Le proteste di queste ultime settimane in Turchia meritano un'analisi che tenga in considerazione non solo i fatti e le cronache, ma anche il lessico e i sintagmi utilizzati per raccontarne.
Poche sono state, infatti, le analisi concepite al di fuori di un rigido schematismo teso a distinguere tra "buoni" e "cattivi". Parecchie hanno privilegiato un taglio che inquadrasse i resoconti da Istanbul (spesso unica realtà di riferimento) all'interno della dialettica "oppressi vs. oppressori" con tutte le declinazioni del caso: ovvero, le dicotomie "islamisti" contro "laici" (meglio "laicisti", opposto ideale nella coppia dicotomica), "autoritario" o "dittatoriale" contro "democratico", "moderno" contro il sottinteso "non europeo".
Il ruolo svolto da queste dicotomie è stata sibillino. Ad esempio, le emittenti televisive turche sono state accusate di aver mantenuto un silenzio tombale sugli scontri e le proteste. In realtà, notizie in merito alla situazione e aggiornamenti in diretta sono stati forniti anche dalle tv più contestate e fin dalle prime ore della protesta; la stessa Cnn Türk - inizialmente accusata di aver dato scarso rilievo alla vicenda - ha seguito gli scontri con varie dirette. Si è sostenuto che le notizie siano trapelate soltanto attraverso i social media.
Qui è sottesa una provocazione che va ben oltre il denunciare la scarsa deontologia dei media turchi, ben chiara in altre mistificazioni ricorrenti in questi giorni, tese a costruire un'immagine di Erdoğan dittatore e di un Akp dittatoriale.
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