1. Preliminari ad un successivo sintetico articolo in cui si faranno supposizioni sulla politica estera degli Usa negli ultimi tempi dopo che, a partire dalla dissoluzione dell’Urss (1991), essi per un decennio almeno furono convinti di essere ormai i predominanti centrali del globo; poi cominciarono a prendere atto che non era invece iniziato un periodo di nuovo monocentrismo mondiale (come quello da loro vissuto nel dopoguerra nell’ambito del campo capitalistico o mondo “occidentale” o “libero”). Non intendo fare alcuna ipotesi sul come è stato organizzato l’attentato alle “Torri Gemelle”. Quel che importa è l’inizio (2001) di un nuovo periodo storico, in cui la guerra al terrorismo servì a stabilire una qualche comunanza di intenti con la Russia (che aveva a che fare con i ceceni) e la Cina (alle prese con gli uiguri). La guerra in Afghanistan non fu poi contrastata, anzi direi moderatamente “compresa”, da tali paesi a differenza di quella all’Irak, mirante a stabilire maggiore solidità per gli Usa in Medio Oriente. La tensione con l’Iran è una costante, ma la prima parte della guerra irakena (quando si ebbe una certa “resistenza” all’aggressione statunitense) vide in primo piano lo scontro con i sunniti; il che lasciò sullo sfondo una meno acuta tensione con gli sciiti irakeni e, forse, pure con quelli iraniani. Israele era pienamente appoggiata nella sua lotta contro i palestinesi, pur con il sostegno apportato al Quisling (Abu Mazen) che fra questi ultimi era ben installato e aveva radici non tanto superficiali (Al Fatah, ecc.).
Fu quello il momento del massimo sfruttamento delle posizioni tenute dai regimi arabi “moderati” (Egitto in testa) e vi furono pure molti “traffici” poco chiari tra gli “occidentali” e Gheddafi: si ricordi il viaggio di Blair in Libia nel 2004, una serie di servizi che la polizia libica fornì agli occidentali, certe posizioni di quel paese tutt’altro che favorevoli a Iran o a Palestina o ai resistenti iracheni, e non dure nei confronti di Israele. Nel contempo, ci si “ubriacò” di propaganda contro la “Spectre” dell’epoca (Al Qaeda), si individuò il “nemico n. 1” in Bin Laden che, poi lo si saprà, viveva almeno a partire dal 2005-6 in un luogo non certo segreto in Pakistan (evidentemente protetto dai Servizi di quel paese, ma certamente non “cacciato come una belva” da quelli americani). L’aggressione all’Irak creò tensioni, poi riassorbite, all’interno dell’occidente atlantico (si vedano le posizioni della Francia con De Villepin), ma soprattutto nei confronti della Russia; meno, mi sembra, con la Cina, che continuò a pensare soprattutto ad una certa espansione mondiale dei suoi “affari economici”. Sono convinto che tale paese sappia bene come, in ultima analisi, conti la potenza (bellica, ma non solo); tuttavia, questa non si crea in poco tempo e la via è ancora lunga, per cui i cinesi si muovono con prudenza e attriti moderati, poi spesso rimossi o soffocati, con gli Usa.
A partire grosso modo dal 2006 iniziò un cambio di strategia (o tattica?) degli Usa (su cui faremo ipotesi in altro articolo). Tuttavia, non è facile capire a fondo che cosa l’abbia provocato e quali nuovi intendimenti nutrano i gruppi decisivi del paese, tenuto conto che il fine generale – affermare o comunque non lasciare intaccare a fondo il predominio mondiale statunitense – non è stato certo abbandonato; sono mutate le contingenze storiche, soprattutto la valutazione delle stesse da parte di nuclei strategici rilevanti per la formulazione della politica estera del paese. Sia comunque chiaro che la trasformazione inizia prima della crisi economica, evidenziatasi nel 2008 e non prevista dalla stragrande maggioranza degli addetti allo studio delle congiunture economiche; controprova del fatto che tecnici e specialisti restano sempre i ben noti “idioti con alto (o medio) quoziente di intelligenza”, servendo a scopi assai limitati nell’ambito di situazioni stabili e quando gli agenti strategici abbiano già preso le loro decisioni. Inoltre, va aggiunto che anche la virata più radicale avvenuta con l’elezione di Obama (effetto e non causa degli avvenimenti in corso) non dipende dalla crisi in questione, pur se quest’ultima può avere complicato o distorto qualche progetto.
2. Torniamo un po’ indietro e sviluppiamo alcune considerazioni di carattere generale. E’ bene rendersi conto che la democrazia, di cui si vanta il mondo occidentale, non ha nulla a che vedere con il potere o la volontà della popolazione, ne è anzi fondamentalmente indipendente. Con una precisazione però. La democrazia – puramente elettorale, quella per cui ogni tot anni si consulta il popolo, dopo averlo adeguatamente bombardato di menzogne e spaventato o esaltato con opportune azioni, ecc. – dipende dallo scontro di diversi gruppi di pressione o lobbies che difendono particolari interessi, non semplicemente economici, spesso perfino fortemente caratterizzati in senso ideologico. L’interesse economico balza pur sempre in evidenza poiché in un sistema fondato sulla forma di merce generale (quindi sul denaro che è essenziale per l’acquisizione di merci), il fattore economico è uno strumento importante – non certo l’unico, perché la sua utilizzazione non è grezza, allo stato bruto, bensì guidata da molteplici strategie contrapposte delle varie lobbies – al fine di manifestare la potenza necessaria al conseguimento dei propri scopi.
Varie sono le lobbies (o gruppi di pressione) in lizza; e molte di loro hanno mezzi sufficienti per partecipare alla kermesse elettorale onde avere un certo numero di parlamentari in grado di contrattare le varie finalità dei gruppi in oggetto. Normalmente, questi s’insediano nelle diverse partizioni (raggruppamenti) sociali fra loro in relazione (di solito conflittuale), senza chiedere ai cittadini (votanti) che le compongono un eccessivo impegno nell’aderire ai loro scopi e interessi particolari di gruppi o lobbies costituitisi per perseguirli e realizzarli. Tuttavia, la popolazione ha una “sana abitudine”: stenta a fare eccessivi sacrifici, soprattutto quando si approssima una guerra e il sacrificio rischia di diventare quello supremo della vita. In ogni caso, anche sacrifici meno definitivi possono “turbare” la cosiddetta opinione pubblica, cioè le preferenze dei poveri individui comuni che non contano molto, ma cui si è concesso questo esile strumento del voto, una sorta di piuma; lo svolazzare di milioni di piume, se si fa troppo disordinato, crea fastidi a buona parte dei gruppi o lobbies in lizza.
E’ dunque necessario, per i gruppi più forti (o per il più forte d’essi), riafferrare la situazione in mano quando si devono chiedere sacrifici notevoli alla gente in possesso di quelle “sane abitudini”. O si sospende la democrazia e la si rinvia a “tempi migliori” – ma chi ha avuto affidato il potere detto antidemocratico, cioè privo dell’affluire dei “milioni di piume” (i voti dei cittadini), in genere è convinto che esso vada esercitato proprio in quel modo e non si tira quindi da parte quando glielo si chiede “gentilmente” – oppure si devono creare situazioni di emergenza, di paura o invece di orgoglio ed esaltazione nel sentirsi cittadini di “cotanto” paese. Talvolta, bisogna instillare l’idea che ci si deve unire di fronte ad un pericolo, per lo più presentato come mortale per il vivere normale della popolazione secondo i costumi, la cultura e l’ordinamento di una data società particolare; talaltra si fa credere che si tratterà di sacrifici non gravissimi e soprattutto temporanei. In ogni caso, si deve perdere tempo, il tempo di questa democrazia dei “milioni di piume”, che rischiano di creare irritazione alla cute dei gruppi dominanti in azione (insomma una “dermatite”).
Non è la crisi economica il mezzo più efficiente per curare la “dermatite”. E poi, sia chiaro che la crisi economica non è manovrata dai gruppi decisionali; è invece connaturata al sistema, quando questo non ha più centro regolatore, sempre relativo in ogni caso. Certamente, i gruppi in questione sono in grado di fare i “surfisti” sull’onda sollevata dalla crisi, di galleggiare in essa cercando invece di squilibrare i competitori. Tuttavia, i tempi per ottenere così un qualche risultato sono assai lunghi e tutti i “surfisti” a quel punto rischiano di essere travolti dall’onda; gli eventuali superstiti restano a tempo indeterminato su di essa, esaurendo progressivamente le loro energie. Per affrettare i tempi, occorre invece un regolamento dei conti generale, ma prima di arrivarvi si tentano altre strade; anche perché, come già detto, i popoli sono alieni in genere dall’andare a morire, e se siamo in democrazia i parlamentari delle lobbies in lizza risentono di simile scarsa predisposizione. Occorre semmai organizzare eventi speciali – tipo Pearl Harbor, ad es. – per convincere il popolo e quindi i parlamentari (che al Congresso americano si erano opposti fino ad allora) ad accettare l’entrata in guerra. Spesso, anzi, a quel punto gran parte della popolazione si indigna e/o si esalta e corre in massa ad arruolarsi, perfino dimenticando le precedenti “sane abitudini”.
Prima del confronto generale, in genere di tipo bellico, si utilizzano altri mezzi che non implichino uccisioni in massa. E’ oggi invalsa la moda di pensare che le future “guerre” saranno fondate sull’informazione. Che esse cambieranno aspetto rispetto ai due grandi scontri mondiali del XX secolo, è perfino d’obbligo pensarlo (del resto tra il primo e il secondo ci furono molte diversità di grande rilievo), ma che saranno basate sull’informazione è la solita moda di coloro che devono sempre fingersi originali. Ricordo ancora quando, dopo la guerra contro la Jugoslavia (o Serbia, se si preferisce), si sosteneva che ormai le operazioni belliche sarebbero state condotte esclusivamente per via aerea. E non si arrivava comunque all’assurdo della guerra d’informazione; tuttavia, anche la guerra senza occupazione del territorio appare oggi un mero vagheggiamento.
In ogni caso, prima della guerra guerreggiata, si sviluppano contrasti d’altro genere, approfittando di quinte colonne e Quisling vari, impiegando i Servizi, con tutto il corteggio di omicidi “mirati” (se necessari), l’organizzazione di attentati, di sconvolgimenti di vario genere, e tutto ciò che serva ad indebolire le strutture sociali e politiche (ancor più di quelle economiche) dei paesi avversari. L’informazione è semmai strumento utile per coadiuvare simili azioni, far loro avere un’eco più ampia, agitare scompostamente nell’aria i “milioni di piume” nel caso di consultazioni elettorali, mettere in difficoltà maggiori dati gruppi di “surfisti” sull’onda della crisi, ecc.; ma il conflitto tra le varie lobbies, che in esso si servono degli apparati degli Stati, è pur sempre sviluppo di forza armata e omicida, prima nascosta, segreta, poi aperta quando si sono messi i popoli alle strette portandoli all’esaltazione (spesso per paura del “nemico”).
3. Ho sostenuto più volte che la crisi attuale andrà molto probabilmente assomigliando a quella, assai lunga, di fine ‘800 (1873-96). Dal punto di vista delle caratteristiche economiche sembra non essere così, poiché quella crisi non vide sostanziali riduzioni del prodotto nazionale dei vari paesi in termini reali. Si potrebbe definire un lungo periodo di stagnazione con lenta crescita, e maggiore impulso allo sviluppo se questo viene considerato come un mutamento delle strutture sociali e produttive (fu l’epoca in cui si accelerò la seconda rivoluzione industriale, che si consolidò subito dopo). Tuttavia, si trattò di una fase di deflazione dei prezzi, carattere che al momento non si vede in questa crisi (pur se aspetterei a trarre in proposito conclusioni affrettate). Quale la somiglianza maggiore? La s-regolazione del sistema, la fine del monocentrismo fondato sul predominio inglese.
Oggi, con la possibilità di uno sguardo retrospettivo, siamo in grado di affermare che il declino inglese cominciò già nella seconda meta del XIX secolo; all’epoca, non credo che ciò fosse evidente. Durante la grande stagnazione, l’Inghilterra – pur in calo di potenza, non considerato inarrestabile e irrimediabile, così come lo si è potuto affermare solo molto tempo dopo, a giochi fatti – continuò a giostrare con abilità tra le varie potenze in crescita, le maggiori delle quali furono in definitiva Stati Uniti, Germania e, appena più tardi, Giappone. La Francia continuò a partecipare alla lotta in posizione ormai secondaria o quasi, la Russia fu frustrata nelle sue ambizioni dalla guerra contro il Giappone, l’Italia si barcamenò in quanto paese di secondaria importanza ma pur sempre di un qualche rilievo. E così pure altre potenze come Austria, ecc. che infine sparirono dalla scena con la prima guerra mondiale. Fu il periodo delle alleanze, scioglimento (o tradimento) delle stesse, nuove alleanze, ecc., in un continuo balletto e giri di valzer.
Se noi riuscissimo a dimenticare quanto imparato nel ben oltre un secolo trascorso da allora, se ci collocassimo in quella fase storica senza la memoria di quanto avvenuto in seguito, faremmo alcune “scoperte”, che discenderebbero proprio dall’ignoranza dei “fatti” successivi e dell’influenza da questi esercitata sui particolari punti di vista, secondo cui li abbiamo in definitiva poi ricostruiti lungo tutto l’arco del XX secolo. In primo luogo “scopriremmo” che non era decidibile se il declino inglese fosse o meno irreversibile e non più contrastabile dai gruppi dominanti di quel paese, in possesso delle più ampie estensioni coloniali. Dovremmo fare uno sforzo per non farci influenzare dall’importanza di queste ultime e per non stabilire perciò equazioni lineari semplicistiche tra possesso coloniale e potenza di un paese, il suo predominio mondiale. In ogni caso, appunto, nemmeno la perdita di qualche colonia poteva indicare l’ineludibilità di un declino “imperiale” inglese, dove “impero” significa, nell’epoca moderna, l’acquisizione di una posizione centrale nel sistema capitalistico globale, senza confusioni e pasticci con l’Impero romano o altri.
Declino inglese, allora, significò ciò che significa oggi quello statunitense: perdita della egemonia centrale e indiscussa, inizio di un ancora incerto ma evidente multipolarismo. Quest’ultimo, evolvendo in policentrismo, esigerà infine, ma solo in-fine, un regolamento di conti generale (la prima guerra mondiale e poi la seconda) per l’assunzione di una nuova posizione egemonica da parte di una data formazione particolare nell’ambito del sistema complessivo (globale) o comunque di una sua vasta area a struttura omogenea (così come fu, ad es., durante il mondo bipolare Usa-Urss). Prima o poi si dovrebbe arrivare a posizioni simili, e più facilmente anzi ad un mondo monopolare o monocentrico, che sarebbe senz’altro più stabile per una determinata epoca storica rispetto al bipolarismo. In ogni caso, si usi sempre il condizionale. Soprattutto, però, si lasci da parte ogni presupposizione, sia pure probabilistica, quando si tratti di prevedere quale formazione particolare sarà, eventualmente, in grado di assumere la posizione di polo predominante globale. Intorno al 1870-80 non era decidibile che non sarebbe mai più stata l’Inghilterra; così come oggi solo alcuni superficiali, in vena di épater le bourgeois, si sono lanciati prima (inizio anni ’90) sul Giappone quale sostituto degli Usa nel XXI secolo; mentre poi, scornati, si sono buttati sulla Cina, ecc.
Sono semplicemente sprovveduti; ovviamente sempre tanto intelligenti, colti, eruditi, con il cervello talmente colmo di informazioni che qualcuna sguscia improvvidamente verso la bocca o la mano che scrive. In realtà, non sappiamo gran che; l’unico evento che ci colpisce al momento è la forte s-regolazione mondiale, una crisi di non sicura ma probabile lunga durata, il che ci fa pensare all’inizio di una fase multipolare. Ci sembra inoltre che fra i paesi in contesa per la nuova predominanza centrale – non certa né prevedibile nelle modalità secondo cui si instaurerà, se si instaurerà, e meno che meno nei tempi della sua eventuale realizzazione – dovrebbero esserci Russia, Cina, India e, soprattutto, Stati Uniti, ancor oggi i più potenti (e i più flessibili). Alcuni pensano inoltre al Brasile, forse al Giappone (però quale outsider e alleato di un preminente) e magari ad altri emergenti nel giro di alcuni decenni, non credo di meno.
In ogni caso, non si deve escludere la possibilità che gli Stati Uniti riemergano vincitori dalla gara in cui si dovesse decidere la nuova prevalenza. Questa sarà tuttavia veramente globale o si tornerà a qualche soluzione bipolare o perfino alla spartizione del mondo in più aree di una certa omogeneità, dove quest’ultima non sarà probabilmente di lingua né di cultura né di vicinanza geografica e nemmeno di “integrazione” economica o, peggio ancora, monetaria, secondo la solita opinione degli economicisti? Può essere, senza dubbio, che si realizzino anche le integrazioni appena considerate, in particolare quella economica, ma in quanto effetto della preminenza politica di un polo nell’area di sua influenza politica determinante: sia che questa rappresenti all’incirca l’intero globo o invece una sua partizione relativamente omogenea e distinta dalle altre, così come fu durante l’esistenza dei due poli legati ad Usa e Urss.
Il declino attuale degli Usa significa perciò soltanto che essi dovranno rigiocarsi la loro posizione preminente; o almeno ciò è quanto ci si attende dagli ultimi avvenimenti così come riusciamo al momento ad interpretarli. Declino non vuol dire sicuro passaggio di “testimone”, secondo quanto pensato in passato, e ancor oggi, anche da alcuni pseudo-marxisti, tanto corteggiati e riveriti dai dominanti; anzi, perfino dai predominanti statunitensi (nelle cui Università alcuni insegnano o insegnarono prima di lasciare “questa valle di lacrime”), il che dovrebbe farci capire molto circa la lungimiranza di questi ultimi e il servilismo di certi “grandi rivoluzionari”, di certi “grandi critici anticapitalisti e antimperialisti”, usciti in specie dai gruppetti sessantottardi, forse il più putrido acquitrino in cui sia stato immerso e lavato il povero Marx.
4. Sempre “smemorati” (per scelta d’opportunità) circa quanto accaduto negli ultimi decenni, riandiamo all’apertura del multipolarismo legato al declino inglese. Tre furono i paesi che aspirarono alla successione: Stati Uniti, Germania e, subito dopo, il Giappone. Devo correre e quindi non sono in grado di soffermarmi su quello che per me è l’atto di nascita delle più alte ambizioni statunitensi, la guerra civile o di secessione; senza quel regolamento di conti, i “cotonieri” (della Confederazione) avrebbero sostenuto il libero scambio internazionale, che consentiva il permanere della preminenza nell’industria dell’Inghilterra (il primo paese a svilupparla) a detrimento di quella statunitense, concentrata nel nord. La vittoria dell’Unione e quindi del “protezionismo” (sostenuto, ad es., da List con le sue tesi circa l’“industria nascente”) permise infine lo sviluppo industriale degli Usa.
Non si trattò certo dell’unico fattore a propiziare la crescita della potenza americana; anzi, da solo e senza lo svolgersi di un’adeguata strategia politica, non sarebbe bastato allo scopo. Tuttavia, era una condizione necessaria seppur non sufficiente. Lo stesso dicasi per la Germania, che vide la luce ufficialmente nel 1871 subito dopo la vittoria sulla Francia dalle grandi ambizioni di Napoleone “il piccolo”. Anche qui, non fu semplicemente quella vittoria a sancire la supremazia tedesca, bensì l’influenza determinante della Prussia e i mutamenti sociali (e politici) in buona parte dovuti al ridimensionamento degli junker (proprietari terrieri) che, come i “cotonieri” sudisti degli Usa, avrebbero favorito il perpetuarsi del predominio industriale inglese.
Andando a tutta velocità – occorrerebbe poi il lavoro di un vero storico – il confronto, pur ancora incerto nei suoi risultati ultimi, si instaurò tra Usa e Giappone principalmente nell’area del Pacifico, dove i primi presero innanzitutto possesso delle Filippine a spese della Spagna e il secondo batté la Russia, infliggendo un duro colpo alle ambizioni di potenza di quest’ultima, evento non minore del suo indebolimento, del suo divenire il ben noto “anello debole” della catena imperialistica (Lenin), da cui uscì il ’17 sovietico dopo la “prova generale” del 1905. In Europa il confronto fu soprattutto tra Inghilterra (con ormai al seguito la Francia) e la Germania. I primi decenni del XX secolo videro certamente la forte crescita della potenza statunitense e ne fu sintomo anche il fatto che la grande crisi del 1907 prendesse avvio dalla Borsa di New York e non più da quella londinese. Tuttavia, ancora all’epoca della “Grande Guerra” (in cui gli Stati Uniti entrarono ad un anno dalla sua fine), l’Europa sembrava il “centro” del mondo e la sconfitta della Germania ad opera dell’Inghilterra poteva apparire come un riavvicinarsi di quest’ultima alla preminenza mondiale; ma solo ad una considerazione superficiale (per i sovietici, ad es., il mondo capitalistico era ormai rappresentato, già negli anni ’20, soprattutto dagli Stati Uniti).
La seconda guerra mondiale assegnò definitivamente la supremazia nel campo capitalistico “tradizionale” (aggiungo questo termine poiché è oggi sufficientemente evidente a chi vuol capire che il “socialismo” tale non era, e tuttavia era difficile catalogare l’Urss, e successivamente la sua area d’influenza, come effettivamente capitalistica). Lo scontro tra Usa e Giappone per assumere la predominanza nell’area del Pacifico – e non insisto qui sulle manovre statunitensi per farsi attaccare dal “Sol Levante” a Pearl Harbor onde vincere la riluttanza del Congresso ad entrare in guerra – si risolse in favore dei primi. Non so se fin dall’inizio gli Stati Uniti agirono con convinzione per prevalere pure in Europa, esautorando così la potenza inglese. Bisognerebbe “lavorare” (storicamente) di più sul non attacco della Germania all’Inghilterra dopo aver invaso la Francia – secondo me la vittoria della RAF nella “battaglia sulla Manica” è una bella favoletta, intessuta della solita retorica dei vincitori – e sull’infelice scelta di Hitler di aggredire l’Urss, aprendo un fronte su cui inviò ben oltre la metà delle sue truppe. Sarebbe necessario sapere di più sulle interlocuzioni nascoste tra Germania e Inghilterra, su che cosa fece credere Churchill a Hitler per dirottare l’attenzione di quest’ultimo verso est; mentre, se si fosse concentrato a ovest, non si può escludere una capitolazione dell’Inghilterra prima dell’intervento statunitense nella guerra.
E’ pure possibile che il premier inglese si fosse sbilanciato in promesse ai tedeschi e contasse sulla prospettiva di una loro vittoria sui sovietici. Appare però piuttosto evidente che, se tale gioco vi fu, gli Usa non vi stettero; essi compresero, quanto meno strada facendo, la possibilità di una netta vittoria anche sul fronte europeo, poiché il problema era proprio di ridurre l’Inghilterra (e la Francia) a potenze di secondo rango, mentre all’Urss sarebbe comunque rimasta la parte europea meno sviluppata. Ciò spiega pure l’andamento della conferenza di Yalta, dove ancora una volta Churchill tentò comunque la carta antisovietica. Roosevelt (ovviamente è un nome che sta per i gruppi strategici statunitensi) non fu “leale” verso l’alleanza con l’Urss come si vuol far credere; semplicemente comprese la possibilità di sottomettere pure i paesi europei che gli Usa avrebbero “liberato” e poi “alimentato” (piano Marshall, ecc.), rendendoli molto “grati” e “premurosi” nel loro servilismo, favorito dal loro ormai netto indebolimento.
In effetti, qualche sussulto da parte delle vecchie potenze europee (“vincitrici”) vi fu più tardi. Intanto, però, nel 1954 gli Usa diedero un “aiutino” ai vietnamiti, che con la vittoria a Dien Bien Phu cancellarono di fatto l’influenza francese in Indocina, rimpiazzata – per il momento in parte – da quella statunitense, in attesa di ulteriore estensione. Nel 1956, mentre era in pieno svolgimento la crisi ungherese, con il mondo “libero” che montava il can-can contro il “totalitarismo” sovietico, vi fu l’ultimo tentativo di giocare alle potenze da parte di Inghilterra e Francia con l’aggressione all’Egitto per il Canale di Suez. Senza tante chiacchiere, i due nemici, Usa e Urss, furono d’accordo all’Onu nell’intimare l’alt ai due paesi “avventuristi”. Si trattò dell’atto finale che dimostrò a chi voleva intendere come detti paesi avessero, di fatto, perso la guerra più o meno alla stessa stregua di Germania e Giappone, malgrado qualche maggiore dignità francese durante il periodo (breve) del gollismo, nel mentre l’Inghilterra si rassegnò a diventare quasi uno Stato dell’Unione.
Iniziò allora il bipolarismo Usa-Urss, ufficialmente durato fino al 1989-91. Tuttavia, già alla fine degli anni ’50, dopo il XX Congresso del Pcus all’inizio del 1956 (con la destalinizzazione condotta tramite mere accuse alla personalità del grande leader sovietico), e alla Conferenza degli 81 partiti comunisti a Mosca nel 1960, iniziò la dissidenza di quello cinese che aveva preso il potere nel 1949 sconfiggendo i sedicenti nazionalisti appoggiati dagli Usa e dagli “occidentali”. Nel ’63 il dissidio tra Urss e Cina si acuì con lo scambio di violente lettere tra i Comitati Centrali dei due partiti comunisti; a partire dalla rivoluzione culturale (iniziata nel ’66) la rottura fu aperta, mai sanata nemmeno dopo la morte di Mao e il ritorno al potere dei “revisionisti” (Deng, ecc.). Nel ’72 gli ambienti americani politicamente responsabili della strategia di Kissinger (presidente era Nixon) iniziarono un’accorta azione mirante a dividere maggiormente il “campo socialista” tra fautori del Pcus e del Pcc; pur se si trattò di una politica non univoca e relativamente indecisa – ciò che condusse, fra l’altro, al pesante insuccesso in Vietnam – per probabili divisioni interne ai gruppi dominanti statunitensi (come oggi, a quanto sembra almeno, accade in merito alla politica obamiana).
Già a partire dal 1956 però – e non per la crisi ungherese che fu solo un sintomo di quanto ormai si stava verificando – l’ascesa sovietica, indubbiamente straordinaria tra le due guerre mondiali e, in parte, subito dopo la seconda, andò incontro a difficoltà crescenti (malgrado il brillio dei successi nello spazio, merito del resto della politica precedente). Si produssero divisioni interne – rivelate fra l’altro dall’atteggiamento ondivago durante l’ottobre ungherese: primo intervento militare troppo frettoloso e (ormai) inappropriato arresto dello stesso (dovuto ai gruppi kruscioviani), che peggiorarono la situazione e richiesero una repressione ben più pesante – conclusesi con il tentativo, nel 1957, di destituire Krusciov e l’espulsione del “gruppo antipartito” (Malenkov-Molotov-Scepilov-Kaganovic). Il “socialismo” in Urss entrò nell’impasse, per motivi in parte delucidati da Bettelheim e la scuola althusseriana (ma tuttora in attesa di ulteriori e più “profonde” spiegazioni). I settori kruscioviani mostrarono la loro sprovveduta tendenza all’improvvisazione, utilizzando personaggi (in specie economisti pretesi “riformatori”) tendenzialmente liberaloidi, che provocarono solo gravi intralci all’economia e l’indebolimento della politica sovietica, tra cedimenti e avventurismi come quello della crisi dei missili a Cuba (autunno 1962).
Nel ’64 cadde Krusciov e iniziò una sorta di ritorno dell’Urss alla politica d’antan; ma non poteva più essere quella e fu, tutto sommato, incerta nella sostanza pur se decisa nella forma. Non è qui il caso di diffondersi su vari problemi del periodo brezneviano, in sostanza involutivo e che condusse infine all’emergere dei settori gorbacioviani con tutto ciò che ne seguì ed è ormai noto, almeno nei suoi esiti distruttivi finali. Diciamo solo che il ventennio 1964-85 fu di apparente cristallizzazione di una formazione sociale incapace di ulteriore sviluppo, mentre nelle viscere di quella società, e di quelle su cui si esercitava la sua “pressione” (incapace però di effettiva egemonia), si muovevano forze che ebbero influenza anche in merito al degradare del resto del movimento detto comunista, con effetti particolari che ci riguardarono da vicino dati i fenomeni relativi al cambio di campo del Pci di cui abbiamo parlato in più occasioni.
Il crollo “socialistico” del 1989, con dissoluzione dell’Urss due anni dopo, portò alla breve credenza in un mondo tripolare (Usa-Germania-Giappone) e a quella appena più lunga del monocentrismo statunitense. Entrati ormai nel periodo del “declino” di quest’ultimo (nel senso già chiarito) e delle manovre di tipologia multipolare, si sono appunto fatte pressanti le necessità di mutamenti strategici da parte degli Usa. E qui ci fermiamo per la necessità di procedere alla discussione di questi ultimi in altro articolo, basato più che altro su una serie di ipotesi che mi sembrano plausibili, ma che richiederanno vari aggiustamenti nel corso della prossima fase storica.