C’è chi propone di togliere il reato di omesso controllo da parte dei direttori di giornali, chi invece di alleggerire o chi addirittura di appesantire pene e sanzioni per i giornalisti diffamatori. La vera soluzione però sta nell’organizzazione del lavoro. Perché il giornale è un’azienda, meglio una fabbrica. E i giornalisti, per quanto professionisti, sono dipendenti.
La struttura aziendale è verticistica e il nodo sta proprio al vertice, nel rapporto fra editore e direttore. L’editore che interesse ha ad aprire un giornale? Economico? Politico? Vuole tutelare interessi determinati? Affida questo compito a un direttore che semplicemente viene nominato. Non si sa bene come. Il passato è ricco di totodirettori, di nomine improvvise e opache, di scelte a stanze chiuse, come di direttori cacciati via da un momento all’altro. Le regole sono sin troppo flessibili, anche se l’ultimo contratto Fieg-Fnsi (Federazione italiana editori di giornali e Federazione nazionale della stampa italia, cioè il sindacato unitario dei giornalisti) prevede un avvicinamento della figura del direttore a quella del dirigente: gli si garantisce la pensione. Il rapporto però fra editore e direttore è privato e fiduciario, ma del tutto decisivo per la vita del giornale. Il direttore dovrebbe poi presentare un piano editoriale. Che non si usa quasi più, o che resta sulla carta.
All’insediamento i giornalisti ascoltano un discorso del direttore e dovrebbero dirgli di no? Chiamati a un consenso iniziale quali strumenti hanno per sapere quali sono gli obiettivi per i quali si lavorerà?
L’ultimo contratto Fieg-Fnsi forse, si teme, avrà sempre meno applicazioni, vista la crisi.
E nel caso dell’editoria berlusconiana le domande trovano facile risposta.
Un’alternativa c’è. E’ la rivoluzione copernicana, il modello cooperativistico, che toglie di mezzo il verticismo e il superpotere di editore e direttore. Non che sia il paradiso, ma la democrazia è più tutelata, anche se il lavoro per propria natura induce a selezioni e sforzi spietati. In un rapporto meno teso, la deontologia professionale può respirare.
Le cooperative sono meno ricche, ma hanno in più la forza della libertà. Almeno di un po’ di libertà in più. Quanto a Feltri e Sallusti o Belpietro, si sa che dire di no a Berlusconi è complicato, per quante belle fiabe si raccontino.
Inutile anche riferirsi a Paolo Berlusconi. Lo stesso Feltri, in pubblico, in un congresso di Cortina d’Ampezzo, ha dichiarato di aver trattato con Silvio Berlusconi il proprio contratto di direttore.
Non che manchino leader nelle cooperative, ma è più difficile che emergano le pazzie, i diktat, le forzature, come quell’articolo di Renato Farina (brillante, un pezzo “drogato”, falso, ma se fosse stato vero? La sinistra ha perso i toni duri, ma anche un po’ di verve, senza fare di Farina un modello, che non è il caso).
Non bisogna pensare che esista un solo modello organizzazione, un solo modo di lavorare e di concepire il rapporto fra lavoro e proprietà. E’ ora che la fantasia riapra gli occhi dopo un lungo sonno. Almeno lo si può auspicare!
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