Contro la dittatura dei geni
Creato il 09 settembre 2013 da Greylines
Cosa determina il nostro aspetto fisico? Cosa definisce il nostro maggiore o minore livello di intelligenza? Cosa influisce sul nostro comportamento, sui nostri gusti sessuali, sulle nostre probabilità di successo nella società? Secondo molti, la risposta a queste domande è sempre la stessa: i geni.Il travolgente successo della genetica ha reso il gene un paradigma dominante non solo nella biologia moderna ma anche nell’immaginario collettivo, un paradigma secondo il quale nell’informazione genetica è contenuto tutto ciò che definisce gli esseri viventi – e quindi anche l’uomo – dal punto di vista fisico e comportamentale. Negli ultimi decenni è emerso un pensiero gene-centrico forte, una metafisica determinista alla quale, per dirla con le parole di Bertrand Jordan, biologo molecolare, «non aderiscono solo i giornali e i giornalisti, che quasi ogni giorno ci propongono l’identificazione di un qualche gene che, in modo del tutto improbabile, governerebbe i nostri caratteri più complessi e i nostri comportamenti più personali. A questa metafisica aderiscono, spesso, anche alcuni uomini di scienza. E persino qualche biologo». Jordan scriveva queste parole in un libro dal titolo significativo, Gli impostori della genetica, ma già una decina di anni prima c’era stato chi si era scagliato contro il determinismo genetico. Si tratta del genetista Richard Lewontin, classe 1929, uno dei pionieri della genetica delle popolazioni e dell’evoluzione molecolare, autore di un libro breve e intenso, anch’esso dal titolo estremamente significativo, Biologia come ideologia, edito in Italia da Bollati Boringhieri.Nel 1990, Lewontin venne invitato a tenere le Massey Lectures, delle lezioni radiofoniche che ogni anno, per una settimana, vengono organizzate in Canada su temi politici, culturali e filosofici. Da quel ciclo di discorsi nacque in seguito questo libro.Due sono i binari su cui si muove la critica di Lewontin. Il primo è quello scientifico; il genetista americano spiega come il determinismo genetico sia basato su ipotesi deboli, dal momento che già negli anni ‘90 si sapeva che l’informazione contenuta nel genoma non era “il” linguaggio della vita bensì “uno dei” linguaggi della vita. Durante la formazione di un individuo, dall’uovo fecondato all’adulto, i processi di sviluppo embrionale e i fattori ambientali possono infatti interferire con l’attività dei geni, spegnendoli e attivandoli. In più, gli stessi prodotti dei geni, le proteine, possono a loro volta agire sull’espressione genica, modificandola. Risulta dunque chiaro che il gene non è la “molecola capo” che siede in cima a una gerarchia biologica, bensì un elemento integrato in un sistema complesso, che influenza ed è a sua volta influenzato dagli elementi che lo circondano.Lewontin prosegue allargando il campo e andando ad affrontare il tema della sociobiologia, una corrente della sociologia secondo la quale esistono geni per ogni forma di comportamento sociale, dalla religiosità all’intraprendenza, dal dominio sessuale alla xenofobia, geni che quindi dovranno passare il filtro della selezione naturale per guadagnarsi un posto al sole nella società. Se i geni determinano gli individui e gli individui determinano la società, ne consegue che i geni determinano la società. Una società la cui fissità e le cui gerarchie sarebbero dunque “giustificate” dalla natura biologica delle sue componenti individuali. E allora, «se tre miliardi di anni di evoluzione ci hanno resi quel che siamo, crediamo davvero che un centinaio di giorni di rivoluzione ci cambieranno?», chiede provocatoriamente Lewontin.Alla dimensione sociale del determinismo genetico il genetista americano dedica le pagine più polemiche. Secondo lui, il pilastro su cui si regge questa visione distorta della biologia è la falsa distinzione fra individuo e ambiente e, più in generale, fra interno ed esterno. Una distinzione che porta a isolare le singole componenti di un sistema, sia esso biologico o sociale, creando l’illusione che queste unità individuali e autonome determinino con assoluta certezza le proprietà dell’insieme, biologico o sociale, in cui si riuniscono. Una distinzione che non considera come le interazioni reciproche fra le singole componenti possano far sì che proprietà inesistenti a livello individuale emergano poi nel passaggio al livello di gruppo. L’origine di questo riduzionismo esclusivo ed estremo è associata, secondo Lewontin, al passaggio dalla società feudale, priva com’era di libertà individuale, a quella capitalista e iper-competitiva. «Questa concezione individualistica del mondo biologico,» scrive infatti l’autore, «è semplicemente un riflesso delle ideologie rivoluzionarie borghesi del secolo XVIII che collocarono l’individuo al centro di ogni cosa». La scienza non è un’entità superiore e distaccata ma un’istituzione sociale immersa nella realtà del proprio tempo, che influenza e dalla quale è influenzata, secondo quel principio di interattività che è alla base del pensiero del genetista di Harvard.Dal punto di vista stilistico, Lewontin ha scelto, come lui stesso racconta nell’introduzione, di mantenere i toni discorsivi della radio. Scelta efficace dal punto di vista comunicativo, poiché contribuisce a tenere alto il ritmo e a non smorzare la forza polemica del testo, ma che costituisce anche il suo tallone di Achille. Certi passaggi – come quello sulla tubercolosi e le sue vere cause – vengono infatti affrontati con una rapidità che potrebbe disorientare, e talvolta anche disturbare, più di un lettore. Si potrebbe obiettare che l’importante è dare stimoli e spunti per una discussione critica del problema, il che è vero, ma ciò smaschera il secondo difetto del libro, e cioè la scarsità della sua bibliografia. Un maggior numero di riferimenti aiuterebbe infatti il lettore ad approfondire i temi, tanti, che Lewontin tira in ballo.
Si tratta di due difetti tutto sommato secondari, che non intaccano la forza del pensiero del genetista di Harvard. Che piacciano o no, le sue critiche smascherano questioni reali e attualissime anche a vent’anni di distanza, il che rende questo libro una lettura necessaria, per ricordarci quei problemi che né la società né tantomeno la scienza possono permettersi di trascurare.
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