Alberto Barina
Corpo tattile è la nuova silloge poetica di Alberto Barina, autore veneziano i cui testi brillano indubbiamente per la grande inventiva che li nutre e li sorregge. Infatti sono spesso caratterizzati da immagini e trovate linguistiche intensamente originali, che non cessano di meravigliare il lettore e che, nella raccolta in questione, riescono a veicolare significati e concetti improntati a un “elegante”, musicale pessimismo. Per illustrarli e sintetizzarli in maniera spero coinvolgente, mi pare utile passare alla seconda persona singolare (almeno per un pugno di righe o giù di lì) e interpellare direttamente il lettore appena menzionato. Al quale Barina, per bocca o meglio penna mia, spiega subito in faccia, con notevole coraggio: sai, l’umanità oggi non approva la sensibilità e cocciutamente la respinge. Se dunque ti capita la sfortuna di venire alla luce con un’anima efficiente, colma di fantasia, permeata di talento, predisposta magari a comprendere e praticare l’arte del verso, stai pur sicuro che nell’arco della tua esistenza avrai filo, ma anche e soprattutto cordone ombelicale da torcere. E questo perché fra i molti nemici che dovrai combattere ed “arginare”, a rivelarsi il peggiore per eccellenza sarà (fidati!) la tua nascita nociva, che a onor del vero –dotandoti di facoltà spirituali, superiori alla media– ti ha inaugurato malissimo sul serio, nonché inflitto per sempre un’aspra condanna all’ostracismo perenne, come pure un desiderio “massacrante” di conquistarti, prima o poi, una vita più integrata nella normalità (e, scontato dirlo, maggiormente a contatto coi benefici lusinghieri di una calda serenità). In altre parole –e qui, per non risultare troppo enfatico, smetto il tu drasticamente e torno ai modi consueti del bravo recensore– il poeta lotterà di continuo e acerbamente; però le sue probabilità di raggiungere alla fine una condizione radiosa di calma interiore, rimarranno scarse in eterno: no, niente pace per il meschino, nessun appagamento. Amori felici? Neanche per sogno! La celebrità, il successo? Tze, due chimere, lontane e indistinte… per lui «lo zenit dell’ombra», ahimè, non certo la cresta dell’onda!
Tuttavia, nel buio che lo circonda (e quasi ricorda, per forma e sostanza, un’occhiaia di stanchezza prolungata), il poeta è la pupilla veggente che –osservando il «solstizio rituale di una danza» e svezzando perciò i segreti ancestrali, capaci di schiudere alla mente i cammini protocollari e liturgici dell’arte, della rima, dell’ascesi, dell’incanto– scruta i visceri d’un fiore, per scorgervi in anticipo gli esiti ultimi delle vicende terrene.
Il problema è che quando li proclama ad alta voce, si scopre rifiutato, ottusamente rifuggito come un focolaio di menzogne o forse di deliri geometricamente infetti, orditi con fortuita scelleratezza e infamia mongoloide per denunciare orrende sciagure falsamente in arrivo. In genere si cerca di non badargli o di nascondersi quatti ai suoi vaticini o di schernirlo con offese ed improperi: “Tragedie in avvicinamento? Taci ritardato! Son frottole e basta, frutto di un cervello ridicolo, goffo, squilibrato!”. Ma perché, miseria ladra, un’abbondanza sì fitta e siffatta di sforzi elusivi, per schivare le sue divinazioni o sbeffeggiarle con motti assai sguaiati? Ovviamente per sottrarsi ai moniti che lancia, per non confessarsi che ha ragione e che le calamità di cui descrive con ricchezza estrema di particolari il torvo approssimarsi, son talmente bieche, incombenti, sinistre e minacciose, che ignorarle completamente è la scelta più semplice e allettante, il rimedio più comodo e tranquillizzante, che in un amen solleva dall’obbligo molesto e spaventoso d’affrontarle con fermezza.
… E mentre insomma, sgomento e perplesso, assiste allo spettacolo avvilente di chi (noi) s’imbavaglia le orecchie con le mani, pur di non sentire, e di chi (noi) sghignazza chiaro e tondo per convincersi di brutto d’essere sul punto d’ascoltare soltanto un cumulo patetico di bugie da canzonare, il poeta grida a squarciagola, dal nobile piedistallo d’un’ira assennata e vana, in angoscia e oracolare: «Eccomi,/ come l’esatta formula/ del pericolo di una pioggia/ che il cielo non vuole correre». È allora, inevitabilmente allora, che manifesta costernato la propria essenza femminile di Cassandra vilipesa e mai creduta –sebbene prodiga in realtà di profezie sincere, e gemelle del futuro, che s’adoprano leali per infondere saggezza ad una società corrotta, allo sbando, in cui congiurati ostinatamente ciechi han ridotto la cultura a merce taroccata per collusioni elettorali. Simili individui, dal cuore degenere, come possono intuire il rischio mortale celato nell’oscuro destino che, allo scopo di regnare ovunque, s’addensa e batte e pulsa da tempo alla porta del mondo? Purtroppo non sono in grado di presagire nulla, tanto che apriranno senza indugio, concedendo ad un fato irreparabile d’imporre in ogni luogo sia il vuoto che la notte e di marchiare con una sentenza irrevocabile, con un tramonto vuoi tangibile vuoi inappellabile l’antica storia del pensiero e della nostra civiltà.
Pietro Pancamo
Alberto Barina, Corpo tattile, silloge poetica autoprodotta, novembre 2012
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Tre poesie da Corpo tattile
APOCRIFO
Solo quando il bambù sospirerà alla luna
e gli spiriti torneranno quieti
nell’imbuto delle foreste,
gli uomini saliranno per la caccia
ai preziosi frutti dei nidi di rondine.
Apocrifo
non ufficiale al canto,
vivido e rupestre
dove si arrende il verso,
dove arretra e rincasa la lumaca.
Apocrifo
poeta che si pronuncia,
che sta sulla bocca
e dimentica di rubare
qualsiasi fuoco.
Io non so dove giacciono gli Dèi.
Apocrifo
presunto e colpevole,
sul precipizio dell’introspezione,
dove la parola si fa corpo tattile
e sottile dono della preveggenza.
Vivo,
in un cielo che non conosce
il sollievo delle stelle;
nell’acqua che scava,
dimora
e mulina al contrario;
nel ventre di un mosaico
dall’inviolabile mancanza.
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FEMMINILE SINGOLARE
(A Nadia Anjuman)
I nostri corpi sono tulipani
senza diritto alla sete, alla terra.
Siamo solo piccole serpi velenose.
Per ogni libro tramandato in segreto
si abbia cura che la parola
non ci tragga in inganno,
non faccia la spia
ma sia unica e vigile,
chiusa,
alla sola libertà rubata
di un quaderno.
Qualcuno conosce la favola
della differenza
tra la protezione ed il dolore,
tra tutto ciò che è permesso ad un uomo
ed il nostro nome scandito dalle pietre.
Qui, il morire,
femminile singolare
è semplice,
solo nel volgere uno sguardo
ad una poesia,
ad una canzone,
ad una scuola
che alimenti la civiltà del pensiero.
***
L’ORIGINE IRREALE
Io sono stato un poeta,
sono stato il genere di conforto
mentre mi mortificavo con le mie stesse parole.
Mi sono stato meravigliosamente
d’ostacolo,
dall’approdo della punta della penna sul foglio
fino al punto reso schiavo dall’ultimo verso.
Lettere,
apostrofi, bruciati a mano.
Mi sarebbe servito del tempo,
del futuro
e un’origine irreale.
Ho vissuto l’incanto
ed il fallimento di ogni ricordo.
Assoldato per tenere a bada
l’acropoli delle mie ombre
e il bianco liquefatto
che si impadroniva delle ore,
quando l’ossessione
è megera,
nel sortilegio del chiodo conficcato
per il nulla appeso.
Io sono stato un poeta
e provo l’ebbrezza
di parlare al passato,
perché amo ascoltarmi da dimenticato;
e avrei ancora milioni di amori
da sottrarre al pentimento
anziché al pensiero astratto.
Io sono stato un poeta
che non ha saputo combattere
nemmeno uno
tra i più crudeli dei sogni.
Eccomi,
come l’esatta formula
del pericolo di una pioggia
che il cielo non vuole correre.
Risvegliami ancora
nel cuore della notte
affinché possa sentire battere il buio.
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Stralci da altre quattro poesie di Corpo tattile
LA MUSICA DELL’ASSENZA
(Testo liberamente ispirato al seguente volume: Gianluca Grossi, La musica dell’assenza. 31 generi tradizionali, perduti, ritrovati, Arcana Edizioni, Roma, 2012)
La musica dell’assenza
esile suono
che riempie le tasche;
radice ruvida e speziata
di pioggia
che si addentra nelle foreste,
oltre ogni corallino mondo emerso.
Storia di spalle e fatica
dei vecchi sulla soglia
che intarsiano sorrisi,
delle donne che spalancano prigioni
sedute allo zenit di un’ombra.
[...]
***
SEA SILK
(A Chiara Vigo)
Le mani,
solstizio rituale di una danza,
hanno nel dettaglio sciamàno del gesto
il suono perfetto e sapiente
di un flauto.
La poesia,
preziosa come contadino d’acqua
si addensa nelle trame,
nella fibra che ordisce
ed al tatto
ruba il segreto.
[...]
***
BRAILLE (Volo di ricognizione)
Nel tempo perduto
accade un ricordo.
Avremo cura
della neve e del suo inverno,
dei petali di una rosa per predire il futuro.
[...]
***
MANIFESTI ELETTORALI
[...]
Buonanotte cultura
piccola Chaplin
fagocitata dagli ingranaggi
di un tempo
che non ti vota,
non ti elegge.
Lungo i viali si accostano
e contrattano in cambio del tuo nome
un seme sfrenato di negligenze.
Buonanotte cultura,
supina
per questo nuovo sonno delle coscienze,
voce decapitata,
esiliata,
olimpionica fiamma spenta.
[...]
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NOTA BIOGRAFICA DI ALBERTO BARINA
Il sasso è caduto nello stagno il 3 maggio 1975.
Solo sedici anni dopo inizia a reggere in mano una penna, a sporcare di nero il bianco, aiutato e sospinto dall’ascolto della musica.
Nessun corso di scrittura creativa, nessuna pubblicazione con case editrici (o pseudo tali), di conseguenza nessuna inutile spesa di denaro per stampare e vedere “pubblicato” un libro che poi nessuno promuoverà, venderà, acquisterà e leggerà. Quindi nessun rimorso economico.
“Poeta della domenica” (ma scrive anche nei giorni feriali), per molti, per troppi, o forse per nessuno; la decisione spetta comunque al singolo lettore.
Un discreto numero di riconoscimenti letterari (alcuni dei quali definiti importanti), ma l’elenco spesso presuntuoso e comunque sempre asettico, crede in realtà non interessi e non serva a nessuno.
La compagnia e lettura di qualche buon libro, poi altre attività legate al mondo della poesia: lezioni, readings, organizzazione di concorsi, blog in internet… e per il resto… se ne sta in disparte senza disturbare troppo, o almeno crede.