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Contro l’unione politica europea

Creato il 22 giugno 2012 da Peppiniello @peppiniello

Quello che vorrei fare in questo articolo è riflettere insieme a voi sul tema dell’unione europea; tema scottante, che mai quanto oggi si presta a populismi, fraintendimenti e rigurgiti nazionalisti.

La maggior parte delle persone che contesta l’integrazione europea in genere lo fa partendo da posizioni opposte a quelle che andrò illustrando qui di seguito, e sui giornali, in tv, nei principali mass media, prendersela con la Merkel e le (presunte?) tendenze colonialiste tedesche è diventato più comune della caccia all’evasore.

Dividerò questo articolo in due parti; nella prima cercherò di mostrare come, in una prospettiva di breve/medio termine, ricaviamo un guadagno netto dal rigore fiscale verso cui la Germania ci sta spingendo; nella seconda mostrerò come, in una prospettiva di più lungo termine, l’idea di integrazione politica di più stati in un’entità sovra-statuale sia la conseguenza di una certa logica contenuta in nuce nel progetto di Hobbes e compagni; che però, per compiersi fino in fondo, deve necessariamente abbandonare i singoli stati nazionali, ormai in bancarotta e non più in grado di svolgere quel disegno, reincarnandosi in costruzioni sovranazionali, tendendo nel tempo verso l’ottimo di un superstato garante dell’ordine mondiale.

1) Italia, Europa e crisi dei debiti pubblici

Fino all’inizio degli anni 90 la politica economica dello stato italiano si reggeva su due pilastri: espansione della spesa pubblica finanziata in gran parte a mezzo di deficit, in misura minore con la crescita del prelievo fiscale; svalutazione della moneta volta a dare da un lato una spinta momentanea all’export delle nostre imprese, dall’altro a tener sotto controllo il valore reale d’un debito in rapida crescita. L’espansione della spesa pubblica serviva ai politici per comprare consenso, e si è tradotta in larga misura in aumenti sconsiderati dell’occupazione nelle pubbliche amministrazioni, di fatto l’unica vera forma di welfare che l’Italia abbia mai sviluppato.

Il compromesso politico trovato in quegli anni si declinava in due direzioni: da un lato provvedeva ai produttori del nord mediante finanziamenti, agevolazioni,e all’occorrenza procedendo a svalutazioni competitive, che diventavano volano per l’export delle imprese; dall’altro garantiva alle masse del sud occupazione tra le fila d’un apparato statale in rapida crescita (il posto a vita garantito per tutti, a prescindere da meriti e competenze).

Questo meccanismo si è giocoforza interrotto con l’ingresso nell’euro: a fine anni 90 ci ritroviamo con una spesa pubblica superiore al 50% del Pil, con un debito al 120%, e senza più la possibilità di giocare la carta monetaria. L’ingresso nell’euro ci regala tutto di colpo un bonus incredibile: un paese abituato a pagare salatissimi tassi di interesse sul debito, si ritrova a pagare interessi non troppo dissimili dai nostri più virtuosi partner europei; mantenendo una struttura produttiva inalterata, vengono risparmiati vari punti di pil in termini di interessi passivi.

Che fine hanno fatto questi soldi risparmiati? Sono (manco a dirlo) finiti ad alimentare nuova spesa corrente. La spesa è continuata a lievitare, spesso a mezzo di deficit che hanno contribuito ad ingrossare ulteriormente il debito pubblico. Mentre la Germania tagliava spesa pubblica per 6 punti di pil, noi ci cullavamo sul nostro bonus, continuando a fregarcene del fatto che uno stato che intermedia la metà del prodotto risulta incompatibile con ogni idea di mercato e di produttività.

Seguiamo cosa dice Giannino a tal proposito: “Se i tedeschi preferiscono che anche gli altri Paesi europei taglino 6 punti di spesa pubblica e tasse, come hanno fatto negli anni Duemila prima dell’eurocrisi, per alzare il reddito e la produttività nazionale e soprattutto delle sue aree meno avanzate, e rafforzando manifattura ed export attraverso una rivoluzione della produttività e moderazione salariale come hanno fatto grandi aziende e MittelStand germanico, ebbene viva i tedeschi. Hanno ragione loro“[1]

Quando sentiamo i politici dare addosso alla Merkel, dobbiamo ricordarci che essi tutto vorrebbero fuorchè dover diminuire la spesa pubblica: di spesa vivono, di spesa prosperano; tramite la spesa comprano il consenso che gli consente di tenersi al potere, alimentando clientele e corruzione; è solo spendendo, concedendo fondi, incentivi, appalti e concessioni che consolidano il loro potere.

Il problema è che siamo arrivati ad un punto di non ritorno: siamo il paese con la tassazione effettiva (se andiamo a levare dal denominatore l’aggiunta di una parte totalmente arbitraria di economia illegale, il livello di tassazione su pil arriva al 60%) più elevata d’europa, e con i servizi più scadenti.

Lo stato, che nelle intenzioni originarie, dovrebbe contribuire a rendere più facile la vita delle persone e delle imprese è, allo stato dei fatti, un colabrodo buono solo a drenare risorse, e ad ostacolare l’iniziativa individuale: una burocrazia inefficiente e nemica del contribuente; una giustizia dai tempi indefiniti e che non assicura in nessun modo il rispetto delle leggi; un sistema di welfare sostanzialmente inesistente; un meccanismo pensionistico assurdo che costringe chi lavora e produce a pagare cospicui contributi oggi ma che, non garantendo in nessun modo una prospettiva di pensione futura, fa si che essi debbano ricorrere a forme di assicurazione private, riducendo ulteriormente quelli che sono i salari più bassi dell’area euro.

In queste condizioni, con imprese che chiudono, e senza la minima possibilità di attirare capitali dall’estero, senza tagliare la spesa siamo destinati ad un destino di stagnazione, acuito dalla necessità dello stato di provare a procurarsi risorse aggiuntive per pagare gli interessi, in rapida ascesa, sul debito pubblico; gli ultimi mesi hanno visto  lo stato avvitarsi in una spirale nella quale, nell’aumentare nominalmente il prelievo fiscale, induce esso stesso la diminuzione del montante sul quale andrebbe ad applicarsi la maggiore tassazione, e si ritrova con un gettito minore di quello previsto in partenza (i dati recenti, con un ammanco sul gettito previsto nell’ordine di 3 miliardi di euro, testimonia una verità che è figlia del buon senso, non di complicati calcoli econometrici)..

Da questa situazione si esce o tagliando spesa e tassazione, rimodulando quindi il rapporto tra parte pubblica e parte privata ( ridando fiato al mercato); oppure buttando tutto a mare, uscendo dall’euro e tornando alla lira (come il buon Silvio ha recentemente proposto), in modo che si possa svalutare, le imprese nel breve termine possano aumentare le loro quote di export, e mediante l’inflazione si possa procedere a diluire il valore reale del debito pubblico; che poi l’inflazione generi una marea di conseguenze nefaste, beh, poco importa. Questo è quel che ha in mente chi propone oggi l’uscita dall’euro: tornare a svalutare come 20 anni fa, nascondendosi dietro l’idea (in sé legittima) di riappropriarsi della sovranità monetaria; il tutto per non dover tagliare nulla.

Gli è che nonostante i parametri di Maastricht, le sanzioni, le lettere della Bce, e le ramanzine della Merkel, non si è riusciti fin’ora in nessun modo modo a far convergere i paesi verso politiche , livelli di spesa/tassazione e di debito sostenibili; l’ipotesi che i membri dell’euro convergessero verso livelli sostenibili di loro sponte sembra decisamente naufragata; a meno di eventi clamorosi, l’idea di passare da un commissariamento esterno (la Merkel che ci dice di spendere meno, di fare le riforme ecc) ad un’ imposizione diretta di quelle politiche (unione non più solo monetaria, ma politica) non è più fantapolitica.

E’ impossibile andare avanti a lungo in questa situazione, a metà strada tra unione puramente monetaria e unione politica, dal momento che la Germania non è affatto svincolata da danni molto seri in caso di default della aree più deboli dell’euro zona (i flussi verso la Germania che passano dagli intermediari bancari configurano claims della Bundesbank verso le altre banche centrali “deboli” dell’eurosistema, per quasi 700 miliardi di euro), ed il rischio che la caduta di uno trascini a catena tutti gli altri, non è così inverosimile.

2)Integrazione politica vs ordine liberale

Ora. Da liberale, ritengo una spesa pubblica che intermedia la metà del pil nazionale incompatibile con ogni pretesa di libertà individuale; e chiunque riesca a spingere la nostra classe politica a ridurre questa quota incontra il mio favore. Seguendo tale strada dovrei esultare di fronte alle ingerenze della signora Merkel, ed esser quanto mai contento dell’idea di unione politica che, di fatto, levando potere ai nostri politici spendaccioni, realizzerebbe probabilmente un’idea di finanza pubblica più vicina alla mia. Ed in una prospettiva di breve termine è sicuramente così.

Il problema è che mi spaventa, anzi, mi terrorizza l’idea d’un potere centrale sempre più esteso, sempre più irresistibile, sempre più nebuloso ed impermeabile alle istanze dal basso.

Il concetto di unità, di centralismo, unito ad una volontà pianificatrice che agisce con il dichiarato intento di perseguire (e far perseguire) un fine comune, è quanto di più distante ci sia da ordine liberale, che in primo luogo vuole tutelare la libertà e la possibilità di scelta degli individui.

Il liberalismo è, tutto sommato, una dottrina semplice, che cerca di tutelare la libertà delle persone mediante la concorrenza: concorrenza sul mercato, certamente, ma anche concorrenza istituzionale.

Lo stato si pone come negatore di questo meccanismo concorrenziale, dal momento che detiene il monopolio della violenza.

Il passaggio dall’età medievale all’età moderna può essere letta, tra le altre cose, come il passaggio da un mondo policentrico, in cui i centri di potere (a partire da i due più importanti, il sacro romano impero e la chiesa cattolica, scendendo giù nei feudi, nelle città libere, nei regni, nei monasteri), ma anche i diritti stessi, che si declinavano in modo differente a seconda dei luoghi, dei contesti e delle persone (e così si aveva il diritto feudale, il diritto regale, il diritto canonico  il diritto imperiale ecc ragion per cui le persone era soggette contemporaneamente a tutta una serie di diritti in reciproca concorrenza), erano vari e in competizione tra loro, ad un mondo monocentrico, nel quale in un dato territorio a dettar legge è uno solo, lo stato, detentore, come dicevamo, del monopolio della violenza.

Questa superiorità dell’uno sui molti è un leitmotiv che attraversa trasversalmente nei secoli la cultura europea; e la ritroviamo, ad esempio, nel De Monarchia di Dante, quando dice:

Quindi è meglio che il genere umano sia governato non da più, ma da uno solo, cioè dal Monarca, che significa appunto principe unico [...] E siccome tra due termini posti a confronto soltanto tra loro quello che è migliore si identifica con «il migliore», ne consegue che tra quell’«uno» e quei «più» il primo non solo è più accetto a Dio, ma è anche «il» più accetto. Dal che si deduce che il genere umano si trova nella condizione più perfetta quando è governato da uno solo, e che quindi la Monarchia è necessaria per il buon ordinamento del mondo[2]

Si possono addirittura cercare le origini di questa presunta superiorità in ambito etimologico, prendendo il termine diavolo (diabolein); questo viene dal greco “dia ballo”, che significa separare, dividere (allontanarsi dall’unità quindi). Significativa la ricaduta linguistica: il suffisso dus, due, connota in senso peggiorativo:dis-prezzaredis-metteredis-conoscere, ecc

Tutto questo testimonia una idea fortissima circa la superiorità dell’uno sul molteplice. Sempre Dante dirà “più ci si allontana dall’uno  più ci si allontana dal bene”.

Insomma, dietro il tentativo sempre più marcato di ridurre le diversità verso un’unità sempre più ampia (tutte le varie costruzioni sovranazionali, dall’Onu all’Ue, dalla Nato al Wto, esattamente in questa direzione mirano a controllare, sottomettere e pacificare aree sempre più estese del globo), vi è una tendenza plurisecolare, difficile da liquidare con semplici analisi di tipo economico.

In conclusione: perché credo che mantenere una molteplicità di stati sia preferibile rispetto ad avere pochi grandi stati, o addirittura un unico grande stato, magari nominalmente anche federale? Essenzialmente perché la pluralità consente di sfuggire alla morsa, al giogo del potere. Se gli stati sono tanti, ed in reciproca concorrenza, avremo che questi si contenderanno le risorse, intese come capitale umano, materiale e finanziario; e queste saranno libere, nel momento in cui la propria giurisdizione di riferimento peggiori i servizi, aumenti le imposte, i regolamenti, o limiti la libertà degli individui, di spostarsi verso una giurisdizione più favorevole, e questo senza che ci sia la necessità di oltrepassare un oceano. Tanto più un potere è concentrato ed esteso, tanto più diventa difficile sottrarsi al suo dispotismo. E poco importa che questo potere sia scelto mediante libere elezioni: avere la possibilità di concorrere (in maniera per lo più marginale…) alla scelta del nostro despota, non ci rende per questo meno schiavi.

L’Unione Europea, viceversa, non nasce per federare stati in reciproca concorrenza tra loro (sulla scia degli Stati Uniti o, ancora meglio, della repubblica federale svizzera), ma nasce con l’obiettivo opposto: vincolare, restringere, regolamentare ogni tentazione concorrenziale.

La stessa idea di armonizzazione fiscale è stata, fino ad ora, intesa come “portare tutti al livello più elevato” (piuttosto che scendere tutti verso il meno elevato)

Il capitalismo di mercato, che ha in sé una missione di distruttività creatrice (Schumpeter), una tendenza a distruggere il vecchio e l’obsoleto, per far posto al nuovo, al più efficiente, è il nemico giurato dell’Unione Europea; essa nasce per scongiurarne gli effetti destabilizzanti; per difendere i paesi in primo luogo dalla concorrenza tra di essi, e poi dalla concorrenza proveniente dai paesi esteri più dinamici.

Il progetto è esplicitamente declinato in ottica solidaristica, in vista del perseguimento di un ideale comune.

Ma un’idea di società di questo tipo, ci insegna von Hayek, è quanto di più lontano ci sia dall’ideale di società libera, dove il fine non deve esser stabilito dall’alto, da un’élite di illuminati burocrati; ma  l’unico fine dev’essere il lasciare gli individui liberi di scegliere i propri fini da perseguire (o come è scritto nella costituzione americana, lasciare gli individui liberi di perseguire la propria felicità).

L’unico modo per vincolare tutti i membri ad un fine è quello di controllare tutti mezzi, o gran parte di essi; cosa che è riuscita molto bene alle nazioni europee; non solo esse intermediano metà del prodotto interno lordo, ma grazie ad una regolamentazione sottile e minuziosa, si è reso possibile che non sia possibile fare alcunchè  senza l’esplicito consenso dell’autorità centrale; il motto dell’UE potrebbe essere “tutto quel che non esplicitamente consentito è vietato”.

Tutto questo sarà portato ad un livello superiore di efficacia nel momento in cui si affermasse l’unione politica dei popoli europei.

Quel che spero è che questa direzione che conduce dalla pluralità all’unità non si compia fino in fondo, e che avremo la capacità di renderci conto che la diversità, la pluralità e le differenze sono un patrimonio da salvaguardare, non una minaccia; esse sono la garanzia per una civiltà di libertà, mentre l’unità è, da sempre, la parola d’ordine dei collettivismi in ogni tempo.



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