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Contributi a una cultura dell’Ascolto CAMMINARSI DENTRO (281): Ritratto-volto-anima

Creato il 22 settembre 2011 da Gabrielederitis @gabriele1948

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Da Panta – Quadrimestrale n.21/2003 – InGrandiMenti, a cure di Massimo Donà – BOMPIANI (40 filosofi parlano di fotografia, di ritratto e di volto e di altro ancora)

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Emanuele Severino
La sequenza “ritratto-volto-anima” è di derivazione platonica. Il ritratto ritrae il volto umano, ne è l’immagine; il volto ritrae l’anima, ne è a sua volta l’immagine. L’immagine – si pensa – svela e nasconde. Il che sottintende che al volto corrisponda un’anima, la quale, nel volto, si svela e si nasconde.
Ma, tutto questo, all’interno di una situazione asimmetrica. Il volto altrui è manifesto; l’anima altrui è più nascosta che manifesta. La mia anima è manifesta a se stessa; ma il mio volto è più nascosto che manifesto. Mi vedo allo specchio e mi rispecchio nelle parole e nel comportamento degli altri. Tuttavia, che l’immagine nello specchio sia il mio ritratto e che il linguaggio altrui possa ritrarre il mio volto non è qualcosa di manifesto, ma è un’interpretazione della mia anima. E’ un’interpretazione anche che il volto che ho di fronte sia il volto di un’anima altrui; però ciò che interpreto come volto di un’anima altrui è manifesto; mentre questo non si può dire del mio volto, che appare sempre in modo indiretto – in un’interpretazione, appunto. Appartiene a questo ordine di considerazioni la circostanza che i fisici aristotelici non volessero guardare nel cannocchiale di Galileo Galilei: come si può essere certi che la figura che si vede nelle lenti del cannocchiale sia l’immagine di qualcosa che non si vede a occhio nudo?
Che qualcosa sia il volto di un’anima altrui è una fede. Non è la certezza originaria, come pensa Levinas. Che l’anima altrui esista e che un certo volto ne sia il ritratto è spesso considerato un imperativo morale – o addirittura l’imperativo morale fondamentale. Che qualcosa sia “prossimo”: che qualcosa di vicino sia il volto di un’anima altrui, la quale dunque non è lontana: che quindi qualcosa sia, in quanto “vicino”, visibile (“prossimo” risale infatti a prope, “vicino”), è stabilito da una fede. L’uomo di buona volontà (o in buona fede) è, insieme, l’uomo che crede di avere attorno a sé un prossimo.
Il senso della sequenza “ritratto-volto-anima”, a questo punto, è determinato dal senso che compete alla fede e alla buona fede. La fede salva, si dice. Ma la fede è fede proprio perché non scorge la verità del proprio contenuto, cioè proprio in quanto la verità rimane per essa un “invisibile”, qualcosa che non appare. Appunto per questo l’apostolo definisce la fede argumentum non apparentium. Ma che valore salvifico può avere uno sguardo in cui la verità non appare? Ciò non significa che non esista prossimo e che il volto altrui possa essere trattato come semplice allucinazione. Significa che è tutto da ripensare il rapporto tra volto, anima e tecnica – il ritratto appartenendo infatti al regno della tecnica. Il volto appartiene a questo regno? E l’anima stessa non sta forse al centro di questo regno? (pp.72-73)

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