conto delle nostre azioni. Ma se allarghiamo un po' la prospettiva ha toccato un altro punto, con estrema chiarezza. I drammi che coinvolgono le donne e gli uomini di gran parte del mondo, le tragedie che spingono queste donne e questi uomini a fuggire dalle loro terre, non sono eventi accidentali, casuali fenomeni naturali, come un terremoto o un'alluvione. Questi drammi sono provocati dall'avidità e dalla brama di potere di pochi altri uomini; i responsabili ci sono, sono uomini in carne e ossa, ma il problema è che non hanno nome e proprio questo loro anonimato finisce per rendere meno efficace la nostra lotta, fino al punto di farcela considerare vana, fino al punto di spingerci ad arrenderci.
Contro Erode ci si può ribellare, anzi lo si deve fare - questo naturalmente il papa non lo dice, lo dico io e non voglio certo attribuire a Bergoglio cose su cui probabilmente non è d'accordo; dal momento che non credo nella Gerusalemme celeste che verrà, penso che intanto occorra fare tutto il possibile per rendere più giusta la Gerusalemme che c'è, quella degli uomini, e delle donne. Infatti nel corso dei secoli gli uomini molte volte si sono ribellati contro l'Erode di turno, riuscendo spesso a fare un passo in avanti nel cammino, difficile e travagliato, verso la conquista dei loro diritti. Erode aveva eretto la Bastiglia, ma i francesi si ribellarono, distrussero quella fortezza, e riuscirono anche a far cadere la sua testa, non solo metaforicamente. Erode aveva conquistato l'India e l'aveva fatta diventare una colonia, ma la determinazione di un uomo scalzo fece sì che fosse costretto a ritirarsi e a concedere l'indipendenza a quel grande paese. In Europa, nelle fabbriche di Erode, fino a un secolo fa, lavoravano anche i bambini, ma i lavoratori hanno fatto molti scioperi, fino a che le leggi non sono cambiate; purtroppo Erode ha aperto molte altre fabbriche, in Africa e in Asia, dove queste leggi non sono ancora arrivate. In tempi recenti Erode ha deciso di sterminare il popolo degli ebrei, ma tanti uomini hanno combattuto contro di lui, l'hanno sconfitto e i cancelli di Auschwitz sono stati aperti.
Contro Erode si può lottare e, a volte, anche vincere; in fondo la storia degli uomini è la storia di questa lotta. Io, nonostante il mio notorio pessimismo, sono uno che vede nella storia un cammino positivo, perché - anche grazie alle rivoluzioni, grazie ai sacrifici di tanti eroi, spesso misconosciuti - la storia dei diritti è andata avanti, anche se molto lentamente, anche se soltanto in alcuni paesi. Nell'Atene di Pericle e di Protagora, dove pure vigeva uno dei sistemi politici più democratici dell'antichità, esistevano gli schiavi, anzi questa cosa appariva normale, perfino agli schiavi stessi. E perché le donne potessero votare abbiamo dovuto aspettare dall'età di Pericle almeno ventitré secoli. Ho l'impressione che quel cammino abbia subito adesso una battuta d'arresto, anche se negli anni recenti abbiamo potuto festeggiare ancora grandi vittorie, come la fine del regime segregazionista sudafricano e l'elezione di un presidente nero negli Stati Uniti. Eppure sono troppi gli schiavi - sono milioni - anche se apparentemente la schiavitù non esiste più. Il papa, con il suo tono pacato, ci ha ricordato che Erode è sempre lì, pronto a sfruttare la miseria degli altri per far crescere la propria ricchezza.
Credo infine che proprio l'apparente mancanza di qualcuno contro cui combattere - dal momento che Erode alla fine si è fatto furbo ed è diventato appunto "anonimo" - ci abbia portato a credere o che la lotta non serva più o che sia comunque vana, visto che non riusciamo a vederne i risultati concreti: non c'è più una Bastiglia da prendere e neppure teste da tagliare, se non quelle di qualche ex-collaboratore del re, ormai non più utile alla "causa". Erode infine, che nel frattempo si è dotato di un efficacissimo ufficio stampa, è riuscito a convincerci che il mondo va così, che non si può più cambiare, che la rivoluzione non serve. Il capitalismo è diventato una legge di natura e contro la natura non ci si può ribellare, si possono soltanto limitare i danni; questa è ormai la posizione di gran parte della sinistra europea, per tacere di quella italiana, che da alcuni anni ormai ha smesso di avere idee proprie. Una delle caratteristiche delle ribellioni di questi mesi è quella di partire da piccoli nuclei, di coinvolgere in poco tempo - anche grazie alle nuove tecnologie - molte altre persone, di accendere grandi entusiasmi e poi di spegnersi rapidamente, senza riuscire ad incidere veramente sullo status quo. Nonostante i movimenti di piazza Tahrir l'esercito è ancora l'elemento centrale della politica egiziana, come lo era al tempo di Mubarak, nonostante il movimento Occupy le grandi multinazionali non hanno ceduto nulla del loro potere.
In sostanza il nemico c'è, c'è ancora, e - forse confusamente, certo con scarsa consapevolezza - i tanti giovani che in questi mesi sono scesi in piazza lo hanno riconosciuto come tale, seppur non sapendo trovare il modo per colpirlo o danneggiarlo. Il capitalismo è un fenomeno globale e complesso che agisce in maniera diversa in paesi diversi. Comunque alcune tendenze sono chiare e ben definite: il capitalismo oggi cerca di imporre, a ogni livello, le regole del mercato, sottraendosi a qualsiasi tipo di controllo e di costrizione, tende a chiudere progressivamente ogni spazio pubblico - dall'eliminazione di un parco alla privatizzazione dei beni pubblici, come l'acqua - riduce i servizi, a partire dalla sanità e dalla scuola, e impone una gestione sempre più autoritaria del potere. Le proteste che in questi mesi agitano il mondo cercano di opporsi, in maniera più o meno consapevole, a questo strapotere. Il filo rosso che unisce piazze così differenti, di paesi poveri e di paesi ricchi, del nord e del sud del mondo, è da un lato la critica al capitalismo come sistema e dall'altro la consapevolezza che la democrazia rappresentativa, nelle sue forme attuali, non è sufficiente neppure a contenere gli eccessi del capitalismo.
Allora, proprio perché non vogliamo più che milioni di donne e di uomini siano costrette a lasciare i loro paesi, perché non vogliamo che continuinino a morire in un viaggio che li porterà comunque a essere sfruttati, abbiamo bisogno di ribellarci contro questa forma di capitalismo. E ricordiamoci che Erode ha sempre una faccia e un nome; e quindi tutte le nostre proteste devono essere rivolte contro questo unico nemico, che agisce in maniera globale. Per questo la nostra deve essere una risposta globale. Credo infatti che questa rivoluzione potrebbe avere, alla lunga, un qualche successo, se acquisterà la consapevolezza di dover essere globale, se riuscirà a conquistare una nuova dimensione solidale; la battaglia dei greci e dei turchi, nonostante i loro paesi siano nemici da sempre, è la stessa battaglia contro le leggi imperanti del capitalismo, che pure si sono manifestate nei loro paesi in forme e modi diversi, così come la battaglia degli egiziani di piazza Tahrir è la stessa di OccupyWallstreet. Una volta questo spirito lo chiamavano Internazionale, adesso potremmo definirlo solidarietà globale. Senza saremo comunque destinati alla sconfitta.

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