Sembra intuitivo il fatto che la linea di scorrimento temporale avvenga sempre in un unico senso, sia irreversibile. Come si dice, la freccia del tempo sarebbe costantemente rivolta in avanti; gli avvenimenti si snoderebbero insomma dal passato verso il presente, dal presente verso il futuro, e mai in direzione contraria. “Non ci si bagna due volte nello stesso fiume” (cioè nella stessa acqua di quel dato fiume), poiché quest’acqua, proprio come il tempo, non può mai scorrere a ritroso, dalla foce alla sorgente.
Quest’idea di irreversibilità è parte integrante di ogni visione umana comune, e comunemente accettata. E’ per noi del tutto naturale pensare così, e credere appunto che tale scorrimento temporale appartenga all’ordine della natura. Si tratta invece di un portato socio-culturale. Individui animaleschi non hanno alcuna vera concezione del tempo, né quindi dell’irreversibilità dello stesso; e nemmeno esiste, al di fuori della storia e della culturalizzazione, alcuna nozione di morale, di religiosità, di conoscenza di un qualsiasi genere. L’idea dello scorrere del tempo, e della sua freccia unidirezionale, irreversibile, è legata alla scansione d’esso in unità convenzionali, che – in seguito a lenta e lunga evoluzione – hanno trovato infine sistematizzazione in anni, mesi, giorni, ore, ecc.
Solo dopo essere riusciti a suddividere il corso temporale, prima considerato un blocco unitario e del tutto indistinto, in tante unità convenzionali di “periodo”, in unità di una certa lunghezza, solo allora si è riusciti a capire l’irreversibilità degli accadimenti naturali e umani, biologici e sociali. Solo allora si è compreso, ad es., che quando ci si trova nuovamente in presenza di avvenimenti già verificatisi, non si tratta affatto di ritorno all’indietro del tempo, ma più semplicemente della ripetitività periodica – regolare o irregolare; dove regolarità e irregolarità sono ancora una volta concetti socio-culturali, legati all’unità di tempo convenzionalmente stabilita – di accadimenti che presentano fra loro molti aspetti somiglianti. Si tratta insomma di accadimenti simili, ma diversi; non fosse altro perché si verificano in tempi successivi, senza nessuna possibilità di andamento a ritroso.
Quanto detto fin qui appartiene ormai alla coscienza comune dell’uomo civilizzato. Tuttavia, non è questo il concetto di Tempo che si ritrova, ad es., in Proust; e che quest’ultimo riprende da Henri Bergson, mi sembra con alcune imprecisioni filosofiche rispetto alla versione originaria del bergsonismo, anche se con risultati artistici evidentemente più che notevoli. Il problema che qui viene posto è la critica dell’usuale modo di intendere l’irreversibilità temporale. Quest’ultima infatti, nella sua versione tradizionale e usuale, implica pur sempre la linea di scorrimento temporale esterna al verificarsi degli eventi in successione (passati, presenti e futuri). E’ come se il tempo (e lo spazio) fosse uno scatolone vuoto entro cui accadono gli eventi, disposti secondo un prima ed un poi, che sono considerati “oggettivi” nel senso che le scansioni temporali di questo “prima” e di questo “poi” sono calcolate secondo le unità di misura convenzionalmente – e quindi intersoggettivamente (socialmente) – stabilite. Nella concezione (bergsoniana, ripresa in qualche modo da Proust), di cui stiamo parlando, il tempo è pensato dentro gli avvenimenti che si succedono, ne è parte costitutiva sostanziale, li conforma in modo specifico e attribuisce loro una dinamica e una direzionalità che sono peculiari di ogni dato avvenimento. Tutto questo ha precise conseguenze.
Ogni avvenimento ha intanto una sua durata caratteristica e non suddivisibile secondo le scansioni temporali convenzionali. Se in un secondo viene compiuto un passo lungo 1 m., solo astrattamente quel metro e quel secondo possono essere suddivisi (ad es., in dm. e in decimi di secondo o in cm. e in centesimi di secondo, e così via). L’accadimento “passo” (quel determinato passo) ha un tempo reale ed uno spazio reale, che solo convenzionalmente sono indicati come 1 sec. ed 1 m.; ma si tratta in realtà di accadimento che ha una sua unicità e singolarità, e non è suddivisibile senza che se ne perda l’intimo ed essenziale carattere e significato (è in questo senso particolare che viene qui risolto il ben noto paradosso di Achille e le tartaruga). Esiste dunque un tempo astratto, convenzionale (con le solite unità di misura), e poi un tempo reale caratteristico di ogni dato avvenimento, un tempo che marca quest’ultimo, che lo costituisce e struttura dall’interno, lo conforma, lo direziona, lo differenzia da ogni altro avvenimento.
Il tempo astratto (“oggettivo”) può sempre essere ricordato facilmente con l’uso del calendario, dell’orologio, ecc.; è facile, e definitorio, ricordarsi che il 1-12-2014 viene prima del 4-7-2015, che le ore 10 di un certo giorno vengono prima delle 18 dello stesso giorno, ecc. Così pure, se in certe date abbiamo segnato (e descritto più o meno esaurientemente) determinati avvenimenti, possiamo ricordarci facilmente d’essi nella loro astratta, estrinseca, connessione con quel tempo; gli avvenimenti in questione vengono insomma ricordati nell’esteriore descrizione fatta da noi o da altri che ce li hanno tramandati.
Assai diverso è il carattere dell’avvenimento con cui siamo entrati in collegamento in dati momenti della nostra vita e che la nostra memoria lega a sé ritenendolo nella sua durata reale e specifica. Innanzitutto, è evidente che l’avvenimento è qui “soggettivo”, perché afferrato dalla coscienza di singoli individui (non esiste una coscienza universale di un superindividuo: la società tutta, ad es.). Inoltre, la temporalità è un periodo di durata reale, tipico di quel certo avvenimento singolo, che viene trattenuto dalla memoria e non registrato come, ad es., il suono su un nastro registratore. Non è possibile, a propria discrezione, posizionare il “disco” della memoria su quel dato avvenimento (in quel dato tempo, cioè in quel dato spazio del “nastro registratore”) per riprodurlo a semplice decisione. Per essere più precisi, è possibile ricordare volontariamente brani, spezzoni, della nostra vita passata, avulsi dal contesto in cui si sono verificati. La nostra memoria cosciente, quindi, può ricordare questi avvenimenti nella loro astrattezza – astrazione dal contesto specifico, di cui fa parte anche la loro durata temporale reale, la durata che assegna loro quella particolare coloritura e conformazione – esattamente nello stesso senso in cui ognuno di noi può annotare nel diario, ad una data particolare (stabilita secondo le solite convenzioni di anno, mese, ecc.), un certo avvenimento della propria vita.
Ben diverso è il comportamento della nostra memoria inconscia. Essa non registra singoli avvenimenti, non fissa date convenzionali; invece raccoglie e lega “in fascio”, per una particolare durata reale, una costellazione di avvenimenti, che da quella durata – e perciò dal loro reciproco articolarsi in quest’ultima – ricevono la loro coloritura, il loro significato spirituale, cioè più profondo, più essenziale, non meramente descrivibile mediante registrazione discorsiva o scritta. Si pensi, per esempio, alle difficoltà di Proust, alla lunghissima e laboriosa ricerca fatta per trovare il linguaggio più appropriato a descrivere ciò che, in linea di principio, non dovrebbe essere passibile di descrizione linguistica; proprio perché la lingua è discreta, mentre la coloritura, il significato essenziale degli avvenimenti, costituiti insieme da una durata temporale reale, dovrebbero essere colti nella continuità del contesto relativo a tale durata e all’intreccio reciproco del fascio di eventi ad essa connessi.
In definitiva, una durata reale, non marcata secondo unità convenzionali di misura temporale, è il fascio di avvenimenti da essa penetrati, pervasi; pregni d’essa insomma. Avvenimenti di cui quest’ultima è parte costitutiva integrante. L’avvenimento, in quanto concrezione di una certa durata (del tipo appena indicato), non soltanto, dunque, la porta in se stesso, è ad essa consustanziale, ma si integra strettamente con ogni altro avvenimento che si sostanzia della stessa durata, che porta entro di sé la stessa durata. Quando la memoria inconscia – quella che non registra brani di vita staccati da un contesto, soltanto situati in unità di tempo convenzionalmente stabilite – viene stimolata da qualche accadimento anche banalissimo, che si ripete nel tempo sia pure casualmente, erraticamente (ad es. la famosa mattonella su cui poggia il piede il protagonista de “La Recherche”), è tutta una durata reale, cioè un intero fascio di eventi, un effettivo pezzo della propria vita (con il suo più profondo, essenziale, significato) che irrompe nel presente, si mescola al presente, si integra infine nel presente.
Da qui nasce l’emozione della parte finale del celebre romanzo di Proust. Una volta accaduto il primo erompere della memoria inconscia, altri si susseguono e, ad un certo punto, è come se l’intera vita del protagonista (intera non certo nel senso di tutti, esaustivamente, gli avvenimenti che in questa vita si sono susseguiti, il che sarebbe assurdo) si disponesse nel presente, davanti ai suoi occhi attoniti, su un piano di “unità di tempo” tra passato e presente. In questa simbiosi sincronica dell’intera vita, di passato e presente, non è più possibile l’irruzione del futuro (sotto forma di previsioni, evidentemente); non è nemmeno pensabile la morte, la stessa decadenza fisica. Il protagonista ha quindi qui un sussulto, un momento di vera gioia, come di recupero al presente di tutto ciò che era stato, anzi perfino di ciò che avrebbe potuto essere; un recupero, cioè, della possibilità stessa che le cose fossero andate diversamente da come in realtà erano andate.
C’è, insomma, una sorta di pacificazione al presente di tutto il corso della vita, di tutti i suoi affanni; ogni accadimento, anche passato, pare avere al presente il suo più corretto significato. L’intera vita si manifesta all’individuo pensante quale coordinamento necessitato di tutti gli eventi realmente accaduti che – belli o brutti che siano apparsi in passato – vengono nell’oggi ad inverarsi nel loro armonico, perché sincronico, significato interrelazionale complessivo. Siamo qui tuttavia in presenza solo del primo movimento della coscienza (individuale, soggettiva), quando irrompe in essa il passato per l’azione casuale, a flashback, della memoria inconscia
Questa prima sistemazione sincronica non può permanere; la visione (di persone e cose) nel presente provoca una nuova distanziazione del passato rimemorato. L’irreversibilità del trascorrere temporale ritorna in primo piano nella presa d’atto della decadenza e corrompimento di uomini e cose. Riconsiderare la vecchiaia delle persone ammirate quando erano giovani (e quando era giovane pure l’“osservatore”), induce una nuova dislocazione diacronica degli avvenimenti per l’innanzi fusi in armonica sincronia.
Gli eventi si ri-posizionano in un prima e in un poi; e il futuro riprende allora il suo posto accanto alla successione degli accadimenti passati e presenti. La rimemorazione improvvisa del passato, proprio nella sua sincronica correlazione al presente, serve infine a misurare la distanza e la differenziazione degli eventi fra loro, il loro trascorrere e trasmutare, il loro provenire da un passato e attraversare il presente verso un futuro, di cui non si possono certo prevedere i singoli e specifici accadimenti, ma senza dubbio invece il corrompimento finale, la decadenza decisiva: la morte (pur sempre individuale). Ne “La Recherche”, il “tempo ritrovato” mi sembra proprio questo. Sembrava esserci sincronia, intersecazione tra passato (ricordato improvvisamente dalla memoria inconscia) e presente (le sensazioni della madeleine e del the, gusto e profumo ecc.); invece si ritrova il tempo nella diacronia dei suoi diversi periodi.
Secondo me, questo avviene di fatto sempre. Il primo impeto di gioia all’irrompere improvviso e brusco del passato, il senso di stordimento provocato dalla sorpresa del suo presentarsi come allora, sfuma in genere abbastanza presto e sopraggiunge una ben diversa acquisizione: la ruota del tempo corre inesorabilmente in avanti, la durata reale (non quella astratta, delle ore, minuti, ecc.) direziona i fenomeni vitali verso la fine, ed esige perciò dall’individuo una scelta tempestiva per la sua vita. Logicamente, le scelte sono strettamente individuali; ciononostante, credo che ognuno debba direzionare i suoi sforzi nel posizionarsi in modo responsabile – e secondo le sue particolari attitudini, sfruttando l’intelligenza di cui è in possesso (grande o piccola, non importa) – per assolvere quei compiti alla portata delle sue capacità non nulle.
Questo mi sembra essere l’insegnamento più generale. Ognuno, al suo proprio livello, secondo le sue prerogative e possibilità, deve prendere atto dell’irreversibilità del tempo reale, del tempo della propria vita; e deve agire di conseguenza senza sprecarlo in continui rinvii, in continue inazioni, senza comportarsi come se gli accadimenti, che il futuro potrebbe riservargli se egli vivesse e agisse, fossero invece un cristallo privo di movimento interno, sempre eguale a se stesso, mancante di quegli eventi che marcano e individuano passato, presente e futuro. Mentre invece la nostra vita reale è proprio caratterizzata non dal semplice trascorrere degli anni, mesi, giorni, ma dal succedersi di passato, presente e futuro in quanto durate reali che sostanziano, articolano, direzionano, fasci di eventi pregni di significazioni singolari e irripetibili.