Non sono affascinato dal misticismo e dall’esoterismo. Non sopporto molto neanche gli sballatoni tutti dread e ganja. Tantomeno quelli che vivono isolati ai bordi del deserto del Mojave a caccia di peyote. Queste cose hanno il sapore di un’ortodossia e di una rigidezza lontana da me. Insomma mi sono sorpreso molto quando le mie orecchie mi hanno portato al cospetto di Gonjasufi, un nome repellente che è tutto un programma. Le mie orecchie, vi dicevo, mi hanno condotto fino a lui e ne sono rimasto affascinato perché l’album del maestro di yoga Sumach Valentine, alias Gonjasufi appunto, dal titolo A sufi and a killer, è una delle cose più belle uscite nel 2010. Gonjasufi ha un anima blues ricoperta dai più svariati strati musicali, presi da epoche e da posti diversi. Gongjasufi ha una voce dalle infinite coloriture, a metà tra Screamin’ Jay Hawkins e Horace Handy ma con la gola abrasa dall’abuso.
Vi propongo, per inizairvi a questa religione, il pezzo più dub dell’album: Kobwebs, con una batteria blues/progressive, andamento ripetitivo e rituale, sinuoso come una danza derviscia, che ricorda le bellissime contaminazioni degli ultimi anni di vita di Nusrat Fathe Ali Khan.
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