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Corrispondenze

Creato il 22 gennaio 2016 da Malvino
Ti risulta, come a me pare, che l’accentuazione di Dio come amore, fino a dire che l’essenza stessa di Dio è amore, sia una questione relativamente recente. Voglio dire, so bene che una teologia dell’amore è presente, almeno in nuce, già negli scritti giovannei, e che tutta la faccenda dell’amor dei è uno dei cardini della mistica cristiana e della teologia che ne deriva. Però mi pare che nei scoli scorsi si ponesse più l’accento su quelle che potremmo chiamare le “qualità oggettive” di Dio: perfezione, giustizia, onnipotenza, eternità e così via, e che si facesse riferimento al suo essere summum bonum più che alla sua amorevolezza. Insomma, la concezione metafisica era ben salda e la centralità di Dio era affermata dall’ordine stesso dell’esistente. Mi pare che di recente, a seguito del crollo dell’edificio metafisico della creazione e alla sua sostituzione con una spiegazione scientifica dell’universo, la Chiesa sia passata, nei fatti anche se non nella dottrina ufficiale, a un generico deismo per quanto riguarda la creazione (un Dio che dà il la al Big Bang, non certo uno che presiede attivamente alla conservazione dell’essere), per costruire un rapporto con il divino che si gioca tutto sulla devozione e sul sentimento, non potendo più fondarsi su una necessità ontologica. Ora, se la mia ricostruzione ha un senso (e ti prego di corroborarla o smentirla), mi pare che ci si trovi di fronte a una bella strettoia: se l’universo resta comunque una creazione divina, ne possiamo ammirare senz’altro la perfezione (e mi pare che una certa inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il principio della finalità), ma che non trabocca certo di amore. La natura si presta molto più a una descrizione hobbesiana che a una narrazione dell’amore divino: un Dio la cui essenza sia l’amore potrebbe, nella sua onnipotenza, aver creato qualcosa di diverso dalla catena alimentare. Insomma, la mia è un’ipotesi, anzi, un abbozzo di ipotesi: porre l’accento tutto sull’amore è un modo per tenere in piedi la devozione uscendo dalle costrizioni della metafisica, ma è solo un modo per mettere la polvere sotto il tappeto, visto che comunque l’edifico metafisico, per quanto lo si nasconda, deve sempre reggere tutto. Se pensi che la cosa abbia un senso, e se hai qualche riscontro, ti prego di farmelo sapere. Nane Cantatore (https://urzidilblog.wordpress.com/)
Una religione che postula lipostasi di Dio è giocoforza sottoposta a un inesorabile processo di immanentizzazione: non per attacco esterno, ma per erosione interna. Quando poi pretende che Fede e Ragione debbano andare a braccetto, è inevitabile che il dogma si metaforizzi e la dottrina si riduca a precettistica: dal greco al latino, il Logos di Giovanni diventa Verbum, e segue il destino della Parola, che nel tempo subisce lineluttabile trasformazione cui è soggetta per le sue declinazioni e coniugazioni. Il fenomeno che tu descrivi, insomma, era già tutto nel cristianesimo nel momento in cui incontrava lellenismo, e la tua ipotesi è anche la mia, daltra parte mi pare di averla anche illustrata in molte occasioni. Due soli rilievi rispetto a quanto mi scrivi: a) non mi pare che «una certa inclinazione della biologia evoluzionista reintroduca alla grande il principio della finalità»: direi che questo accada solo col travisamento della teoria di Darwin, in special modo col suo travisamento strumentale ad opera di chi sostiene la tesi del Disegno intelligente; b) «la natura [che] si presta molto più a una descrizione hobbesiana che a una narrazione dellamore divino» scioglie la sua contraddizione nella costruzione di una cosmogonia in cui peccato originario e libero arbitrio danno soluzione a ogni teodicea. Infine, e a cornice del tutto, il collasso dei sistemi metafisici (non solo di quello cristiano), che sposta il fuoco della dottrina morale dalla conquista della vita eterna alla ricetta dellanodino quotidiano. Ti abbraccio, L.
Sul punto b) non credo che la soluzione possa ricondursi al libero arbitrio: la questione che vorrei proporre a un ipotetico apologeta del Deus sive amor sarebbe proprio quella della sofferenza pura che pervade il creato, anche al di fuori del libero arbitrio. Per sviluppare la questione: il problema è che, se lessenza di Dio è amore, come diceva lemerito BXVI, se lamore non è attributo ma appunto essenza, allora la creazione, in quanto manifestazione di questa essenza, dovrebbe essa stessa essere amorevole, e a questo punto vorrei capire in che modo si spiega una natura fatta di predatori, di violenza e di sofferenza: perché il leone non giace con lagnello, se nessuno dei due ha libero arbitrio? La faccenda regge abbastanza bene con la concezione classica, per esempio la quarta e la quinta via di Tommaso (gradi di perfezione e finalità), ma regge proprio perché qui si tratta di unarchitettura razionale e non di un atto di amore e basta, che dovrebbe produrre semmai un mondo di minipony e cucciolotti, non certo di zanzare e squali. N.
Sbaglio o stai chiedendomi di vestire i panni di un apologeta del Deus sive amor”? Non ho alcuna difficoltà: il copione è di una semplicità estrema. Il creato è pervaso dalla sofferenza come conseguenza del peccato che luomo ha liberamente scelto. Sì, mi dirai, ma il leone non giace con lagnello. Qui, da copione, sorrido paternamente e ti invito a non considerare luomo e lanimale sullo stesso piano, e ti rimando al Libro della Genesi. Tu, ovviamente, ti incazzi un pochino e mi dici, sì, ma i bambini? Non sono innocenti, i bambini? Rischiando un cazzotto in faccia, io ti rispondo che il peccato originario si eredita al momento della nascita, e che le sofferenze di quanti ti sembrano innocenti – qui calco un po su “sembrano” – sono parte essenziale di un progetto del quale non ci è dato sapere il fine, ma sulla cui bontà comunque non è dato sollevare dubbi, anzi, sarà proprio nel discioglimento di questo mistero che vi sarà la ricompensa per chi avrà voluto considerarlo divina provvidenza. E qui che cazzo potrai mai rispondermi? Ogni idea di amore che porterai a obiezione non sarà mai commensurabile a quella del sommo bene che è Dio. No, caro Nane, non c’è verso: la fede è un labirinto di specchi, e dallesterno si capisce che non c’è via d’uscita, mentre all’interno sei sempre in così buona compagnia che della via d’uscita neanche che fartene. L.

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