Buon Governo
Il Parnaso è una moderna dittatura, dove il controllo della popolazione è esercitato attraverso un’accattivante Televisione e, in modo più nascosto, da una polizia che non esita a far ricorso alla violenza e alla tortura, come sperimenta il protagonista, Caronte, cresciuto sotto il regime. Buon Governo è un romanzo duro, a tratti crudo, la rappresentazione di come uno stato possa diventare se tutti i sistemi di controllo vengono a cadere, la proiezione di una situazione potenzialmente pericolosa e degli effetti che essa può avere sulla società civile e sulle persone; un romanzo di denuncia dell’impoverimento delle coscienze e del sonno della ragione del nostro tempo, che ci spinge, attraverso una narrazione avvincente, a interrogarci su noi stessi e sul mondo in cui vogliamo vivere e far crescere i nostri figli. Scritto da un giovane cresciuto proprio negli anni del moderno Parnaso.L'Autore
Giancarlo Cobino nasce in Irpinia sul finire degli anni ’70. Da bambino si trasferisce a Pisa, dove completa gli studi e vive il fermento di una città universitaria che trasuda cultura. Negli anni liceali comincia a scrivere, dedicandosi a brevi racconti che in seguito unisce nel romanzo Bifolcus. Dopo gli studi si trasferisce a Milano dove lavora come informatico, quindi si sposta in Svizzera ed infine a Londra, dove lavora come matematico presso una istituzione finanziaria. La passione per la scrittura non l'ha mai abbandonato, tuttavia, e così, negli ultimi anni, ha lavorato assiduamente al romanzo Buon Governo.INCIPITPrologo20 Marzo 2036Una lunga processione attraversava la piazza del Governo. Giovani e anziani, uomini e donne, marciavano a testa alta e con il cuore gonfio di rabbia. La polizia attendeva, immobile dietro le transenne, a pochi metri dal Palazzo del Governo. Nell'aria echeggiavano gli scoppi dei petardi, qualche isolato colpo di pistola, le urla di protesta della gente. Lenzuola bianche, esposte alle finestre di molte case, sventolavano con un certo fragore, come le vele di una barca strapazzate dal vento. Un rumore assordante e placido al tempo stesso. Un rumore talmente penetrante da distruggere ogni timore. La città viveva uno stato d'assedio permanente da molti giorni: la popolazione da un lato e la Polizia dall'altro. Al centro, nel comodo ricovero del Palazzo, il Governo Reale aveva ricevuto precise istruzioni di non uscire, di non mostrarsi, come ostaggio tra la folla, ostaggio costretto nella propria dimora. Durante i primi giorni della protesta, il segnale orario sostituì le trasmissioni televisive; in seguito furono mandati in onda film di guerra e dramma, di commedia e macchietta. I telegiornali avevano chiuso i battenti e così le notizie erano tenute segrete, in modo che dalla periferia del Paese non arrivassero altri venti di contestazione, a gonfiare ulteriormente l’uragano della protesta. Alcuni palazzi bruciavano e le fiamme si alzavano alte in cielo, dove sfogavano nel fumo che ammorbava l’aria, segnando la fine di un’illusione. Erano palazzi del centro città, dove il sogno si era fatto corpo e l’illusione materia. Tuttavia la gente in piazza, preda di uno stato di esaltazione, non se ne curava; tutti guardavano le fiamme di sfuggita, per poi proseguire oltre. Lo scontro tra manifestanti e polizia registrava fasi alterne: una volta avanzava la folla, una volta il cordone della sicurezza teneva e respingeva l’orda compatta dei contestatori. La battaglia – violenta e dolorosa – continuava incessante, mentre l’odore acre dei lacrimogeni aveva già da tempo riempito l’aria, rendendola irrespirabile. Per qualche minuto i contestatori si dissolvevano: poi, mentre gli anziani trattenevano il respiro e si fermavano, i più giovani avanzavano, tenendo un fazzoletto bagnato sulla bocca e cercando di riparare gli occhi, che – rossi dall’irritazione – lacrimavano in abbondanza. Le serrande dei negozi, abbassate da giorni, erano percosse dai bastoni e l’acciaio mal sopportava la fitta sassaiola dei manifestanti. Di tanto in tanto si sentiva un sasso infrangersi contro il vetro di una casa o di un’automobile, quindi il silenzio, i passi rumorosi e le urla quando la carica della polizia, ritmicamente, avanzava per proteggere un ipotetico cerchio in cui il Governo Reale potesse respirare. Ipotetico e sempre più stretto. Così, nel disordine della piazza, assalitori e pubblica sicurezza sovrapponevano la propria personale agonia. Nulla che fosse pubblico, nulla che fosse di tutti, ma un corpo per ogni persona, una mente per ogni testa. Pur nel tumulto collettivo, nessuno si sentiva davvero unito agli altri. Marciavano congiunti, protestavano con una sola voce, eppure provavano forte il desiderio di distruggere il proprio compagno. Una guerra nella guerra. Laddove un tempo era sopravvissuta l’illusione di una vita ricca e senza pensieri, ora scoppiavano le bombe di una battaglia che avrebbe lasciato sul campo morti e feriti. Ribelli e poliziotti, due facce della stessa medaglia, lottavano con violenza per distruggere o difendere il potere che li aveva resi ciechi e insensibili al dolore altrui. E così, i cadaveri degli uni e degli altri si confondevano, schiacciati sotto l’incedere lento ma inesorabile della rivoluzione, che nessuno sapeva dove si sarebbe arrestata.