Ieri sera ho letto un (interessante) articolo di Nick Hornby, dal titolo quanto mai indicativo! Abbasso i libri lunghi, che mi ha fatto pensare a come, nel corso del tempo, siano cambiate le mie letture e sia cambiata io stessa. Probabilmente in inverso ordine di causa-effetto.
Ricordo che, anni fa, storcevo il naso di fronte ai romanzi brevi, alle raccolte di racconti, a tutto ciò che non fosse lungherrimo, scritto minuscolo e con le pagine sottili… Che senso aveva una serie di piccole trame sparpagliate tra le pagine? Che senso aveva iniziare e finire un libro in una sera, senza provare il fremito d’aspettativa nel risvegliarsi e sapere di avere ancora un finale da scoprire? Dov’era la fisica sensazione di tenere tra le mani un’immensità narrativa?
Ero anche una piccola parsimoniosa, a dire il vero. Da ragazzina mi sembrava sensato valutare il valore dell’acquisto di un romanzo contando il suo numero di pagine.
I tanti classici li ho letti così. Nello stesso modo, molte pregevoli, formidabili novità mi sono passate sotto gli occhi senza che io me ne accorgessi.
Giravo sempre con un libro in borsa, che pesava senza che me ne importasse. C’era stato un periodo in cui ero convinta di dover avere sempre con me, a prescindere dal romanzo in lettura al momento che comunque mi portavo appresso, l’integrale delle opere di Thomas Mann (alternativamente volume I e volume II), perché mi sarebbe potuto capitare da un momento all’altro l’irrefrenabile bisogno di rivedere quel passaggio, quel romanzo, quell’immagine (cosa che puntualmente mai accadeva). A dirla tutta, forse mi andò anche bene: una mia amica sentiva lo stesso bisogno con Il signore degli anelli.
La versione in volume unico, sì.
Quel che è poi accaduto: la borsa ha iniziato a riempirsi di mille altre cose, finendo per assomigliare alla valigia, pronta a scoppiare, di una famiglia di venticinque indiani (confesso, in generale sembro sempre pronta a partire per emigrare in Australia, anche quando vado a bere un caffè in centro…).
Gli immensi tomi da facoltà scientifica l’hanno stipata. Il bloc-notes. L’agenda. Il moleskine. La trousse e l’amuchina. Il thermos col caffè. Il portapranzo. Il camice. Le scarpe sanitarie. Lo stetofonendo e robaccia varia simile. Il netbook di tanto in tanto. Il caricabatterie.
Mann e compagnia bella si sono visti scalzati fuori dalla mia borsa, spinti dalla quotidianità.
(non suggeritemi il lettore ebook, che – ancora!!!- non ho e soffro)
Ma sono arrivati i sostituti: piccoli libricini estratti casualmente dalla libreria di casa; libercoli scovati in allegato a quotidiani; i più disparati romanzi brevi; le due-trecento pagine si pongono a giusta misura, ormai, quando una misura – se non per l’abbondanza – mai l’ho avuta.
Ma sto divagando. Dicevo. E’ finita così che Nick Hornby arriva a descrivere almeno in parte il mio pensiero e che io che un tempo fremevo all’idea di leggere I fratelli Karamazov, ora, quando parlo del proposito di leggere Infinite Jest o Anna Karenina, uso il verbo affrontare. Forse ciò che mi manca è la pazienza, invece che il tempo. Forse dovrei rinunciare all’insofferenza che provo verso le letture che si trascinano oltre una settimana. Forse mi sto solo autogiustificando.
Comunque. Ciò che è successo nel frattempo, è che ho preso le mie convinzioni e gli ho fatto fare qualche giro di lavatrice, giusto per scombussolarle un po’.
Credo che la prima volta che dei racconti mi hanno conquistata sia stato con L’elefante scomparso e altri racconti di Haruki Murakami. Poco dopo, Paura della matematica di Peter Cameron ha solo consolidato ciò che avrebbe potuto essere una temporanea infatuazione. Una storia semplice di Leonardo Sciascia mi ha mostrato la perfetta compiutezza che può esistere nella brevità. Cortesie per gli ospiti di Ian McEwan come una forte intensità emotiva non abbia necessità di lungaggini per svilupparsi. Acqua di mare di Charles Simmons che esistono piccole perle che rischierei di perdermi per snobismo della brevità.
Ho, insomma, scoperto una decisa passione per i racconti: la sensazione che amo di più nel leggerli è il non avere aspettative su dove essi ti porteranno; c’è una libertà narrativa diversa rispetto al romanzo, a volte una sperimentalità curiosa.
Nella lettura, si assapora la parola, il dettaglio, ci si concentra sull’immagine – spesso un acuto spiraglio sul quotidiano – sapendo che non è detto che essa permarrà per molto o che avrà una reale risoluzione. La bellezza del racconto è che, molto spesso, non insegue il finale o un fermo punto che raccolga i fili tessuti dalla narrazione. Si adagia su se stesso, lasciandoti in un bizzarro e leggero senso di sospensione. Lo trovo stranamente piacevole.
Contando le pagine dei libri, ho appreso un approccio cauto ai nuovi autori.
La mia parsimonia in termini economici ha subito l’aggiunta di una parsimonia in termini di tempo.
David Foster Wallace l’ho conosciuto con La ragazza dai capelli strani, formidabile raccolta di racconti. Philiph Roth non grazie al famoso Pastorale Americana, ma attraverso Indignazione. Tolstoj tramite il profondo e indimenticabile La morte di Ivan Il’ic.
Ed è in questo modo che oggi, per la prima volta, ho preso in mano le pagine di Alice Munro.
Capita che un autore ti venga consigliato da più e tra loro indipendenti parti (una cara amica, l’ammirato Jonathan Franzen, l’intima delicatezza espositiva di un post di tazzina-di-caffè.) E prima o poi bisogna accogliere l’invito alla lettura.
L’altro giorno, alla bancarelle di libri usati, ho comprato e diviso con un’amica buona parte della raccolta “Racconti d’Autore”, usciti durante gli ultimi mesi con Il Sole 24 ORE. (Peccato non essermene accorta – io che capisco più di greco antico che di economia Il Sole non lo spulcio mai – è davvero deliziosa come collezione!)
Il primo volumetto che ho letto contiene due racconti compresi in Nemico, amico, amante… di Alice Munro: Il ponte galleggiante, Ortiche. Due ritratti di donna, di natura e di solitudine.
Un’autrice femminile e due sguardi femminili. E va bene, mi sembra giusto. Perfetto in giorni in cui mi sono, nolente, trovata ad assistere a situazioni in cui la donna in quanto tale è schiacciata, umiliata, sottomessa. Proprio oggi, poco prima di scrivere questo articolo, capitavo su questa sfida di lettura al femminile e mi rendevo conto di quanto in effetti la mia lista di autori sia preponderantemente e pericolosamente maschile.
Persino per rispondere alla domanda Quali sono le tue tre autrici femminili preferite? ho bisogno di qualche istante per radunare le idee. (Irene Nemirovskij, Simone de Beauvoir, Marguerite Yourcenar!)
L’incontro con Alice Munro è stato di rara bellezza. I due racconti sono intimi e intensi e sembrano incontrare perfettamente elementi che io amo molto: l’attenzione al quotidiano, nei piccoli gesti e nelle sensazioni… La gonna ampia portata senza mutande di una donna indebolita dalla chemio. Gli oggetti lasciati come dolorose tracce da due figlie che non vogliono restare dalla madre.
Malattia, ricordi d’infanzia, amore, fallimenti matrimoniali. E voglia di attenzioni e tenerezza. Pensieri dolori. L’introspezione femminile si modella su temi a lei stessa cari, sì, ma rimane lieve nella scorrevolezza narrativa della Munro e al contempo significativa nelle immagini e nelle sensazioni che riesce a creare.
Una donna malata si perde in un campo di granoturco. L’altra, alla ricerca di nuove speranze dopo la fine di un matrimonio, si rifugia da un temporale in un campo di ortiche.
Noi lettori rimaniamo nella malinconia aggraziata ma pungente di questi due racconti.
Non so se c’è bisogno di specificarlo, ma questo assaggio mi ha convinta. Desidero di leggere altro di questa autrice. Possibilmente, il suo romanzo più lungo.
Resta solo da contare le pagine.
Aveva quarantadue anni, e fino a poco prima ne aveva sempre dimostrati meno. Neal ne aveva sedici di più. Perciò Jinny aveva ritenuto che, secondo il corso naturale delle cose, sarebbe toccato a lei il ruolo che adesso era di Neal, e qualche volta si era anche chiesta con apprensione come se la sarebbe cavata. Una sera a letto, prima di addormentarsi, mentre gli teneva la mano, una mano calda e viva, aveva pensato che almeno una volta nella vita avrebbe stretto nella sua, toccato, la mano di Neal ormai morto. E non sarebbe stata in grado di farsene una ragione. Di credere al fatto che lui potesse essere morto e inerte. Per quanto prevedibile e prevista fosse quella condizione, lei non sarebbe mai riuscita ad accettarla. A credere che, in fondo a qualche misterioso abisso, lui non fosse consapevole di quell’istante. Di lei. Pensare a lui privo di quella facoltà le procurava una specie di vertigine emotiva, la sensazione orrenda di precipitare.
E al tempo stesso, una forma di eccitazione. L’ineffabile eccitazione che si prova quando un disastro imminente promette di sollevarci da ogni responsabilità collegata alla vita. In quei casi, un senso di pudore costringe a darsi un contegno e a restare immobili.
- Dove vai? – le aveva chiesto lui, sentendola ritirare la mano.
- Da nessuna parte. Mi giro soltanto.da “Il ponte galleggiante”, di Alice Munro
Nemico, amico, amante…
Alice Munrp2005
Super ET
pp. 320
€ 12,00
ISBN 978880617468