Torna di moda parlare di contratto unico. E dopo la proliferazione incontrollata di forme contrattuali dell'ultimio decennio, che nemmeno la Riforma Fornero, con tanta buona volontà, era riuscita a sfoltire, forse che qualcuno, come Linkiesta, ne sentisse la mancanza non può certo stupire.
Sorprende però la memoria corta anche da parte degli addetti ai lavori.
Il contratto unico, infatti, da che esistono flessibilità ed esigenze aziendali moderne, ha subito un costante declino: da un lato è ormai fisiologico che una certa parte dei contratti di lavoro previsti dal legislatore siano a tempo determinato o a contenuto speciale, dall'altro le esperienze più vicine nel tempo e nello spazio non inducono un gran favor verso un unica tipologia contrattuale.
Sebbene sia attraente l'idea di modulare le tutele contrattuali previste dal contratto unico a seconda del periodo di lavoro (ad esempio garantendo un più facile licenziamento durante un periodo di prova, maggiori garanzie progressivamente acquisite nel tempo e – perché no – una sorta di staffetta generazionale in job sharing a fine carriera) perché si armonizzino con le esigenze imprenditoriali, il passaggio dalla teoria alla pratica per il contratto unico sembra essere una pia illusione.
Prendiamo come esempio la Francia, un paese molto vicino all'Italia sia come dimensioni che come struttura del mercato del lavoro. In Francia come in Italia, nella metà dei primi anni 2000 erano stati introdotti numerosi tipi di contratto di lavoro atipico, accanto al tradizionale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, che aveva mantenuto le sue tradizionali garanzie.
Il legislatore, tra il 2005 ed il 2006, per limitare l'utilizzo di contratti atipici, ne aveva introdotti due, il CPE (Contrat Première Embauche) ed il CNE (Contrat Nouvelle Embauche) caratterizzati dalla mancanza di un termine finale, ma da un "periodo di prova" molto lungo, due anni, detto consolidation durante il quale il datore aveva maggiori libertà di licenziamento.
In teoria i due contratti avrebbero dovuto aprire la strada al Contrat Unique d'insertion che avrebbe a sua volta realizzato la flexicurity predicata dal Libro Verde europeo (e dal professor Pietro Ichino), in pratica, invece, «Il CPE, osteggiato dall’opinione pubblica ed in particolare dal movimento giovanile è stato ritirato dal Governo dopo 3 settimane dal suo varo; il CNE, invece, è rimasto in vigore per 3 anni, fino al 2008, quando, preso atto dell’illegittimità per contrasto con la convenzione OIL 158/1982 è stato abrogato e sostituito da un nuovo istituto, la rupture conventionnelle, che ha esteso ai CNE in corso le regole del normale contratto a tempo indeterminato» per usare le parole di una figura di spicco nel panorama giuslavoristico italiano, la professoressa Maria Teresa Carinci.
Attenzione quindi ai nuovi venti riduzionisti che soffiano sul contratto unico: in questo caso, come in moltissimi altri, semplificazioni o (peggio!) soluzioni semplicistiche non vanno introdotte con leggerezza nel mercato del lavoro, mercato quantomai complesso e delicato allo stesso tempo.