Conta solo la scossa che ti arriva. La vita e la carriera di Roger Ebert in Life itself

Creato il 19 febbraio 2015 da Oggialcinemanet @oggialcinema
La vita è un romanzo, un film, una storia d’amore. Fatti di alti e bassi tra cui navigare senza paura, come seppe fare Roger Ebert. Life itself racconta la storia di una delle voci culturali più influenti d’America. Dal premio Pulitzer fino allo show televisivo, fotografando la sua estenuante lotta contro il cancro che lo ha iconizzato ulteriormente a livello socio culturale. Per Roger Ebert, storica firma del “Chicago Sun-Times”, i film erano macchine che generano empatia. Avete presente il sistema delle “stellette” che tanto va di moda oggi al fine di valutare un film? Bene, lo ha inventato lui. Un’alternativa al sistema dei Thumbs Up o Thumbs Down. Un antenato del “mi piace” contemporaneo. Il suo stile conciso diretto, spesso brutale nella sua sincerità, era il suo marchio principale, ben esemplificato dalla cosiddetta critica relativa e non assoluta. Per anni questa espressione ha segnato il successo o l’insuccesso di un film in America, perché il pollice in questione apparteneva a Roger Ebert, il più grande critico cinematografico del mondo, come lui stesso amava definirsi. Egocentrico, brillante, divertente, grande narratore, Ebert è il protagonista del documentario Life Itself, come la biografia che lui stesso scrisse prima di morire a 71 anni, consumato dal cancro. Il film ripercorre l’avventura della sua vita, l’amore per la settima arte e il controverso rapporto con il mondo del giornalismo, senza trascurare lati oscuri come la lotta contro la dipendenza dall’alcol.La pellicola di Steve James, prodotta dall’amico di vecchia data Martin Scorsese, è un interessante viaggio nella vita del precocissimo redattore che iniziò già a fare carriera col giornale della scuola occupandosi di politica, ma fu presto nominato critico cinematografico ufficiale del quotidiano Chicago Sun-Times, dove rimase a vita, nonostante le lusinghe e le offerte dei giornali concorrenti a seguito dell’attribuzione del premio Pulitzer. Con la sua totale complicità, il documentario parte dai giorni della sua malattia, quando il cancro gli portò via la mandibola destra, dandogli un’espressione a metà tra l’allucinato e il divertito resa popolare da una sua foto sulla copertina di Esquire. Continuando a parlare di quest’uomo illuminato, anche dopo quel giovedì 4 aprile 2013. Anche quando la sua penna si è arrestata. Perchè la sua stella, cementata sulla Hollywood Walk of Fame, continuerà a brillare. In ogni parola che anima le recensioni di una vita, che vivono ancora li, nel suo blog su rogerebert.com. In ogni commento, giudizio, recensione o critica postata al mondo. Perché la cosa che ha contraddistinto Ebert rispetto a tanti altri suoi colleghi è quella di aver avuto un rapporto prioritario con il suo pubblico. Il suo più grande merito è quello di aver reso popolare il cinema tra la gente comune e di aver reso la critica cinematografica comprensibile a tutti senza annacquare però l’analisi rigorosa. Sarcastico e pieno di sé al punto di annichilire con la sua dialettica chi osava contrapporsi ai suoi ragionamenti sui film, fu anche molto generoso soprattutto in nome del suo amore per il cinema.I suoi giudizi sono racchiusi ancora nei suoi libri, da Doris Day e The Social Network… 40 anni di cinema secondo Roger Ebert. Uno dei pochi critici cinematografici che aveva il coraggio di dire e scrivere le cose senza nessuna remora di deferenza, facendo i propri sbagli certo, ma con un’onestà intellettuale, una ironia e una schiettezza rara, soprattutto in un Paese come il nostro, dove scriver di cinema è considerato da molti un passatempo, un qualcosa di secondo piano rispetto al giornalismo di cronaca. Memorabile rimase la frase lapidaria con cui stroncò “Deuce bigalow”, in italiano “Puttano in saldo”: «Parlando in qualità di vincitore di un premio Pulitzer, Mr. Schneider, posso dire che il suo film fa schifo» (in realtà il termine è decisamente più forte, ndr). La proiezione del documentario Life itself si accompagna a una riflessione sullo stato della critica cinematografica italiana che porta a chiederci, non senza amarezza, se una figura come quella di Ebert tornerà mai. Siamo atterriti e ancorati al pregiudizio che il critico sia un vecchio bacchettone che spara sentenze che vanno a premiare solo film barbosi e lontani dal gusto del pubblico. Prendiamone atto, il ruolo del critico non piace a nessuno. Tacciato di snobismo e intellettualismo, è puntualmente bersaglio di facile ironia. Forse dovremmo invece rievocare l’idea un po’ romantica che il critico educhi, indirizzi, insegni e – perché no? – offra una propria proposta culturale, distinguendo il buono dal mediocre e l’eccellente dal pessimo secondo criteri precisi anche se non necessariamente unanimi. Le ragioni per cui sarà difficile intravede un nuovo Ebert sono molte. In primis perché in Italia la critica non è un mestiere. Se in altri campi, infatti, vi è ancora un minimo senso del pudore che impedisce di esprimere il proprio parere senza avere la minima conoscenza della materia, il cinema sembra invece essere il terreno che legittima chiunque a dare libero sfogo al proprio talento inespresso. Un fiume incontenibile di giudizi scorre sul web con tanta arroganza quanta mancanza di argomentazioni, suffragati da altrettanti “like” compiacenti. Il critico, uno che possa equiparare la caratura di Roger Ebert è nemico del banale, del facile e dello scontato, uno che non si ferma certo alle apparenze. E allora, forse, risulta più rassicurante ascoltare il parere del vicino, dell’uomo qualunque o del famoso di ritorno dall’Isola che quasi sempre la pensa come noi. Abbandonare il giudizio alla sola giuria popolare, non rischia di condizionare il mercato e la distribuzione dei film, orientandoli verso un progressivo appiattimento dell’offerta con prodotti sempre più di consumo e intrattenimento? Forse.Forse le parole che, più di tutte le altre ci ha trasmetto Ebert e che dovremmo fare nostre, sintetizzando al meglio il suo amore per il grande schermo e trascendendo ogni banalità, sono queste: «I film belli sono sempre troppo corti, e quelli brutti sempre troppo lunghi». Anche in questo aveva perfettamente ragione.Di Valeria Ventrella per Oggialcinema.net Conta solo la scossa che ti arriva. La vita e la carriera di Roger Ebert in Life itself ultima modifica: 2015-02-19T17:27:24+00:00 da Redazione OAC

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