Magazine Diario personale

Convergenze parallele (osservazioni generali in margine agli Esami di Stato)

Creato il 30 giugno 2015 da Povna @povna

Ci sono cose che non si possono pubblicare in forma narrativa, o per lo meno non in tutti i tempi. Così, mentre l’attesa degli esiti ufficiali degli orali avvolge i Merry Men (che pure sanno che si possono distendere), la ‘povna ha bloccato di necessità i racconti. Perché quello che sta succedendo nella sua commissione di maturità (ma, da quel che sente in giro, pure in parecchie altre: quella di Mr. House di fronte, quella dell’Anziana di Ginevra, dell’Amica Vicina, della Quasi Parente – e l’elenco sarebbe ancora lungo) le lascia comunque materiali per riflessioni che scorreranno per un anno (oltre che parecchi sonni inquieti).
Decide così, in spirito innanzi tutto di convalescenza, di condividere alcuni pensieri generali un po’ per tutti, distillati dalle molte parole che sono corse, in questi giorni, a sera tarda, per cercare di digerire e di trovare un bandolo a quello che, a conti fatti, digeribile resta ben poco.
1. La prima considerazione riguarda la natura dell’esame e della legge (‘Ordinanza Ministeriale Annuale) che lo regola: la ‘povna lo ha detto spesso, è l’esempio di una legge molto ben fatta, capace di tutelare la traversata delle sette persone durante i lavori, tutti quanti, senza quasi problemi fino a quando ci siano fino a due commissari stupidi (pro “stupido” lege: incapace, irrisolto, ignorante, vanesio, stolido, scazzato – in ogni caso indegno di fare l’insegnante). Da due in su, il discorso si fa complesso, e diventa con ogni evidenza appannaggio di un presidente che deve sapere comandare.
2. Il secondo punto, conseguenza del primo, è che ogni considerazione sull’ordinanza tutelante viene meno in presenza di un presidente che non sia capace di prendersi la responsabilità di quel che fa con consapevolezza. In questo senso, essere persone fini (e magari anche giuste, colte, capaci di mettere a proprio agio i ragazzi) non serve a nulla senza un poco di polso. O meglio: serve nella misura in cui i sei commissari siano risolti; ma, se per caso qualcosa, per i motivi più svariati, traballa, è allora che in commissione si sente davvero la mancanza di qualcuno (fu così la PresidentA indimenticata dell’Onda, e anche, su saggio consiglio di Esagono, la ‘povna) che sappia comandare. È utile aggiungere, da questo punto di vista, che una statistica sommaria rivela i presidenti presidi molto meglio dei presidenti insegnanti, alla faccia di tutte le paure belate sul Dirigente padrone rispetto al decreto sulla buona (che resta comunque pessima) scuola.

3. Un tempo, l’Esame di Stato (che ancora si chiamava di maturità) veniva organizzato su scala nazionale, e i potenziali commissari interessati facevano domanda per andare a esaminare lontano dalla sede di servizio, in ‘altrissime’ province. Questo sistema, ben rimborsato (probabilmente troppo), cadde in disuso per il solito motivo che presiede alle riforme scolastiche dai tempi della guerra del ’15-’18 (tranne nel caso della Berlinguer, che era ottuso di suo, poveretto), vale a dire i tagli; ma la portata delle sue conseguenze devastanti è senza pari. Adesso, infatti, che ogni insegnante (o quasi) è obbligato a fare domanda di maturità (innanzi tutto) e può chiedere solo, come sedi, provincia di servizio e (se diversa) eventuale residenza, il risultato è paradossale quando non ingestibile. Nei fatti, la ‘povna (e con lei i suoi amici alle prese con casi tutti diversi, ma nella sostanza analoghi) si sta rendendo conto che la maggioranza dei giochi, specie agli orali, si consuma non in aula, davanti a un candidato in camicina inamidata, consapevole di essere di fronte al suo primo momento reale di passaggio, ma fuori – nei corridoi, nei viaggi di andata e ritorno, per telefono. L’insegnante X, della classe A, è in commissione a Nowhere, e interroga una classe, poniamo, ad Agricoltura Tecnologica; contemporaneamente, l’insegnante curricolare (cioè dell’anno) di quella classe, l’insegnante Y, è commissario a Elsewhere, per la classe B, sulla quale ha insegnato X, durante l’anno; e alla fine ci si rende conto che la scelta di voto e domande dipende molto di più dagli equilibri degli orali che si svolgono a venti chilometri che da quello che, in quel momento, succede nelle aule dell’esame. Per riassumere molto, la sensazione è che, con tutto questo scambio all’interno della provincia (specie in materie molto specifiche, cioè, sia chiaro, tutte quelle dei professionali e dei tecnici, cioè dell’ampia maggioranza delle scuole italiche, dove i nomi sull’intero territorio sono pochi e forzatamente si conoscono), l’esame assomigli sempre più a una riunione di condominio, tutti a scannarsi sui millesimi, che alla celebrazione di un rito fondamentale dello Stato. Anche Ellegio ne ha parlato cursoriamente nel suo post, definendolo il gioco delle tre carte; alla ‘povna, alla luce degli ultimi eventi, vengono purtroppo assai più in mente le immagini del Divo.
4. Come accennava poco sopra – a parte poche eccezioni – la domanda di partecipazione all’Esame di Stato è obbligo per tutti i docenti, ed è pagata in più, rispetto allo stipendio base, su una serie di parametri, forfettariamente. Questo comporta, come corollario, che una bella fetta di italici docenti (che già di per sé non brillano per dedizione ed efficienza) giunga in commissione con scarsa voglia e il pensiero che corre solo ai soldi. Di conseguenza, una delle parole che più si sente volare durante gli esami è “ho fretta”, come se si stessero correndo i duecento metri piani. Per gli stessi motivi (oltre alla sopracitata questione delle tre carte) appare evidente il fatto che i quattro quinti abbondanti del corpo docente italiano sia del tutto incapace di restare cinque ore senza toccare il cellulare.
5. Tutto questo, unito a una pervasiva ignoranza sull’Ordinanza costitutiva dell’esame, genera comportamenti che è generoso definire irrituali, quanto meno: problemi sulla definizione delle griglie (che, appunto come da legge, per le terza prova e l’orale dipendono dal documento di presentazione interno delle classe, per esempio – il che in soldoni vuol dire che si adottano quelle prodotte dagli interni); problemi sul modo di correggere, dunque; ma soprattutto (perché le prime due cose sono, legge alla mano, maggiormente arginabili) problemi sulla conduzione del colloquio orale. Che, recita il testo della legge: “tende ad accertare la padronanza della lingua, la capacità di utilizzare le conoscenze acquisite, di collegarle nell’argomentazione e di discutere ed approfondire sotto vari profili i diversi argomenti. Esso si svolge su temi di interesse multidisciplinare, attinenti alle Indicazioni Nazionali per i Licei e alle Linee guida per gli istituti tecnici e professionali, relativi ai programmi e al lavoro didattico dell’ultimo anno di corso”, si svolge in “un’unica soluzione temporale, alla presenza dell’intera commissione” e “ha inizio con un argomento disciplinare o pluridisciplinare, scelto dal candidato anche riferito ad attività o esperienze attuate durante l’ultimo anno del corso di studi”; inoltre, deve “vertere su argomenti di interesse multidisciplinare e con riferimento costante e rigoroso al lavoro didattico realizzato nella classe durante l’ultimo anno di corso. Gli argomenti possono essere introdotti mediante la proposta di un testo, di un documento, di un progetto o di altra questione di cui il candidato individua le componenti culturali, approfondendole”. Tradotto in soldoni, significa che l’orale non è la sommatoria di singole interrogazioni, ma, appunto, un colloquio, una conversazione a otto (sette commissari più il candidato), e che il giudizio, basato molto di più sulla capacità di orientarsi in maniera trasversale che sulla precisione nel recitare il teorema di Bernulli, deve essere dato non da ciascun commissario sul suo proprio piccolo e miopissimo orticello, ma in maniera globale. Questo avviene? Molto poco, nella prassi, perché troppo spesso i commissari, esaurita a la propria materia, si mettono a parlare tra loro, a guardare il cellulare, il giornale, pensare ai fatti loro – in una parola si distraggono. E alla fine della fiera, se il presidente non interviene perentoriamente, e presto, l’intero castello va a puttane.
5. Non aiuta, in questo, la positiva ignoranza dell’italica popolazione sulle procedure che pure sono, e sono istituite nel diritto, così cruciali non solo per i giovani adulti esaminati, ma per il paese tutto, e questo è un ben triste paradosso. La maggioranza delle persone conserva della maturità ricordi, più o meno sbiaditi, che sono la stanca riedizione di Notte prima degli esami, sostanzialmente; e nessuno si informa. Eppure, la ‘povna non dice leggere l’ordinanza, che sarebbe troppo, ma almeno farsi spiegare, per curiosità e interesse, se non si vuole arrivare al concetto di dovere civico, come funziona un momento che lo Stato ha sancito come essenziale nella formazione del cittadino sarebbe cosa buona e giusta, oltre che evidente interesse personale.
Nonostante tutto questo, in virtù di una legge che istituisce nei fatti nelle commissioni tra loro e nel legame tra commissioni e Stato una gerarchia militare strettissima (una cosa che, volendo leggere per bene i documenti, si sente, e di cui ci si sente fieri di fare parte), come la ‘povna ha detto all’inizio, le cose funzionano meglio di come, stanti i dati di partenza, potrebbero andare (cioè a puttane, semplicemente). Funzionano bene, anzi, giova ripeterlo, fino a che sui sette della commissione le magagne si limitano a due, perché (come in plotone) diventano gestibili. Dopo, meno, si passa all’arbitrio dei singoli; ed è lì che la ‘povna riflette, oggi, mentre aspetta la chiusura della procedura per quest’anno, su quanto sia insieme consolante e triste che di questo rito di passaggio, tra scuola e famiglia, siano consapevoli, per davvero, soltanto i ragazzi. Perché da un lato allarga il cuore sapere che, all’uscita della scuola, i giovani futura spina dorsale del paese siano attenti e pronti; ma dall’altro è profondamente disturbante vedere da parte di adulti, insegnanti o meno, che si pretenderebbero, se non risolti, quanto meno un po’ più attenti, una tale disinvolta noncuranza su uno dei momenti cardine della vita dello Stato.


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