"Il diritto allo sviluppo deve essere perseguito in modo tale da soddisfare in egual misura i bisogni di sviluppo e ambientali sia delle attuali generazioni che di quelle future" - e ancora - "dovrebbe essere data priorità alle specifiche situazioni ed ai bisogni dei paesi in via di sviluppo, particolarmente i più arretrati e quelli più vulnerabili dal punto di vista ambientale. Le azioni internazionali in campo ambientale e per lo sviluppo dovrebbero essere indirizzate verso gli interessi ed i bisogni di tutti i paesi"1.
Tali principi, rispettivamente quello dell'equità intergenerazionale e quello delle "responsabilità comuni ma differenziate" sono codificati nella Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo, sottoscritta al Summit della Terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992. In tale evento i 178 Paesi aderenti riconobbero che le problematiche ambientali necessitavano di essere affrontate in maniera universale e che le soluzioni avrebbero dovuto coinvolgere tutti gli Stati. Questi buoni propositi erano rafforzati da una congiuntura economica internazionale e da un assetto politico, entrambi favorevoli: il crollo del sistema bipolare faceva emergere una volontà di ampliamento della democrazia e della governance in materia di diritti e doveri internazionali. Strumento cruciale, che ad oggi dovrebbe per noi essere materia di political learning, fu il Protocollo di Kyoto firmato nel 1997 ma entrato in vigore nel 2005, dopo la ratifica della Russia. Tale accordo, proprio sul principio delle responsabilità comuni ma differenziate, prevedeva due tipi di impegni consistenti il primo, a carico di tutti gli Stati, nella formulazione di programmi nazionali e nella compilazione di inventari delle emissioni di gas serra; il secondo, a carico solamente dei paesi sviluppati (Paesi Annesso 1) nella riduzione entro il 2000 delle emissioni ai livelli del 1990.
I limiti del Protocollo si sono, tuttavia, palesati nell'immediato. Gli USA, il principale emettitore di gas serra con una quota del 36% sul totale, non ratificarono l'accordo; mancata ratifica da cui è conseguito il necessario ricorso all'adozione di misure "morbide" al fine di garantire la ratifica di altri paesi per bilanciare l'assenza americana. Esempio di tali misure fu l'accettazione dell'inadempienza dei paesi fino al 2012 in ragione della quale nessuna sanzione sarebbe stata applicata. Altro consistente limite fu quello di non considerare tra i paesi sviluppati - c.d. Annesso 1 - paesi come Cina o India che, coprendosi le spalle dietro la definizione di paesi in transizione, sono scampati da specifici impegni sulle emissioni di gas, continuando il loro percorso di crescita che di lì a poco li avrebbe resi protagonisti nella questione del cambiamento climatico.
L'approccio bottom-up e gli INDCsIl problema, così come l'obiettivo, sono chiari, ciò che negli ultimi anni possiamo dire essere cambiato è l'approccio. Si rinuncia al top-down2 caratterizzante il protocollo di Kyoto e le convenzioni precedenti in materia, per scegliere un approccio bottom-up, che significa chiedere ai rappresentanti dei vari Stati cosa possono fare per contribuire a risolvere il problema. Sono stati presentati 177 intended nationally determined contribution (INDC), tradotti come "contributi promessi stabiliti a livello nazionale" che riportano le riduzioni volontarie dei singoli paesi in vista dell' international climate agreement di Parigi. Queste coprono circa il 93% delle emissioni globali del 2010 e il 94% della popolazione mondiale. L'impegno c'è, ma l'obiettivo comunque non risulta raggiunto. Limitare l'aumento di temperatura a 2 °C viene sforato ampiamente. Questo forse perché gli impegni presi non sembrano essere pienamente equi ed adeguati. Questa critica è stata mossa dal Climate Action Tracker che, mettendo a punto una nuova metodologia per valutare se gli impegni segnalati all'UNFCCC 3 dai vari governi siano compatibili con l'obiettivo di mantenere entro i 2 °C il riscaldamento globale, ha confermato che non siamo sulla giusta traiettoria. Climate Action Tracker (CAT), un sito costituito da quattro autorevoli Istituti scientifici (oltre allo stesso NewClimate Institute, PIK, Climate Analytics ed Ecofys) che monitora gli sforzi dei principali trenta paesi emettitori di gas ad effetto serra e fornisce le previsioni sul riscaldamento globale, ha sviluppato una metodologia più completa che permette di valutare al contempo sia l'"equità" che la "compatibilità" degli INDCs con l'obiettivo del +2 °C.
Il nuovo metodo elaborato si basa su un range di differenti approcci quali, ad esempio, la Responsability (la riduzione delle emissioni in relazione al livello storico di queste all'interno del paese) o la Capability (la riduzione delle emissioni in relazione alla possibilità economica del paese, misurata tramite PIL pro-capite o sull'Indice di Sviluppo Umano). Secondo il CAT, se la proposta del governo sulle emissioni si colloca al di sotto di tale range viene classificata come "inadeguata", ossia non in linea con il percorso del +2 °C. Di contro, un esempio da seguire " role model" è quando la proposta va ben al di là di quel che sarebbe "equo". Tra i due estremi ci sono le valutazioni di "medium", se le proposte di governo fossero meno ambiziose del range necessario per raggiungere l'obiettivo, e di "sufficient" quando la proposta è al di sotto della metà del range necessario per essere considerata "equa".
"Nonostante ci siano stati alcuni progressi nelle proposte dei governi, con il passaggio di alcuni paesi da "inadeguati" a "medi", le proposte sono ben lungi dall'essere compatibili con l'obiettivo di +2 °C", ha affermato Bill Hare di Climate Analytics. A tal proposito bisogna ricordare che si arriva alla Conferenza di Parigi dopo dichiarazioni "quasi congiunte" di Obama e del premier cinese Xi Jinping su una riduzione effettiva (e questa volta con i numeri) delle loro emissioni di gas serra. Tali accordi facevano ben sperare per un superamento della distinzione di Kyoto tra paesi industrializzati e in via di sviluppo, sia a livello ideologico che economico. Con l'accordo bilaterale tra i due paesi la Cina si è impegnata a raggiungere entro il 2030 il picco di emissioni e un aumento del 20% della quota di energie non fossili, mentre gli USA si sono impegnati a ridurre del 26-28% le loro emissioni entro il 2025 rispetto ai livelli del 2005. Obiettivo americano realisticamente raggiungibile solo attraverso un raddoppiamento del ritmo di riduzione delle emissioni tra il 2015 e il 2025 rispetto a quanto fatto nel periodo 2005-2015, senza dimenticare la barriera più significativa rappresentata dal Congresso americano, attualmente guidato dai repubblicani.
COP21: l'accordo, qualificato "storico", è anche realistico ed attuabile? Ai posteri la sentenzaAndremo ora ad analizzare i punti salienti e necessari raggiunti alla COP21, il summit internazionale contro i cambiamenti climatici, tenutosi a Parigi dal 30 novembre al 12 dicembre scorsi, nonché i limiti riscontrabili dall'accordo che ne è scaturito per cercare di individuare la via verso cui i "grandi della terra" si orienteranno negli anni a venire su tale tematica.
L'accordo prevede un obiettivo davvero molto ambizioso: contenere l'aumento della temperatura globale del pianeta ben al di sotto dei 2 °C, perseguendo idealmente il goal di +1,5 °C. Promotori di quest'obiettivo sono stati i rappresentanti delle piccole isole e degli altri Stati più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico, per i quali quel mezzo grado può fare la differenza tra la vita e la morte. Per quanto riguarda i meccanismi di trasparenza e revisione degli impegni presi da ogni Stato, nell'articolo 9 dell'accordo, viene sottolineato che per "creare una fiducia reciproca e promuovere l'implementazione è stabilito un sistema di trasparenza ampliato, con elementi di flessibilità che tengano conto delle diverse capacità". Si chiede alle nazioni di presentare regolarmente un inventario delle emissioni prodotte e assorbite, aggiornamenti sui progressi fatti nel raggiungimento degli obiettivi previsti, informazioni sul trasferimento di capitali e conoscenze tecnologiche e una rivalutazione degli impegni individuali ogni cinque anni a partire dal 2023.
Per quanto riguarda il nodo chiave della diversa responsabilità storica tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo in relazione agli oneri economici, viene chiesto ai paesi sviluppati di "fornire risorse finanziarie per assistere quelli in via di sviluppo, in continuazione dei loro obblighi attuali", e vengono poi sollecitati a stabilire una roadmap concreta per raggiungere insieme l'obiettivo di destinare 100 miliardi di dollari l'anno fino al 2020, con l'impegno futuro di aumentare in modo significativo i fondi per l'adattamento. L'accordo riconosce anche l'importanza di investire di più in adaptation e resilience, e ciò trova conferma nei fondi destinati ai paesi vulnerabili per affrontare i cambiamenti irreversibili a cui non è possibile adattarsi, basandosi sul meccanismo sottoscritto durante la COP19 - il Meccanismo di Varsavia - ed andando comunque ad escludere la possibilità di individuare responsabilità civili o di stabilire risarcimenti specifici.
Descritti gli impegni presi e gli obiettivi prefissati andiamo ora a ponderarli con la loro effettività e quindi, con la loro possibile efficacia. Fa ben sperare l'ambizioso target di contenere l'aumento della temperatura sotto i 2 °C per poter arrivare a 1,5 °C, se non fosse per la mancanza di un corollario di questo all'interno dell'accordo. Secondo Steffen Kallbekken, direttore del Centre for International Climate and Energy Policy, il resto dell'accordo non sarebbe coerente con l'obiettivo in quanto si va a basare unicamente sugli INDCs, tralasciando gli obiettivi di breve e medio termine. Gli INDCs, allo stato attuale, mettono il mondo in una traiettoria di aumento della temperatura tra i 2,7 °C e i 3,7 °C; secondo il direttore, per raggiungere il target di 1,5 °C, il taglio delle emissioni rispetto al 2010 dovrebbe essere tra il 70% ed il 95% entro il 2050. Anche se tutti i paesi facessero la loro parte - cosa non scontata, visto che mancano ad oggi concreti strumenti di controllo e sanzione - la temperatura salirebbe comunque sopra i 3 °C.
Viene poi meno nel testo il concetto di decarbonizzazione, o meglio, si è preferito focalizzare l'attenzione su impegni più generici che fanno riferimento al "bilancio tra emissioni antropogeniche e rimozione di queste da parte dei sink biosferici (come oceani o foreste) nella seconda metà del secolo". La genericità di tale foruma mostra che l'obiettivo non è più il totale abbandono di carburanti fossili - che sarebbe stato bene espresso con l'utilizzo del termine "decarbonizzazione" - ma una sorta di legittimazione del continuo utilizzo di questo tipo di carburanti. Neppure un cenno sulla necessità di tagliare i 5.300 miliardi di dollari l'anno di sussidi ai combustibili fossili, una lacuna che ha di certo rallegrato il Ministro del petrolio saudita Ali al-Naimi che, come auspicava, potrà mantenere intatta la sua strategia di diversificazione energetica non preoccupandosi del necessario processo di transizione e che ha accontentato anche il Ministro per l'Eco-socialismo Barreto, che definiva il termine de-carbonizzazione non corretto e preferiva fare riferimento ad una stabilizzazione dei gas serra.
Un passo indietro di dimensioni considerevoli è stato fatto in merito alle emissioni dovute ai trasporti internazionali: vengono tralasciati impegni per l'aviazione civile ed il trasporto marittimo, impegni che erano però parte del testo di Copenaghen e che ricoprono circa il 10% delle emissioni totali. Altra criticità è rappresentata dall'impegno assunto dal punto di vista finanziario: 100 miliardi l'anno da qui al 2020, cui i paesi in via di sviluppo potranno contribuire su base volontaria. Impegno sicuramente positivo ed onorevole se non fosse per due aspetti, impossibili da tralasciare, e consistenti: il primo, nel fatto che a partire da 2010, anno in cui il Fondo Verde per il Clima è stato istituito, solo il 10% delle promesse di erogazione è stato mantenuto; il secondo, nella impossibilità di poter considerare oggi India e Cina come paesi in via di sviluppo. Se, dunque, in passato il principio delle "responsabilità comuni ma differenziate", in relazione ai doveri dei paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, era sinonimo di equità, oggi sembra invece remarle contro.
ConclusioniLa cerimonia ufficiale di firma sarà il 22 aprile 2016 a New York e l'entrata in vigore del trattato, non prima del 2020, avverrà dopo trenta giorni da quando almeno cinquantacinque parti responsabili di almeno il 55% delle emissioni di gas serra lo avranno ratificato. La scienza, tuttavia, dice che il tempo non c'è: l'OIM avverte che entro il 2050, a causa dei cambiamenti climatici, ci saranno 250 milioni di profughi ambientali; l'FMI sottolinea che il cambiamento climatico è una minaccia per la stabilità dei mercati. In definitiva, ciò che è emerso dalla COP21 di Parigi è stata la sostanziale mancanza di una volontà politica per agire drasticamente ed immediatamente. Si chiedeva a gran voce un accordo che esprimesse grande solidarietà internazionale e garanzie volte ad aumentare la resilienza dei più vulnerabili. Ciò necessitava di un accordo vincolante a livello globale, di un obiettivo di de-carbonizzazione (quindi di 100% di rinnovabili al 2050) e l'implementazione di un meccanismo che imponesse ai paesi ricchi di andare a risarcire i territori più vulnerabili delle perdite e danni irreversibili dovuti al cambiamento climatico, di cui l'Occidente, non bisogna dimenticarlo, è il primo responsabile.