Contro la metacritica

Da Narcyso
19 febbraio 2014

Questo saggio, scritto con tono altisonante  e forse anche un po’ noioso che non mi è proprio, doveva apparire in altra situazione. Lo metto qui come approfondimento, a mio avviso necessario, rispetto al tema della critica che ho affrontato qua e là. Mi sembra utile, più che la prima parte, dedicare un po’ di tempo alla seconda in cui elenco una serie di punti rispetto a un “mostro” in gonnella che io chiamo “Metacritica”  e che rappresenta uno dei mali, a mio avviso, del leggere in un certo modo oggi.

Sebastiano Aglieco
CONTRO LA METACRITICA

Un testo è un segno di vita cui si deve continuare a dare vita
Ezio Raimondi

La critica moderna si è costituita, nel corso degli anni, come sistema interpretativo dotato di epistemologie autonome, proprie di ogni costruzione cognitiva autofondante.
Si è evoluta, ma non del tutto, da una strumentalità non dipendente da un canone interpretativo preciso, indirizzata piuttosto a una lettura essenzialmente retorica e stilistica dell’opera.
Che non sia un’arte in sè ce lo dice il fatto che gli antichi non avevano inventato per essa una musa, essendo, l’opera d’arte, fruita direttamente da un pubblico a natura comunitaria.
Anche quando la critica è stata praticata in forma di glossa, non sembra aver mai ambito a uno statuto, in quanto agiva nel senso di una presa di posizione tutta interna all’opera, atteggiamento probabilmente recuperato dalla critica crociana come idea di autonomia della bellezza.
Paradossalmente la critica guadagna una sua autorevolezza nel momento in cui le viene riconosciuta la funzione di polemos, la pretesa, cioè, di poter distinguere tra ciò che è bello e ciò che è brutto in base a un sistema valutativo e valoriale indipendente.1
La critica moderna nasce nel momento in cui un atteggiamento propriamente retorico comincia a mostrare le pecche di un depotenziamento degli stessi strumenti interpretativi e di decodifica, che ora vogliono essere autorizzati dai ” fatti sociali ” che “assillano” e “assediano” l’opera d’arte e di cui essa si nutre.
Ma, ove si rinunci a considerare la centralità dell’opera, si finisce per spostare il discorso intorno al degrado dell’ “ambient”, con strumenti che non sempre coincidono con le necessità di un’opera, qualunque sia il suo valore e la sua rilevanza.
La critica crociana, investita della dichiarazione politica di un’autonomia totale, sia del fatto linguistico, sia della forma dell’opera, entra in crisi dal momento in cui l’apprezzamento estetico, più che definire, si autodefinisce, rinunciando a verificare il surpluss valoriale dei fenomeni extratestuali, con la conseguenza che i giudizi vengono supportati da procedimenti retorici autostatutari.
Ma del resto la critica crociana è una reazione al moralismo critico e al determinismo positivista, cosí come lo strutturalismo, con tutto il suo farraginoso bagaglio, rappresenta la reazione a una impostazione eccessivamente idealista o pericolosamente confinante con i “dilettantismi” del lettore sprovveduto.
Sta di fatto che, mentre l’apertura strutturalista finisce per confinare con una sorta di bagaglio retorico raffinatissimo e onnicomprensivo, lo stesso Todorov denuncia il rischio di una critica eccessivamente concentrata intorno a un sogno di conoscenza in grado di anatomizzare l’oggetto per lasciarlo poi scomposto sul tavolo operatorio.

“La corrente recente della – decostruzione – non porta in altra direzione. I suoi rappresentanti, in effetti, possono interrogarsi sul rapporto dell’opera con la verità e i valori, ma solo per constatare – o piuttosto per decidere, perché lo sanno già, trattandosi del loro dogma – che l’opera è fatalmente incoerente e non riesce ad afferrare alcunché e distrugge i suoi stessi valori; e ciò che essi definiscono “decostruzione del testo” . Diversamente dallo strutturalista classico, che scartava a priori il problema della verità dei testi, il post- strutturalista vuole affrontarlo, ma il suo commento invariabile è che non troverà mai la risposta”.2

La letteratura è quindi in pericolo quando non è più in grado di riattivare l’immaginario del lettore e quando viene uccisa da una critica eccessivamente concentrata ad erigere monumenti a se stessa. Questa è, in fondo, l’idea profonda che informa lo “specifismo” necessario a ogni archeologia e l’analisi testuale è da intendersi come operazione di scavo delle eventualità del testo, mai dislocate in un solo presente ma nella storia delle sue origini, dei suoi attributi e dei suoi lasciti.
La critica si fa certamente carico di una esigenza di mediazione tra un oggetto di fruizione estetica e il lettore. La sua natura più intima è dunque quella di essere strumento che mette in campo strategie di conoscenza, decodifica, interpretazione. Che questo sia avvenuto in funzione di un pragmatismo, è fenomeno accertato e ammesso ma non più praticabile nei termini di un progetto culturale tutto da venire.3 La critica non esaurisce l’opera, che per sua natura rimane un oggetto polimorfo e polisenso.

“Nella biblioteca di Babele una scrittura differisce da un’altra meno per il testo che per il modo in cui esso viene letto”.4

Relegata nella singolarità dell’ intervento, essa rinuncia al suo aspetto militante di creazione di senso, fenomeno che dovrebbe avvenire a tutti i livelli, partendo dalle eventualità di un bambino allenato a saper “vedere”, fino agli interventi di uno studioso che, delegando provvisoriamente le sue competenze di storico e di “ripensante”, si ponga, nei confronti dell’opera d’arte, con la stessa disponibilità dello sprovveduto o dell’ignorante. Alla base di un atteggiamento critico militante, c’è sempre un espressionismo che finge di non sapere, costretto così a ripartire da una forma grezza di conoscenza; teatralizza l’ignoranza, dialoga con l’opera metaforizzando il non sapere come espressione di un pensiero scaturito dalla conseguenza del dialogo, di una risposta che segue sempre la domanda.
L’opera è un oggetto che riluce tutte le volte che la fiaccola del lettore ne colpisce le potenzialità e ne reinventa i sensi necessari a un’epoca, a un contesto sociale, a una sete spropositata di rinascita, di metamorfosi.

“La lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore. La solitudine diventa paradossalmente socievolezza, entro un rapporto certo fragile come sono fragili tutti i rapporti intensi e non convenzionali, che aspirino ad essere autentici (…) Non c’è dubbio che quando leggiamo le parole di un testo le riempiamo della nostra esperienza (…) Mentre percorro le frasi di un libro, pur leggendo in silenzio investo la mia voce, ossia qualcosa che viene dal profondo dell’intimità corporea”5

Il miglior critico è un lettore medio consapevole dei fatti e delle proprie specificità di lettore; ma anche un lettore che legga con lo sguardo, cioè con una “grande finezza di percezione” e “una ardita larghezza di immaginazione”. Simili le domande, diverse le risposte/variazioni legate a cultura, condizione sociale, età anagrafica, condizione affettiva, potenziamento o depotenziamento delle cause della lettura.
La presenza attiva di un lettore consapevole – non delle questioni semiologiche a cui il testo rimanda, la sua struttura, la sua storia e astoricità, ma della ricreazione attraverso l’operato di una “fantasia” esponenzialmente pericolosa – è uno dei grossi problemi che il destino delle opere di poesia in particolare pone alla modernità. Che il lettore debba esercitare, per consapevolezza etica e per necessità di trasmissione, il diritto al tradimento, è un fatto che la scuola, votata alla formazione di coscienze libere, dovrebbe prendere seriamente in considerazione.

***

Tradire e Thraere: che cosa tradisce la lettura consapevole e che cosa tramanda?
Innanzitutto la sua storia, il bagaglio delle sue abbozzate trame e degli strappi, e cioè una fitta rete di riferimenti mentali, culturali e psicologici necessari a risemantizzare le occasioni del testo e a traghettarlo nelle occasioni del contemporaneo.
Una critica silenziosa è in effetti la parola non condivisa, le glosse intorno al grande corpo respirante dell’opera, ma forse il termine piú forte da usare é insufflare, ridare respiro momentaneo, nella consapevolezza dello strappo che ne consegue, che è il dono dell’opera del privarsi di senso originario, in nome di un entrare nel tempo, di un vagito percepito come fenomeno ineludibile.
E’ chiaro dunque che il maggior rischio a me sembra l’atto di forza esercitato contro l’unitarietá testamentaria dell’opera, la lotta delle ragioni del tempo, esposte come arma illusoria di sopravvivenza; e questo perché l’opera permeata di tempo, totalmente si espone ai rischi della lotta e di un suo temporaneo oscuramento. Una critica che costruisce sistemi critici autonomi é dunque una metacritica, contro la quale desidero stilare un manifesto a chiare lettere, affisso sulle porte della cattedrale:
- La metacritica é un genere a parte di auscultazione, una forma letteraria molto vicina al polemos. Il polemos esposto all’interno della letteratura é il pre/testo.
- La metacritica é un sistema di pensiero che utilizza il testo come strumento. Assomiglia piú a un gesto forte che a un pensiero.
- Lo scopo della metacritica é attraversare il testo per giungere a conclusioni che non sono nel testo. Una metacritica, infatti, non serve il testo. Lo asservisce.
- Se una metaletteratura é ammissibile, in quanto puó costituire la struttura portante del testo, diciamo approssimativamente la sua poetica, la metacritica ha il peso di un atto politico, é una presa di posizione rispetto a qualcosa che non coincide solo col testo.
- La metacritica é un gesto fuori dal poetico in quanto non é suo scopo incidere ma attestare. Essa espone una dottrina, quindi al massimo deve porsi nei dintorni dell’ambiente del testo.
- Il pre/testo della metacritica consiste nell’idea che il testo abbia bisogno di una redenzione, di un passaggio ulteriore.
- La metacritica non si scavalca da sé perché, siccome dipende dal testo, vive di continuo nel pericolo di una delegittimazione attraverso il testo.
- La metacritica é piú attaccabile, mentre il testo, essendo effettivamente polisemico, si nutre di eventualitá e possibilitá.
- Il testo non ha uno scopo, infatti basta a se stesso. La metacritica invece, si nutre solo di uno scopo che é quello di resistere alla propria stessa eventuale delegittimazione. La metacritica, infatti, é degittimabile in quanto asservita a una causa.
- La metacritica non localizza fenomeni ma li crea. Essa non é veramente interessata ai fenomeni letterari. Questi sono per essa, interferenze nei codici dei sistemi antropologici e sociali.
- La metacritica non potenzializza le possibilità del testo ma ne mette in luce le debolezze.
- per la metacritica le opacità del testo non sono fenomeni isolati ma buchi dell’ intero sistema.
- La metacritica non ingrandisce il testo ma lo riduce. Oppure: la metacritica non focalizza il testo descrivendone la trama ma lo ingrandisce fino a slabbrarlo.
- La metacritica é interessata a creare sistemi di riferimento partendo da sistemi che ritiene inopportuni.
- Si ha metacritica quando un sistema letterario é al suo culmine. Al suo culmine in quanto ha già attivato meccanismi di sfaldamento.
- La metacritica, dunque, non trascina con sé un’opera ma le opere di un intero sistema.
- La metacritica ha premesse molto lunghe e analisi ridotte all’osso.
- per giustificarsi, la metacritica ha bisogno di un complesso di riferimenti metaletterari.
- La metacritica si accanisce sui corpi di sistemi in discesa. Scavalca la critica e giunge immediatamente alla carne dell’opera.
- Come genere autonomo, la metacritica dovrebbe alimentarsi delle de/potenzialità dell’opera e rinunciare a demolirne le motivazioni intrinseche.

Queste parole vogliono rispondere alle sollecitazioni di una pulizia capace di porsi rispetto all’opera, in una posizione di attesa vigile piuttosto che di rottura, rinunciando a desacralizzare il gesto che conduce misteriosamente la mano verso il compimento del segno, nel mistero spesso insondabile di ciò che accade nel frattempo, o che è già accaduto. La letteratura mai dovrebbe porsi nello scopo di apparecchiare campi di battaglia e vittorie; chi scrive é troppo concentrato a ritagliarsi la parola responsabile della sua maturità, geloso come l’atleta che lancia la sua sfida cronometrica a se stesso e al tempo; chi legge e chi scrive sulle cose che legge e scrive, non é fratello minore ma complice dello scopo di riconsegnare alla communio qualcosa che rimane essenzialmente imperscrutbile e che si apre solo nella promessa di un accogliere, di una volontà che sappia ritradurre il segno in gesto.
Senza questa volontà e questa delicatezza, l’opera è destinata a rintanarsi, sconfitta da un’occasione persa e incasellata nelle dimostrazioni a brupto degli esperimenti non riusciti, incapace di risorgere dallo stesso affanno che l’ha generata.

…la parola
giusta è esplorare: portare fuori il pianto
e la pietà di cui è pieno il mondo e viverci
dentro con affetto e distacco, con lo sguardo
e le mani. Il resto verrà dentro questa accoglienza.6

Note:
1 È noto che la vendita di quadri a partire dal rinascimento, la necessità di distinguere il valore secondo gusti e spesso esigenze pratiche di status, dipendeva dal giudizio di esperti/mercanti – primo fenomeno di valutazione estetica autorizzata per conto terzi – con la conseguenza di liberare il fruitore dall’impatto frontale e drammatico che sempre esercita la vera arte e defraudandolo di quella capacità di sognare e immaginare i significati e le potenzialità che da essa emanano.
2 Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti 2008
3 “Come parlare di letteratura senza doversi piegare alle esigenze dell’ideologia dominante? Scelsi una delle poche vie che permettevano di sfuggire al reclutamento ufficiale. Si trattava di occuparsi di argomenti che non avessero nulla a che vedere con l’ideologia; perciò, di tutto quello che nelle opere letterarie riguardasse il testo in quanto tale e le sue forme linguistiche (…) Improvvisamente sono stato costretto a impadronirmi di nuovi strumenti di lavoro; ho sentito l’esigenza di prendere dimestichezza con i concetti fondamentali della psicologia, dell’antropologia, della storia. Dal momento che le idee degli autori riacquistavano tutta la loro pregnanza, per comprenderle meglio ho voluto immergermi nella storia del pensiero che riguarda l’uomo e le sue società, nella filosofia morale e politica. (…) La letteratura non nasce nel vuoto, ma all’interno di un insieme di discorsi vivi, di cui condivide numerosi aspetti” … (Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti 2008)
4 Ezio Raimondi, Un’etica del lettore, Il Mulino 2007
5 Ibidem
6 Corrado Bagnoli, Casa di vetro, La Vita Felice 2012


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