Conversazioni telefoniche – postbellico(so)

Creato il 13 dicembre 2011 da Unarosaverde

Sabato, ore 12.30. Sto pranzando, ascoltando con mezzo orecchio il telegiornale, godendomi la quiete dei quattro giorni di ponte. Suona il telefono, mi alzo e vado a rispondere. Sbuffo, non per “orsite” ma perché, ogni volta che suona il telefono di casa, mi salta la connessione internet. Alice, nome perfetto per il nonsense dell’adsl italiano. Sarà per mio padre: le comunicazioni per me, ormai, passano tutte da computer o da cellulare.

“Pronto?”

“La signora Tal dei Tali?”.

Lo si capisce immediatamente, senza bisogno di essere dei lettori del pensiero, che si tratta di una vendita. Il primo impulso è quello di rispondere: “Non mi serve niente, graziebuongiorno” e riappendere. Di solito resisto, visto che ho la vaga impressione che l’ultima spiaggia italiana, prima della disoccupazione nera, sia l’impiego in un call-center e queste persone non ci godano ad intrudere negli spazi privati ma lo facciano per necessità.

Se decido di proseguire nella conversazione, alla domanda suddetta, mi ritrovo da un paio di anni a questa parte davanti ad un primo bivio: dire la verità o mentire?

“No, non sono io, è mia madre”.

“Me la può passare, gentilmente?”, proseguono con il tono risoluto con cui ci si rivolge ad una ragazzina.

No, non posso, servirebbe un’intercessione diretta dall’alto dei cieli. A volte, con persone la cui voce mi da’ sui nervi, scelgo di essere brutale: non c’è niente come la morte che faccia piombare immediatamente nel disagio anche l’operatore più agguerrito. Si, lo so, non si fanno queste cose. Però è casa mia, spazio mio, sacro orario dei pasti: sono loro gli intrusi.

Mi trattengo e mento: “Si, mi dica.”

“La chiamiamo per farle alcune domande. Possiamo? Si? Bene. Posso chiederle conferma di dove vive? Dalla voce la sento giovanissima, ha più o meno di 35 anni?” Continuo a rispondere, con infinita pazienza: a volte mi piace cronometrare il tempo che impiegano per arrivare al nocciolo della questione. Mi ricorda un po’ certe sciarade da riunioni: i commerciali che blaterano e indorano le pillole, i produttivi che scalpitano innervositi.

“Quale è il suo rapporto con i prodotti naturali? Li conosce, pone attenzione quando li acquista, controlla la composizione dei cosmetici? Compra mai prodotti per il viso o per il corpo in erboristeria?”.

Comincio ad inquadrare: non si tratta di miscele per farina ma di creme.

Imbocco la via del sarcasmo. “Signora, guardi, non solo non mi interessa ma io sono monogama. Quando mi affeziono ad una marca, e vedo che funziona, potrebbe contenere anche cianuro che non la cambierei. Ho una relazione ventennale, in questo momento, e siamo felici così.”

A parte la mia marca fissa, anche l’erborista di fiducia ce l’ho: frequentava il mio liceo, mi spaccia propoli e favolosi sciroppi per la tosse, a prezzi così onesti che quando pago ho sempre il dubbio che mi stia facendo il cinquanta per cento di sconto. Inoltre ho un ricordo scolpito nella mente del professore di Chimica Applicata, all’università, che un giorno, con il fare tranquillo e non curante con cui sosteneva quattro ore filate di lezione, ci regalò una perla. “Lasciate perdere: è tutta glicerina, costa 3.000 lire al chilo. Il resto sono aromi.” A distanza di anni, senza aver mai appurato se si trattava di una battuta per risvegliarci dalla narcolessia o di una constatazione, sono sempre più convinta avesse ragione.

Il sarcasmo non funziona. La signora prosegue imperterrita. “Guardi, la chiamo perché il nostro direttore ha deciso di riservale un’offerta speciale. Le proponiamo un cofanetto di tre creme, per il viso, per il contorno occhi, antiage. Contengono acido ialuronico, ginko bilboa, …Lei sa cosa è l’acido ialuronico?” La voce prosegue con tono didattico, come se parlasse sempre alla su citata ragazzina sciocca.

Ci sono alcune situazioni, come questa, che scatenano i miei istinti peggiori. Le ho già detto, almeno tre volte, infilandomi a fatica tra una frase e l’altra -perché parlano tutti velocissimi e senza pause – che non sono interessata ma questa non molla, è un osso duro. Non riesco a chiudere la comunicazione premendo off, non ci sono abituata. Il tono da maestrina mi irrita profondamente, tocca la mia superbia, fa emergere tutta la mia arroganza. Di solito volo basso e adagio: ho imparato a mie spese che di gente molto più brava di me è pieno il mondo ma, in questi contesti, non so bene perché, mi scatta la reazione da prima della classe. Detesto le frasi di spiegazione meccanica imparate a memoria e sciorinate con fare saputo, specialmente se riguardano i misteri delle molle dei materassi o le miracolose proprietà di qualche sostanza. Mi è capitato di  rispondere, fredda gelata, boriosa, snocciolando titoli di studio e valutazioni del QI, fino a chiedere, inferocita:  ”Quale parte del “non mi interessa” non capisce?”. Si, lo so, non si fa. E’ maleducato, offensivo, presuntuoso. La lascio proseguire. Sono quasi curiosa, a questo punto: mi sta tenendo al telefono da dieci minuti e non ha ancora parlato di soldi.

“Noi abbiamo un’officina cosmetica nel Parco naturale di ….. Lei conosce le nostre zone?”. Non solo le conosco ma ho la fortuna di vivere anche io vicino ad un Parco Naturale, in una zona in cui ci sono più agriturismi che abitanti, probabilmente, perché oggi il business è bio, a chilometro zero, senza conservanti, fatto in casa, eco e tutte queste belle paroline, di cui i signori del marketing ci stanno riempiendo la testa. Ma, a parte la necessaria frequentazione dei supermercati, dalle mie parti l’acqua del rubinetto si può bere, la farina per la polenta la si compra al mulino, conoscevo il nome dei vitellini di uno dei contadini da cui si rifornivano i miei (Mirko e Licia, per la cronaca), il basilico per il pesto me lo regalano amici con l’orto, nella stagione dei kiwi e dei fichi l’offerta gratuita supera la domanda e tutto quello che viene spacciato come naturale  sta cominciando a suonarmi di truffa.

“Bene. Il nostro direttore le ha riservato le tre creme ad un’offerta speciale di 61 euro, spese di spedizione comprese. E lei sa quanto questa proposta sia vantaggiosa. Quanto paga il suo antiage?”.

Basta, adesso mi sono stufata. Chi cavolo lo conosce il suo direttore? Che parte fa nel mondo questa persona che si permette, dopo che ho chiesto più e più volte di togliere il mio numero di telefono dalle liste pubbliche accessibili alle aziende commerciali, di invadere la mia quiete con proposte non richieste? E’ finito il tempo dello spreco, non se ne sono accorti?

“Signora, la ringrazio per le spiegazioni e l’offerta ma, come le ho già detto, non sono interessata. Trovo estremamente spiacevoli le forme di vendita telefonica e, anche se lei mi stesse proponendo qualcosa che mi interessa, non comprerei mai attraverso questi canali. Se voglio qualcosa so dove e come procurarmela. Da sola.”

“Ma scusi – ribatte indomita – ma in questo  modo lei si sta precludendo  delle occasioni”.

“Signora – proseguo esasperata – le occasioni nella vita non sono tre creme a 61 euro.”

Finalmente mi molla, seccata. Ha perso tempo lei, l’ho perso anche io.

Occasioni perdute. Il problema è che non sappiamo più come usare le parole nei contesti corretti. Le occasioni perdute sono non riconoscere l’amore quando ci passa accanto, non salire su un treno che parte pur avendone una voglia matta, non pronunciare un “no” o un “si” e continuare a tenere chiuse le porte delle nostre gabbie di paura, non fermarci un minuto a rimirare uno specchio d’acqua su cui passa superbo un cigno, non ridere con un bambino per una cosa stupidissima e divertente, non trovare il tempo per sederci, cinque minuti, a parlare con una persona che ci vive accanto.

Non è il momento di finirla, con queste invasioni, irruzioni, offerte sensazionali, roboanti, aggressive, finte? Non è ora di capire che non possiamo più continuare a farci prendere in giro dagli spacciatori di oggetti e di bisogni?

Per favore, basta con le telefonate a numeri privati. Ho i pannelli solari da tre anni e c’è ancora il gestore statale che chiama per propormi di installarli o di fare sottoscrizioni alternative. Ma dall’altra parte del filo, voi operatori di call center, non vi sentite a disagio, in imbarazzo, a fare queste telefonate? Non chiamate più: non mi piace essere maleducata, non mi riesce naturale, mi inquieta. E poi mi fate cadere Alice che, balzana com’è, ci mette ore a smettere di lampeggiare.


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