Magazine Cinema
di Anton Corbijn
Una marionetta impazzita, gli occhi sbarrati e lo sguardo perduto: forse una richiesta di aiuto od il tentativo di condividere un esperienza troppo forte. Così sul palco Ian Curtis sintetizzava il proprio disagio di fronte ad una vita che viaggiava troppo in fretta: un talento precoce e la manifestazione di un energia incontenibile fino al punto di trasformarsi in una malattia reale e psicologica. Musica ed epilessia diventano allora le muse di un Orfeo destinato a sgretolarsi sotto i colpi di un ritmo incalzante e desolato.
Il sabba messo in piedi da Antony Corbjin sfugge al controllo dello stesso, diventando per assurdo il rapporto solipsistico tra un uomo ed i suoi fantasmi: una partita persa in partenza, un funerale anticipato da un colore che assomiglia ad un referto patologico: il bianco ed il nero sono la radiografia di una storia che parla attraverso la musica, nel film come nella vita, valvola di sfogo di un urgenza che Curtis non si sforzava di nascondere: “Control” ce la mostra in maniera generosa ma senza voyerismo, facendo un passo indietro laddove neanche le parole riuscirebbero a spiegare: ed è qui, in questo cinema da camera, lontano dagli eccessi manierati dell’artista maledetto, così come in quelli del prescelto illuminato, che ritroviamo l’essenza del suo protagonista: il matrimonio prematuro, la nascita del figlio ed anche l’adulterio sono il frutto di un carattere senza mediazioni, abituato ad agire con la forza della propria immediatezza. Ma anche un uomo in fuga dalla sua fragilità, perennemente nascosto da una corazza di insondabile distanza.
“Isolation” è il refrain di una delle canzoni inserite nel film, ed alla fine sembra proprio questa la condizione di una diversità che fece di tutto per non restare tale: dalle relazioni amicali a quelle amorose, e persino nell’ufficio di collocamento dove continuò a lavorare nonostante gli impegni musicali, tutto testimonia della sua voglia di appartenere, paradosso di una manifestazione di assoluta unicità. “Control” è in ogni momento sospeso nell’imminenza di un evento ineluttabile. La telecamera filma gli scarti psicologici relegando i personaggi ai margini della scena. Gli ambienti diventano il limite oltre il quale non andare per evitare di morire; il centro del palco come punto di equilibrio ed ancora di salvezza: non si può farne a meno; ad ogni defezione corrisponde una perdita, un punto di non ritorno: nel film gli attacchi di epilessia o le crisi depressive sono il risultato di questa latitanza, dagli impegni musicali a quelli matrimoniali, fino all’ultimo atto, quello conclusivo, completamente decentrato e solitario. A questo punto è il regista a riprendere il Controllo, e lo fa per impedirci di vedere l’ultimo atto di un doloroso commiato. Ian Curtis morì suicida nel 1980 a soli 23 anni.
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