Magazine Cinema
di Heny Hobson. con Arnold Schwarzenegger, Abigail Breslin, JRichardso Usa, 2015 genere, horror, drammatico durata, 95'
Facendo ancora orecchie da mercante (mai l'abitudine) al mistero - glorioso ? Ignominioso ? - inerente la resa in Italiano delle opere provenienti dal vasto mondo (nel caso, l'originale "Maggie" diventa "Contagious", ed e' forse igienico piantarla subito qui), "Contagious - epidemia mortale", appunto, esordio alla regia di Hobson dopo l'apprendistato in pubblicità, posticipato più volte per traversie produttive, ci introduce, secondo itinerari immaginifici relativi ad un generico post-qualcosa che abbiamo imparato negli anni recenti a riconoscere come uno dei sentieri letterari privilegiati di quello spirito del tempo che, per comodità, potremmo chiamare sentimento-della-fine, nel cuore delle traversie di una famiglia qualunque dell'entroterra americano, una volta rassegnatasi a dover fronteggiare quello che le autorità hanno battezzato col nome di necrovirus, agente misterioso il quale, in un intervallo variabile a seconda delle peculiarità metaboliche del singolo, trasforma il suddetto in una specie di non-morto. Proprio il gruppo dei Vogel, protagonista della vicenda - padre, Wade/Schwarzenegger; madre, Caroline/Richardson e tre figli - affronterà l'incubo allorquando la primogenita Margaret/Maggie (A.Breslin, già bimba in "Signs" e ragazzina petulante in "Little Miss Sunshine") mostrerà chiari i segni della patologia. Nella paradossale claustrofobia di un'America ritratta attraverso istantanee infette di desolazione hopperiana - cieli sbiaditi e inerti, campi silenziosi perlopiù riarsi, macerie industriali e urbane, fumi sparsi d'incendi in lontananza - da subito l'attesa per l'inevitabile progressione del morbo, oltre a prolungare lo strazio interiore, certifica una conclamata irredimibilita' nella forma di un pegno riparatore che il mondo (inteso come ordo rerum violato) intende riscuotere, alludendo, altresì, in filigrana, al sostanziale fallimento dei rapporti in ragione della loro falsità; al lasciare che questi raggiungano, nel perpetuarsi della cosiddetta normalità, una putrescente stagnazione, nei confronti della quale "la metamorfosi" finisce per apparire quasi come una variante logica, se non, addirittura, una via d'uscita. Dramma familiare prima ancora che declinazione spossata con richiami metafisici di un genere, "Contagious", come sovente accade per quei lavori che cercano un proprio equilibrio nella oscillazione delle atmosfere all'interno di un paesaggio emotivo costante, assiste all'inesausto rimescolarsi di pregi e manchevolezze, senza che nessuno di questi prevalga. Se da un lato, infatti, risulta interessante (benché affatto inedita) la contemplazione mesta quanto stranita di un disfacimento in atto la cui origine pare allignare più nelle persone che nelle cose - per cui le cause scatenanti esterne possono benissimo essere eventi accessori di una epifania oramai non derogabile in via ulteriore - e che, cinematograficamente parlando, si nutre di una qual cura nella ricerca del dettaglio, della sfinita monotonia dei primi piani, dei livori quasi macabri di taluni particolari banali insidiati da una sgranatura, da una falsa messa a fuoco o dall'insistenza di un'angolazione irrituale; dall'altro e' pur vero che molto si sacrifica del portato simbolico e metaforico di una inquadratura, di una sequenza al momento di piegarsi/adeguarsi alla convenzionalità di certe sospensioni narrative - negl'intenti, magari, evocative: non di rado in odore di cui de sac - Stesso dicasi per, alla lunga, la compiaciuta tenacia con cui si aderisce al proprio rigore formale curato, per ciò che attiene alle luci, ai colori, da Lukas Ettlin ("The Lincoln lawyer", "World invasion", et.), o per l'irruzione qua e la' - come dovuta - dell'elemento orrorifico fino ad un attimo prima scientemente calibrato o finanche rimosso. Sorprende, d'altro canto, ed entro limiti talmente ovvi da tralasciare il ribadirli, la non così scontata compostezza palesata dal vecchio Schwarzenegger, ondivago relapso della celluloide muscolare, nei panni di un padre stanco, avaro di parole, costretto a difendere moglie e prole (soprattutto Maggie) contro ogni evidenza, facendo moderato e mortificato uso di quella brutalità che altrove gli abbiamo visto distribuire persino con accenti sarcastici e/o caricaturali. Qui - restando dalle parti di un simulacro fantastico costruito pezzo per pezzo sul corpo e su una mimica impostata ad un'essenzialità tanto scarna nelle variazioni quanto d'immediato impatto (al punto da confidare alla figlia segnata, in un frangente riflessivo che e' al tempo cortocircuito impossibile dire quanto volontariamente autoironico: "Ancora mi chiedo cosa tua madre abbia trovato in me") - non e' azzardato scorgere, per dire, le fattezze del suo celebre cyborg (tra l'altro, in imminente ricaduta tra noi) stavolta debitamente abilitato al possesso di una coscienza inquieta da sottoporre al vaglio del contraddittorio agire umano e delle conseguenze da esso innescato. Inscrivibile in un contesto a spanne piuttosto nutrito - il clima generale del film di Hobson riporta, bene o male e con le dovute precauzioni e sfumature, sia al solco scavato con lucido pessimismo da Romero, sia a quello critico-apocalittico di Carpenter - che via via ha generato prove diverse per originalità e spessore (pensiamo, per restare al passato recente e limitandoci ad una elencazione meramente cronologica, a "28 days later..."; "I am legend"; "The road"; "The book of Eli"; "Take shelter"; "World War Z"; et.), "Contagious" mutua dalle intuizioni seminali dei primi e dalle mutazioni sperimentate dai secondi il perimetro del proprio campo di applicazione, riservandosi i modi espressivi scabri e assorti di un Cinema più intimista e travagliato. Il connubio non sempre armonico di tali approcci ed esiti, pero', lo slancio partecipe sebbene non del tutto coerente, ne fanno un tentativo più curioso che riuscito.
TFK
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