Probabilmente, le dimissioni di Fassina non hanno suscitato le reazioni auspicate, sia per la sfortunata concomitanza con la vicenda drammatica di Bersani, sia perchè gli interlocutori più vicini all’ex vice-ministro, pur stigmatizzando l’arroganza guascona di Renzi, non hanno fatto quadrato attorno a Fassina; anzi, più d’uno ha mostrato una certa irritazione per le dimissioni, giudicandole inopportune e strumentali. Eppure il problema sollevato da Fassina esiste ed è molto più serio di una battuta fuori posto del segretario o della richiesta che la nuova maggioranza interna si prenda maggiori responsabilità di governo. Il vero problema è arginare certe possibili derive del Pd; o meglio, accompagnare il segretario verso una prospettiva più collegiale. Per farlo, è necessario che la frastagliata minoranza di sinistra del Pd si ricompatti, magari esprimendo una leadership in grado di fare una sintesi e di offrire un’alternativa a Renzi, nell’ottica delle primarie per la candidatura alle future elezioni politiche. L’emergere di una personalità forte, sostenuta da tutta l’area di sinistra, costringerebbe Renzi a un atteggiamento più rispettoso nei confronti della minoranza interna, pena venir scavalcato nei consensi. Al momento, non vedo altra figura che Fabrizio Barca in grado di interpretare un tale ruolo.
Le dimissioni di Fassina hanno, se non altro, avuto il merito di gettare un sasso nello stagno in cui si è trasformata la sinistra del Pd, dopo la plebiscitaria elezione di Renzi a segretario. In questo mese, i maggiori esponenti di quell’area hanno balbettato, incapaci di anticipare Renzi nelle critiche all’esecutivo, alle quali si sono timidamente accodati, e tantomeno di contrapporsi dialetticamente al neo segretario. Ritengo che sia un errore ridurre le dimissioni di Fassina ad una logica di leadership della minoranza interna. Sarebbe piuttosto auspicabile che si prendesse la palla al balzo per rivitalizzare il dibattito a sinistra, anchilosato dall’esito del Congresso, facendo leva sull’insofferenza di Renzi a certe istanze per pungolarlo, evitando in questo modo che il neo segretario si trasformi in asso pigliatutto. Non è questione di creare correnti da schierare in un’ottica di lotta intestina, ma di preservare la plurivocità del partito per arginare la conclamata egemonia renziana. Ne va della stessa capacità del Pd di intestarsi una reale fase di cambiamento, evitando che essa si identifichi nell’uomo solo al comando.