La politica salva sempre i suoi ladri
Anzitutto non è vero che “lo sapevano tutti”. Né i miei colleghi né io, pur avendo la percezione che i reati di concussione, corruzione, finanziamento illecito dei partiti politici e false comunicazioni sociali fossero ben più numerosi di quanto risultava dalle statistiche giudiziarie, immaginavamo le dimensioni dell’illegalità , quali emersero dalle indagini. Neppure i cittadini immaginavano che la corruzione avesse raggiunto tali dimensioni e soprattutto che appartenenti a partiti di opposti schieramenti si dividessero le tangenti, e rimasero attoniti quando Bettino Craxi, alla Camera dei deputati il 29 aprile 1993, parlò di un sistema di finanziamento illegale alla politica che coinvolgeva tutti , senza che nessuno dei deputati presenti in aula (fra cui certamente ve ne erano pure di onesti, ma ignari di ciò che era accaduto all’interno dei loro partiti) si alzasse a rivendicare la propria estraneità e il proprio sdegno nel sentirsi accomunare al generale ladrocinio.
Del resto nelle statistiche giudiziarie i reati di corruzione apparivano (e appaiono tuttora) come poco numerosi, ma ciò non deve stupire. La corruzione ha infatti alcune caratteristiche della mafia, fra cui la sommersione e il contesto omertoso, e ha una cifra nera (differenza fra delitti commessi e delitti denunziati) altissima. La corruzione non si commette di fronte a testimoni; è un reato a vittima diffusa, non viene subita da una persona fisica determinata che abbia l’interesse a denunciarla; e le pratiche comprate sono quasi sempre le più “a posto”, le più curate; se a ciò si aggiunge che le leggi vigenti rendono difficile scoprirla e reprimerla, vi sono ragioni sufficienti per spiegare perché prima (ma anche dopo) sia emerso nelle statistiche giudiziarie pochissimo di quel sistema di illegalità diffusa che le indagini del 1992-‘95 svelarono. Queste considerazioni rispondono anche alla domanda “dov’era prima la magistratura?”. Mi sono sempre chiesto perché mai tale domanda (almeno per quel che ne so, ma non mi stupirei del contrario) non sia stata formulata anche a proposito dei procedimenti di mafia. Le indagini sulla mafia, solo dalla collaborazione di Tommaso Buscetta in poi, hanno potuto evidenziare l’esistenza di Cosa Nostra come struttura unitaria con regole radicate. Prima i magistrati e le forze di polizia non avevano la minima idea della struttura interna a tale organizzazione. Per altro è ben possibile che alcuni di coloro che pongono queste domande retoriche sapessero sia della corruzione che della mafia, ma allora il quesito da porre a costoro dovrebbe essere: “Se lo sapevi perché non hai informato le Procure della Repubblica?”.
Bisogna cercare di individuare le ragioni per le quali questo è avvenuto e perché allora. Anzitutto perché, come ha insegnato il professor Franco Cordero, la caccia e la preda sono due cose distinte. Si può andare a caccia seguendo le regole venatorie e non prendere nulla, così come si può essere pessimi cacciatori e tuttavia avere fortuna, tornando dalla battuta con un ricco bottino. Tuttavia ritengo che siano individuabili alcuni specifici fattori che possono contribuire a spiegare l’esito particolarmente favorevole che quelle indagini ebbero nel periodo dal 1992 al 1995.
L’enorme debito pubblico e la crisi economica del 1992 avevano determinato la riduzione della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi e questa, a sua volta, aveva ridotto la possibilità per i corruttori di traslare le tangenti sulla Pubblica amministrazione e di sperare in futuri lucrosi appalti. Molti imprenditori, che fino ad allora avevano partecipato a cartelli corruttivi, si scoprirono concussi e, anziché far fronte comune con i corrotti, cominciarono a scaricarli, fornendo agli inquirenti l’elenco delle tangenti pagate. All’inizio i vertici dei partiti scaricavano i soggetti che venivano arrestati, descrivendoli come mariuoli isolati, singole mele marce. E quelli, sentendosi abbandonati dai loro complici, descrivevano il resto del cestino delle mele. Ciò determinò una reazione a catena nelle chiamate in correità incrociate e quello che in questo volume viene chiamato «effetto domino».
Le indagini fecero emergere che la corruzione è un fenomeno seriale e diffusivo: quando qualcuno viene trovato con le mani nel sacco, di solito non è la prima volta che lo fa. Inoltre i corrotti tendono a creare un ambiente favorevole alla corruzione, coinvolgendo nei reati altri soggetti, in modo da acquisirne la complicità finchè sono le persone oneste a essere isolate (…)
Nel 1992, con il crollo delle ideologie, era anche entrata in crisi la tradizionale forma-partito come strumento di aggregazione del consenso e soggetto destinatario dell’assoluta fedeltà degli iscritti. Ricordo che in una trasmissione televisiva, poco dopo l’arresto del segretario cittadino del Pds, un iscritto a quel partito, intervistato, commentò il fatto dicendo che da trent’anni andava ai festival dell’Unità come volontario a cuocere le salamelle sulla griglia e che ora veniva a sapere che, mentre lui girava le salamelle sulla griglia, i suoi capi rubavano, e concludeva dicendo che dovevano andare in galera. L’insieme di queste cause consentì la scoperta della vasta trama di corruzione, e la reazione dell’opinione pubblica, la cui sensibilità era acuita dalla crisi economica, ebbe effetti (all’apparenza) dirompenti sul panorama politico: scomparvero dalla scena cinque partiti (…).
Il sistema politico si è rapidamente ricomposto in forme nuove, continuando tuttavia a calpestare sia la volontà dell’opinione pubblica (ad esempio aggirando l’esito del referendum sull’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti politici, che oggi ottengono dallo Stato più denaro di prima del referendum, giustificato come rimborsi per spese elettorali) sia le esigenze, imposte anche da istanze internazionali (Onu, Consiglio d’Europa, Unione europea, Fondo monetario internazionale , Ocse), di ridare legalità e trasparenza alle istituzioni e al mercato. Da allora (e fino a non molto tempo fa) è invece stato avviato un tentativo di restaurazione, che ha ottenuto il duplice risultato di far crollare il numero delle condanne per corruzione e di far precipitare l’Italia, negli indici della corruzione percepita, al penultimo posto (nel senso degli ultimi della classe) nel mondo occidentale, dietro molti paesi africani e asiatici. Il numero di condanne per corruzione, ridotto a un decimo di quello di 15 anni fa, non appare dunque frutto di una riduzione della corruzione, ma della difficoltà a fronteggiarla. Il clima in cui da anni operano i magistrati (attaccati da ogni parte) e lo sfascio della giustizia non impedito e talora accentuato da parte delle maggioranze parlamentari che si sono trasversalmente avvicendate in questi vent’anni, spiegano sia le maggiori difficoltà delle indagini sia l’esito negativo dei processi, sempre più spesso conclusi con pronunzie di prescrizione. Non ci si deve quindi stupire se la corruzione è probabilmente aumentata e, se mai, ci si deve domandare perché questi reati dovrebbero emergere in procedimenti giudiziari. (…)
Non si può indagare su un caso di corruzione se i protagonisti possono comunicare fra loro. Inoltre la serialità e diffusività di questi reati integra pressoché sempre il pericolo di reiterazione dei reati. L’esperienza insegna anche che questo pericolo non viene meno neppure con l’allontanamento dei corrotti da incarichi pubblici, perché li si ritrova di lì a poco a svolgere il ruolo di intermediari fra i vecchi complici non scoperti. In un interrogatorio reso nel 1992, una persona sottoposta a indagini, riferendo di appalti relativi a un importante ente pubblico a livello nazionale, dichiarò che esisteva un cartello di circa duecento imprese che si spartivano tali appalti, che si pagava praticamente chiunque, sia con riferimento alla struttura dell’ente sia ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza e dei principali partiti di opposizione, e che ciò «è standardizzato da almeno vent’anni». Essendo questo il quadro, secondo le regole del codice di procedura penale, nessuno dei soggetti che delinquono da anni, inseriti in un contesto criminale e criminogeno, dovrebbe essere in stato di libertà. Ma le campagne mediatiche contro le presunte «manette facili» (chissà perché riferite solo ai crimini dei colletti bianchi e non, ad esempio, agli scippatori) hanno sortito effetto: oggi i magistrati arrestano molto meno per questi reati e comunque si ricorre agli arresti domiciliari, anziché alla custodia in carcere, con il risultato che molte indagini vengono irrimediabilmente inquinate.
Gli indagati, anche quando fingono di collaborare, confessano solo quel che non possono negare o che immaginano sarà comunque provato e lo raccontano a modo loro, spesso dopo aver concordato versioni di comodo con i complici e ritagliando spazi di omertà da far valere per assicurarsi un futuro politico ed economico basato sulla capacità di ricatto acquisita con il silenzio mantenuto. (…) La legge elettorale fa dipendere l’elezione dalla collocazione in lista, sicché i vincoli verso coloro che formano le liste elettorali si sono rinsaldati e la tendenza a fare quadrato prevale su ogni altra considerazione. D’altro canto a rapporti diretti di corruzione sembrano essersi affiancati comitati d’affari che rendono ancora più difficile ricondurre le relazioni a fattispecie penali, non essendo stato inserito nel codice penale il delitto di traffico d’influenza, alla cui introduzione pure le convenzioni internazionali obbligano l’Italia (…).
Leggi salvacondotti. La sequenza di leggi di origine soltanto nazionale è invece di segno opposto. Molte pronunzie assolutorie sono derivate dalla sopravvenuta (per leggi nel frattempo approvate) inutilizzabilità di prove prima utilizzabili e – nel silenzio dei mezzi d’informazione – presentate come attestazioni di innocenza. Elevatissimo è stato il numero di sentenze di non doversi procedere per prescrizione, mai rinunziata dagli imputati, anche da coloro che hanno ricoperto cariche pubbliche, dimentichi che l’articolo 54 della Costituzione richiede a costoro «disciplina e onore», senza che mai nessuno all’interno dello stesso o di opposti schieramenti ricordasse il dovere dell’onore.
La legge ex Cirielli, oltre a ridurre i termini di prescrizione e a mandare in fumo decine di migliaia di processi in più, ha sortito un effetto spesso ignorato: prima, se ad esempio un corrotto riceveva tangenti per dieci anni, tutte le corruzioni rientravano in un unico disegno criminoso e l’istituto della continuazione gli riduceva la pena: ma la prescrizione decorreva dall’ultimo episodio di corruzione. Con la legge ex-Cirielli, invece, ogni reato in continuazione si prescrive autonomamente. Le conseguenze sono che non è più possibile risalire nel tempo a investigare precedenti episodi per individuare i complici e risalire ai fatti più recenti da costoro realizzati. Chi vuol corrompere un funzionario pubblico deve avere dei fondi neri, cioè deve falsificare i bilanci. Dietro un bilancio falso molto spesso si nascondono anche tangenti. Le leggi più dannose sono state perciò quella approvata dalla maggioranza di centrosinistra sui reati finanziari e quella della maggioranza di centrodestra sul reato di false comunicazioni sociali.
La prima ha ridotto la punibilità per l’annotazione di fatture per operazioni inesistenti (il sistema più usato per creare fondi neri) solo ai casi in cui si riverberano oltre una certa soglia sulla dichiarazione dei redditi: basta indicare spese gonfiate o inventate fra i costi non deducibili anziché fra quelli detraibili e si ottengono risorse fuori bilancio senza più commettere reato. Con la seconda (riforma del falso in bilancio del 2001) sono state abbassate le pene e dunque ridotta la prescrizione, sicché è quasi impossibile concludere i processi in tempo utile. Ma soprattutto , per le società non quotate, il delitto è stato reso perseguibile solo a querela della parte offesa, creditore o azionista. (…) Stabilire la perseguibilità del falso in bilancio a querela dell’azionista è come pretendere la perseguibilità del furto a querela del ladro. Con entrambe le riforme sono state comunque introdotte soglie di non punibilità molto alte: è stata così prevista la liceità penale della «modica quantità» di fondi neri, come per la droga!
I risultati di queste modifiche normative non si sono fatti attendere: al solo processo per l’aggiotaggio Parmalat si sono costituite circa 40.000 parti civili, cioè 40.000 vittime che volevano essere risarcite. Quanto impiega uno scippatore a fare 40.000 vittime?
Quanto all’abuso d’ufficio (reato utilissimo per iniziare a indagare) è stato depenalizzato quello non patrimoniale e sono state abbassate le pene per quello patrimoniale, così vietando la custodia cautelare. Oggi sembra (sembra?) che i partiti, quasi sempre, continuino a difendere i propri uomini che finiscono nei guai. Quella che viene chiamata “casta” fa quadrato, nessuno (o quasi) viene scaricato. L’opinione pubblica è stata a lungo indifferente o rassegnata o semplicemente non informata. Nel 1992 giornali e tv raccontavano i fatti, e questi erano più importanti dei commenti perché parlavano da soli. Peraltro i commenti erano frequentemente favorevoli all’opera di pulizia (…). Successivamente molto spesso i fatti vennero nascosti, filtrati e manipolati da un sistema mediatico controllato da potentati politici e imprenditoriali, frequentemente coinvolti nei procedimenti giudiziari. Il commento fuorviante ha finito per prevalere sulla cronaca, relegata in posizioni marginali per consentire ai mezzi di informazione di parlar d’altro. Frequentissimi sono stati gli attacchi (…). Per l’insipienza di chi li sferrava, gli attacchi hanno investito non solo i magistrati del pubblico ministero, ma anche tutti i giudici di ogni grado, fino alle Sezioni unite della Cassazione, così ottenendo il risultato di tenere uniti i magistrati. Il fatto che in tutta Italia ci siano ancora inchieste e processi sui reati della classe dirigente, nati quasi sempre da iniziative giudiziarie e quasi mai dalle forze di polizia (che non hanno le guarentigie di indipendenza dal potere politico che tutelano i magistrati), è segno che la magistratura è riuscita a conservare la sua indipendenza.
La crisi economica che oggi, come nel 1992, grava sul paese probabilmente ridarà slancio a iniziative serie per ridurre la corruzione e di conseguenza a una repressione più incisiva. Tuttavia tanti anni sono passati invano ed è necessario ricominciare dall’inizio a fronteggiare questi fenomeni, che contribuiscono a rendere l’Italia poco efficiente e poco credibile sul piano internazionale , per l’ingente sperpero di risorse pubbliche, i tempi biblici per la realizzazione di opere pubbliche e la scarsa qualità dei beni e servizi acquistati dalle Pubbliche amministrazioni, quantomeno sotto il profilo qualità-prezzo. Allora è necessario ricordare i fatti accaduti vent’anni or sono (…). Il volume di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio è un ottimo compendio di quei fatti. Uscì nella sua prima edizione nel 2002, dieci anni dopo l’inizio di quelle indagini, nel momento in cui cominciava ad affievolirsi il ricordo di quanto era accaduto e i mezzi di informazione tentavano di accreditare l’idea che i magistrati avevano esagerato in passato, che in ogni caso erano stati parziali, avendo salvato alcune forze politiche, ma che ora si era finalmente tornati alla normalità e via discorrendo di simili amenità, anziché guardare inorriditi il fango che era emerso, l’ipocrisia di un’intera classe dirigente, il palese spregio del giuramento prestato da parte di moltissimi funzionari pubblici.
Il racconto dei fatti, ricostruiti con certosina pazienza e con la maestria che contraddistingue gli autori, spazza via le sciocchezze e le menzogne che per anni sono state divulgate dai mezzi di informazione. Accanto ai delitti commessi emerge con nitore l’incapacità (se non peggio) della classe dirigente di questo paese di creare le condizioni perché si possa vivere secondo le regole comunemente accettate del mondo occidentale, del quale dichiariamo di voler far parte. Quest’opera è un vademecum che aiuterà a ricordare ciò che è accaduto, perché è l’oblio dei misfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni.