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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (232): Leggere CARLO GINZBURG, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza,

Creato il 15 agosto 2011 da Gabrielederitis @gabriele1948

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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (232): Leggere CARLO GINZBURG, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza,
In breveIl libro indaga, da punti di vista diversi, le potenzialità co- gnitive e morali, costruttive e di- struttive dello spaesamento e della distanza attraverso nove capitoli della storia culturale: Straniamento, Mito, Rappresentazione, Immagine devozionale cristiana, Idoli e so-miglianza, Stile, Distanza e pro- spettiva, Uccidere un mandarino cinese, Un lapsus di papa Wojtyla

Il libro

“Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno.” Il libro indaga, da punti di vista diversi, le potenzialità cognitive e morali, costruttive e distruttive dello spaesamento e della distanza. Perché una lunga tradizione ha attribuito allo sguardo dell’estraneo – del selvaggio, del contadino, dell’animale – la capacità di svelare le menzogne della società? Perché la riflessione sul mito serve a distanziare la realtà, mentre il mito è spesso uno strumento politico per controllare gli ignari? Perché nel Medioevo, durante i funerali del re di Francia e d’Inghilterra, veniva portato in processione un fantoccio detto “rappresentazione”? Perché il Cristianesimo fece propria la proibizione mosaica delle immagini ma favorì da un certo momento in poi la diffusione di immagini devozionali? Perché lo stile è stato usato, a seconda dei casi, per includere o escludere ciò che è culturalmente diverso? Perché ricorriamo così spesso a metafore visive come “prospettiva” o “punto di vista”? Uccidereste un mandarino cinese sconosciuto se vi venisse offerta una grossa somma?

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La nostra cultura, il nostro modo di vedere il mondo, la nostra forma mentis affondano le loro radici nell’intrecciarsi della tradizione greca, di quella ebraica e di quella cristiana, che si avvicinano e si allontanano lungo percorsi allo stesso tempo familiari e misteriosi, che dietro grandi differenze nascondono profonde analogie e viceversa. Carlo Ginzburg affronta alcuni grandi temi della nostra storia culturale partendo dalla fecondità della distanza, intesa in senso sia letterale sia metaforico. Ginzburg introduce una prospettiva non lineare che, pur non perdendo di vista l’orizzonte storico delle cose, avvicina fenomeni di tempi e spazi diversi trovando simmetrie, convergenze e isotopie.

Prefazione

Presento nove saggi (tre dei quali inediti) scritti nell’ultimo decennio; due, il secondo e l’ultimo, sono già apparsi in italiano. La distanza di cui parla il sottotitolo del libro è al tempo stesso letterale e metaforica. Dal 1988 insegno a Los Angeles. Parlare a studenti e studentesse come quelli di UCLA, con una formazione lontanissima dalla mia, diversi tra loro etnicamente e culturalmente, mi ha costretto a guardare in maniera diversa a temi di ricerca su cui lavoravo da tempo. La loro importanza non è per nulla diminuita ai miei occhi ma è diventata meno ovvia. Ho capito meglio qualcosa che credevo di sapere già, e cioè che la familiarità, legata in ultima analisi all’appartenenza culturale, non può essere un criterio di rilevanza. Tutto il mondo è paese non vuol dire che tutto è uguale: vuol dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno. So di non dire niente di nuovo, ma forse val la pena di riflettere ancora sulla fecondità intellettuale di questa condizione. Ho provato a farlo nel saggio sullo straniamento che apre la raccolta. Ma anche il più antico, quello sulla rappresentazione nasce dalla volontà di spaesare chi legge, e prima ancora me stesso, comprimendo un tema immenso in poche pagine, immergendo l’Europa e l’Italia in un quadro cronologico e spaziale amplissimo. Mi sono imbattuto in una duplice ambiguità: quella legata all’immagine, che è al tempo stesso presenza e surrogato di qualcosa che non c’è, e quella legata ai rapporti tra ebrei e cristiani in cui prossimità e lontananza si sono intrecciate per due millenni con conseguenze spesso funeste. Queste ambiguità convergono nel tema dell’idolatria, evocato nel titolo del libro, e discusso nel saggio su idoli e immagini. Esso si chiude bruscamente accostando il primo e secondo comandamento del decalogo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna”, “Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Sulla contiguità tra nome e immagine sono tornato indagando sul mito. I greci hanno raffigurato i loro dèi e ne hanno pronunciato i nomi, hanno ragionato sulla natura dell’immagine e su quella del nome. Ma questa apparente opposizione tra greci ed ebrei forse nasconde una simmetria nascosta: la riflessione greca sul mito, così come la proibizione ebraica dell’idolatria, sono strumenti di distanziazione. Greci ed ebrei, in modi diversi, hanno cercato di elaborare strumenti per guardare criticamente la realtà, senza farsene sommergere. Il cristianesimo si è opposto ad entrambi, ha imparato da entrambi.

Sono un ebreo nato e cresciuto in un paese cattolico; non ho mai avuto un’educazione religiosa; la mia identità ebraica è in gran parte il frutto della persecuzione. Quasi senza rendermene conto mi ero messo a riflettere sulla tradizione molteplice cui appartengo, cercando di guardarla da lontano, se possibile criticamente. Dell’insufficienza della mia preparazione ero, e sono, del tutto consapevole. Seguendo il fili delle citazioni scritturali sono arrivato a rileggere i vangeli, e la stessa figura di Gesù, da un punto di vista per me inatteso. Ancora una volta ho ritrovato l’opposizione tra ostensione e narrazione, tra morfologia e storia: un tema inesauribile, che mi appassiona da tempo. Ne ragiono, da vari punti di vista, nel secondo, quarto, quinto e sesto saggio. Una riflessione iniziata dai greci ha consentito di scoprire ciò che accomuna, pur nella loro diversità, immagine, nome e mito: l’essere situati al di là del vero e del falso. È una caratteristica che la nostra cultura ha esteso all’arte in generale. Ma le finzioni artistiche, come quelle giuridiche, parlano della realtà. Lo dimostrano tanto il saggio sullo straniamento (il primo) quanto quello, per certi versi speculare, sul mandarino cinese: là la distanza giusta, qui l’eccesso di distanza; là l’assenza di empatia come distanza critica, qui l’assenza di empatia come disumanizzazione. Ma ormai il tema delle mie riflessioni, innescate dalla distanza, era diventato la distanza stessa, la prospettiva storica Allora mi sono accorto di avere scritto questo libro.

Bologna, dicembre 1997

Straniamento. Preistoria di un procedimento letterario. Perché una lunga tradizione ha attribuito allo sguardo dell’estraneo – del selvaggio, del contadino, dell’animale – la capacità di svelare le menzogne della società? Nella vita le nostre percezioni e sensazioni sono rese opache dall’abitudine. L’arte è in grado di produrre un effetto di straniamento grazie all’introduzione di prospettive ignote, non abituali, come appunto sono quelle del selvaggio, del contadino, dell’animale. La grande letteratura, da Tolstoj a Dostoevskij, a Proust, è ben consapevole di ciò. Ripercorrere la storia di questa tradizione è tornare alle origini dell’arte di raccontare, scoprendone lo scambio costante con la cultura popolare.

Rappresentazione. La parola, l’idea, la cosa. Nel Medioevo, in Francia e in Inghilterra accanto al catafalco che conteneva il corpo effimero del re, veniva esibito un manichino, che simboleggiava il corpo del re in quanto legato all’istituzione, che continuava al di là della sua persona. Di questo manichino, detto “rappresentazione”, Ginzburg esamina i possibili precedenti nell’antichità. Il saggio propone un’ipotesi generale: e cioè che l’affermarsi dell’idea della presenza reale di Cristo nell’eucarestia abbia reso possibile, oltre alla diffusione delle “rappresentazioni”, un disincantamento delle immagini e la nascita (in Italia, e poi nell’intera Europa) di un’arte illusiva.

Rapporti tra ebrei e cristiani. Un lapsus di papa Wojtyla. La storica visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma nell’aprile 1986 fu un passo fondamentale dell’avvicinamento della Chiesa cattolica alla comunità ebraica, ma ebbe un risvolto curioso. Il papa, nel suo saluto, si rivolse ai presenti chiamandoli “nostri fratelli maggiori”. Questa è l’espressione con la quale Paolo nella lettera ai Romani chiamava gli ebrei. E Paolo pensava esplicitamente a Giacobbe ed Esaù: il più giovane avrebbe asservito il fratello maggiore…quanto di più lontano era nelle intenzioni di Giovanni Paolo II. La versione qui presentata dell’articolo, apparso nell’ottobre 1997 su “la Repubblica”, contiene anche la replica alle contestazioni mosse a Ginzburg da Gian Franco Svidercoschi dalle pagine dell’”Avvenire”.

Idoli e immagini. Un passo di Origene e la sua fortuna. Origene, vissuto nel III secolo d.C. ad Alessandria, allora grande e poliglotta centro della civiltà ellenistica, commentando la proibizione mosaica dell’idolatria, introdusse una sottile distinzione destinata ad essere ripresa nel corso dei secoli: quella tra idoli e immagini, tra raffigurazioni di ciò che non esiste e raffigurazioni di ciò che esiste. In questo modo veniva aperto un varco che consentì alla lunga di aggirare il divieto nei confronti delle immagini formulato nel Decalogo. Il saggio indaga le radici filosofiche della distinzione posta da Origene; e mostra che l’idea di una contiguità tra idoli e immagini ha ancora qualcosa da dirci.

Mito. Distanza e menzogna. La riflessione sul mito, da Platone in poi, ha consentito un atteggiamento di distanza critica nei confronti della nostra tradizione nei suoi molteplici, talvolta contraddittori aspetti che verosimilmente contribuì alla capacità della cultura europea di imporsi alle altre culture e dominarle. L’uso politico del mito, come menzogna consapevole adatta a dominare gli incolti, è stato teorizzato in una lunga tradizione che comincia con i greci e arriva fino a noi. Il saggio esplora questi due temi la riflessione sul mito e l’uso politico del mito mostrando in che modo siano connessi e perché siano oggi così attuali.

Ecce. Sulle radici scritturali dell’immagine di culto cristiana. I vangeli contengono molti riferimenti espliciti a testi scritturali (in particolare Isaia e il salmo 22). Riprendendo e sviluppando una ricca tradizione di studi Ginzburg mostra come questi testi scritturali e più in generale la volontà di identificare Gesù con il Messia abbiano ora modellato in profondità, ora addirittura generato la narrazione dei vangeli. Ogni riflessione su Gesù, in quanto figura storica, deve partire da qui. Nella seconda parte del saggio si mostra che anche le immagini cristiane di culto (Madonna col bambino, Crocifissione, Ecce homo) si riallacciano al nucleo profetico che ha generato in larga misura i vangeli.

Stile. Inclusione ed eclusione. In questo saggio vengono esaminate le implicazioni politiche delle discussioni sullo stile. L’idea, formulata da Cicerone, che l’eccellenza artistica, poetica, oratoria si possa raggiungere per vie diverse e incomparabili si è scontrata nella nostra tradizione con un’idea normativa dello stile. Ginzburg esamina il rapporto tra queste idee contrapposte sia in ambito artistico, sia nell’ambito della storia della scienza, con particolare riferimento alle posizioni relativistiche di Paul Feyerabend. Il saggio mostra che l’idea pluralistica dello stile, che tra ’500 e ’700 aveva consentito di valutare positivamente la diversità culturale, sia in Europa sia in rapporto alle civiltà extraeuropee, si è poi convertita nel nostro secolo in uno strumento di esclusione culturale e razziale.

Mandarino cinese. Uccidere un mandarino cinese. Le implicazioni morali della distanza. Nella storia della filosofia occidentale si è imposto, in tempi e forme diverse, un dilemma morale ancora di grande attualità. Una delle varianti più curiose recita, più o meno, così: ” Casa fareste se vi fosse data la possibilità di ereditare i beni di un ricco mandarino cinese, decretandone la morte con il solo desiderio?”. La distanza nel tempo e nello spazio produce indifferenza morale. Non ci sentiamo responsabili delle stragi del passato più di quanto ci sentiamo colpevoli delle crudeltà perpetrate in paesi lontani. Può il senso della giustizia correggere tale naturale egoismo dei sentimenti? La pessimistica conclusione di Ginzburg solleva il sipario su una desolante inadeguatezza della morale a fronteggiare “la nostra capacità di contaminare e distruggere il presente, il passato e il futuro”.

Prospettiva storica. Distanza e prospettiva. Due metafore. Attraverso tre episodi tratti dalla tarda antichità e dall’età moderna viene discusso il rapporto tra memoria, oblio e storia. Ginzburg, nel rifiutare il relativismo contemporaneo che assegna pari grado di verità a tutti i punti di vista (tanto nella scienza che nella storia), richiama l’attenzione sulla complessità e potenza esplicativa delle metafore legate alla nozione di prospettiva. Egli ripercorre in particolare il pensiero di Agostino, Machiavelli e Leibniz. La nozione di prospettiva, in equilibrio tra punto di vista soggettivo e verità oggettive e verificabili, è il possibile luogo d’incontro per una discussione feconda tra studiosi di discipline diverse.

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