Considerazioni “quasi”a freddo

Da Johakim @Johakim

Ho scritto parecchio nel mio libro su di me, ma mai avrei pensato di raccontare una guerra.

Mi è esplosa fra le mani ed è risuonata deflagrando nella testa e nel cuore attraverso poche parole dette:

“Mamma, ci stanno abbandonando”, e poi ancora: “Mamma… se riusciremo a tornare…” Sono parole che una madre non dovrebbe mai sentir dire dai propri figli. Eppure è andata così.

Loro risiedono in un quartiere a circa dieci chilometri dal centro di Tripoli. E’ un piccolo paradiso, casette che si affacciano sul mare, pochi essenziali negozi: un minimarket, il medico, la farmacia. Li vivono tante famiglie, tantissimi bambini, tutti espatriati, tutti lavoratori in quella terra dove il deserto si sta mangiando la vita e l’intonaco… grigio, dello stesso colore della polvere.

La risonanza di ciò che sta accadendo la rende secca al telefono. Mi chiede di parlarle in codice, come nei film, perché sono controllati e non possono parlare chiaramente:

“Com’è il mare li da voi?”

“Sta iniziando a sporcarsi, ma a casa di un nostro collega, il mare è già molto sporco”

Ho il cuore che batte forte. Ha paura. Lo avverto.

Silenzio

Ore ed ore senza sentirla. Le comunicazioni vanno e vengono. Ho un forte senso di nausea, l’apprensione è fortissima. DEVO poter capire cosa le sta accadendo.

Ancora una telefonata (sarà l’ultima):

“Mamma, stanno portando tutti gli italiani via dal nostro villaggio. Ci stanno lasciando qui! Ci stanno abbandonando da soli!! Fai qualcosa!! E’ pericoloso passare un’altra notte qui! Ci stanno sparando!”

Silenzio

“Stai tranquilla, tu tornerai”. E’ quello che sono riuscita a dirle prima che la comunicazione si chiudesse.

Ho fatto di tutto. Ho chiamato chiunque. Ho urlato e minacciato. Qualcuno mi ha ascoltata e forse ha fatto qualcosa. Non importa chi o come… dovevo tirarla fuori dal pericolo, lei i suoi figli e suo marito.

Non so cosa si sia mosso dall’Italia. Di sicuro non abbastanza. So che qualcuno è uscito da quella casa sul mare. Ha preso una macchina e si è gettato in strada in mezzo a quei cani pagati che sparavano ovunque. In mezzo a quei cani che mozzavano braccia innocenti, in mezzo a quei cani che violentano donne e bambine.

Si è gettato in mezzo alla guerra per poter salvare la sua famiglia. E’ arrivato da “quelli che contano” ed ha urlato la rabbia contro di loro. Lo hanno ascoltato e finalmente son tornati a riprendere tutti quelli rimasti da soli in quel “giardino di fuoco”.

“Mamma, siamo tutti insieme ora. Dimmi che saremo sul volo di domani mattina. Per favore, dammi questa conferma”

“Si, siete tutti sul volo, me l’hanno già confermato”

“Non ho i documenti, mi hanno bruciato il passaporto. Siamo senza documenti i miei piccoli ed io!”

Le hanno detto: “senza le foto, non possiamo farvi il foglio di via per il rientro!”

Ma come è possibile?? Entrano tutti in questa magnifica Italia, ma non può tornare nel proprio paese un’italiana perché le mancano 2 foto di riconoscimento? Ma come è possibile?

I documenti le arriveranno all’ultimo istante. Quando saranno già in aeroporto, stipati come bestiame, i piccoli attaccati a loro e legati per il terrore di perderli. Solo pochi istanti prima di lasciare l’ipotetica linea che delimita la terra di nessuno dalla terra degli uomini.

Ed eccoci qui. Quattro ore prima del loro arrivo. Ricevuta la conferma dei loro nomi su quella lista Alitalia. La lista… sembra un film già rivisto. Ho una lista che non mi da la conferma della loro presenza sul volo. Ancora ansia, paura. La stessa di tutti quelli che sono qui ad aspettare con me. Mogli, figli, fidanzate e chissà chi altri. Giornalisti ovunque, a caccia di lacrime. Meglio nascondersi ed aspettare l’aereo che arriva.

Eccola li. Il piccolo al collo, la piccola nel passeggino che mi sorride, felice… bianca come un vaso di porcellana, gli occhi gonfi ed arrossati. Due giorni senza mangiare qualcosa di sano. Solo biscotti e qualche cucchiaio di miele. Mia figlia non credo abbia avuto la forza di buttar giù nulla. Solo vitamine, mi ha detto… doveva allattare suo figlio. Poco dopo il marito, provato dalla stanchezza. Sono tre giorni che nonchiudono occhio per la paura, per i colpi di mitra che sentono, per le bombe che esplodono. Ci abbracciamo, senza parole.

Copriamo i bambini con le coperte. Non erano pronti al freddo di questa stagione: era già primavera da loro.

Silenzio. Lo sguardo perso nel vuoto. Nemmeno la forza di tirare un sospiro di sollievo.

Quale sollievo? Alcuni di loro sono rimasti ancora laggiù. Alcune famiglie, i loro vicini di casa, i loro bambini, i loro alunni innocenti, Perché il volo era così vuoto? Perché non hanno portato via tutti quelli che potevano? Perché su 180 posti arrivano solo poco più di quaranta persone?

Passano almeno due ore ed alcune parole mi entrano dentro come un pugno violento: “Ho fatto di tutto per mettere in salvo tua figlia ed i bambini. Credimi, non è stato possibile farla andare via prima da quell’inferno. Giuro che non metterò mai più in pericolo la vita di E.”.

E poi ancora:

“Dovrò ritornarci. Non posso restare senza sapere cos’è accaduto agli altri bambini ed alle famiglie che sono rimaste laggiù”. Figli della Libia, alunni di scuola. Bambini innocenti. “Non posso restaresenza sapere. Se la scuola dovesse mai riaprire, io sarò li con loro” (senza mia figlia. Lei sorride ed approva, sono anche i suoi piccoli… ma lei giura li non ci tornerà mai più …).

E’ passata quasi una settimana ed ancora non mi sembra vero sentirla al telefono, vederla, abbracciare i suoi figli.

E’ passata quasi una settimana ed io ho bisogno di lasciare andare i pensieri. Ridere, piangere quando mi va. Avere cose semplici da fare. Ho voglia di banalità. Ho voglia di sole e di primule. Di musica ed aria. Di uscire di casa e smorzare l’angoscia che si è attanagliata allo stomaco. Ho voglia di correre e di guardare qualcosa di bello, fosse anche solo l’aurora. Ho voglia di piccole cose, ho voglia di … vita.


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