Il primo sforzo che devo fare è quello di non pensare che il film sia stato girato nella mia città, Reggio Calabria.
In questo aiuta molto l'occhio giovane della cinepresa di Alice Rohrwacher; uno sguardo secco e realista che fotografa l'esistente come se fosse una qualsiasi città di provincia del sud Italia.
Il tutto è narrato attraverso lo sguardo della protagonista: Marta, una bambina che ritorna con la madre dopo dieci anni di emigrazione. Il suo è uno sguardo sul disastro, sul degrado delle periferie, così lontane dal modello patinato disegnato a suon di danaro pubblico da una politica maldestra e connivente e vissuto solo da una piccola èlite della cittadinanza.
Lontano dal lungomare si vive ancora come faceva il proletariato degli anni settanta, lavoro duro per pagare debiti e affitti, il santo cui affidarsi e il prete come riferimento esclusivo del vivere, così come scriveva Gramsci meno di un secol fa.
La Rohrwacher allude, richiama, inanella perifrasi in quella che è una poesia-pellicola, con primi e primissimi piani alternati in un ossimro continuo con ampi sguardi fino al mare.
Ed è al mare che costantemente vuole andare Marta, sfuggendo dal grigiore di un'educazione religiosa di un Dio compromesso come i sui fedeli ed al mare arriverà finalmente questa donna-bambina, fin dal pricipio in lotta con l'avvento imminente della pubbertà.
Si al mare, dove si respira e dove tre "sciuscià" rigattieri hann costruito un mondo nuovo, di fantasia, al mare come una altro grande-piccolo, il Antoine de "I quattocento colpi" di Truffaut.