Iperattivo. Stakanovista. Frugale. Benedetto da Giuliano Amato e D'Alema. Così è nata la candidatura dell'ex ministro a Roma. Contro il Pd di Renzi (Marco Damilano - l'Espresso)
Massimo Bray, 57 anni il prossimo 11 aprile, ministro della Cultura nel governo Letta, dal 1993 nell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana in cui ha scalato tutte le tappe, fino a rientrare un anno fa come direttore generale, li ha rimandati al momento in cui si dimise da deputato del Pd, il 24 febbraio 2015. Quel giorno a leggere il suo messaggio nell'aula di Montecitorio, poche righe in cui rivendicava di aver provato a "tenere viva la sfera pubblica", in polemica con la stagione renziana, fu il vice-presidente della Camera di turno, Roberto Giachetti. E ora le strade dei due si ritrovano per il Campidoglio: il deputato ha vinto le primarie con meno votanti nella storia del centro-sinistra romano, Bray è la pazza idea di una candidatura alternativa a sinistra.
Domenica 6 marzo un gruppo di giovani ricercatori ha monitorato dalla mattina alla sera i gazebo organizzati dal Pd. Foto, statistiche, report dalle periferie, per dimostrare che i seggi erano stati in gran parte disertati. Più che i risultati, però, conta il nome del gruppo social: "Massimo Facce Innamora", alla romana. E una dichiarazione di intenti: "Vogliamo Massimo Bray sindaco".
L'ex ministro ha negato con gli amici di averli organizzati in prima persona. Però ha ammesso di provare simpatia: "Hanno fatto quel che si faceva nelle vecchie sezioni del Pci. Territorio e analisi del voto". La Rete è un suo pallino, passione non scontata per un intellettuale da sempre abituato a muoversi tra i tomi della Treccani, copertine rilegate, correzioni autografe e polvere. Quando guidava il ministero della Cultura si conquistò una sua popolarità tra gli utenti di Twitter per gli scatti con cui raccontava le sue visite agli scavi di Pompei con lo zainetto in spalla sulla Circumvesuviana oppure il giro in bicicletta davanti alla reggia di Caserta. Frasi di Jovanotti e poesie di Hafez: "Ero perso con lo sguardo nell'orizzonte, poi ho scoperto una rosa in un angolo di mondo". A curare il profilo di Bray sui social c'è un ragazzo salentino che lo segue ovunque, dal ministero alla Treccani, Giovanni De Stefano, è lui a cinguettare su Twitter per conto dell'Enciclopedia con l'account Giovannino Treccani.
Iper-attivo ai limiti dell'ansiogeno. Frugale ai confini dell'ostentazione: se ti offre una tisana porta via lui tazze e teiera, se c'è un brindisi in Istituto passa lui a raccogliere i calici. Stakanovista al punto di farsi trovare al lavoro di sabato e di domenica fin dalle prime ore del mattino. Sobrio anche a tavola, pranza con un cappuccino ed è magro come un uccellino. Ma è capace di incazzature storiche, anche sui dettagli, sul logo di un pass per un convegno, quando si adira meglio non averlo vicino. Nessuno capisce perché uno così, un ascetico monaco della cultura votato alla missione di diffondere il sapere, abbia dimostrato una voglia matta di buttarsi a capofitto nell'inferno della campagna elettorale di Roma. Il Campidoglio ha fatto impazzire più di un inquilino con fascia tricolore e quasi tutti i candidati ufficiali hanno in comune una certa riluttanza a correre e una vistosa paura di vincere, a partire da Giachetti. Bray no.
La molla è un'istintiva avversione verso il renzismo e tutto ciò che rappresenta. Con chi gli fa notare che dopo Ignazio Marino i romani non vogliono più ritrovarsi con un marziano alla guida esclama: "Io vivo a Roma da 31 anni!". Da mesi sta girando le periferie, da Tor Bella Monaca al Pigneto, fedele alla sua idea di cultura, restauro e contemporaneità. Nel palazzo della Treccani, due passi dal Campidoglio, si alternano convegni sul barocco e sulla street art, con Giulia Bongiorno o su Giordano Bruno. Il direttore è onnipresente. Introduce, porta i saluti, conclude.
Un primo della classe, convinto di sé e dei suoi mezzi, per talento e per stirpe. A Lecce, dov'è nato, lo chiamano Braì, con l'accento finale, è una salentinizzazione dell'arabo Ibrahim ma le radici nella notte dei tempi sono ancora più complesse, un melting pot di arabi, turchi, ebrei. Padre chirurgo, la famiglia vive in un palazzo arabeggiante che affaccia su Porta San Biagio, l'ingresso al salotto del centro storico leccese. In Salento, però, si è fatto davvero conoscere in tempi recenti, come presidente della fondazione del festival della Taranta. A Roma vive da sempre nel quartiere Prati, con la moglie Domizia e i figli Giovannino e Maria Agnese, nello stesso condominio in cui si trasferì a metà anni Novanta con i suoi cari un potente personaggio romano che all'epoca vantava di essere salentino: il deputato di Gallipoli Massimo D'Alema.
Tra i due è amore a prima vista. È D'Alema a portarlo a Italianieuropei come direttore editoriale della rivista della fondazione, è lui a trasformare l'intellettuale in politico. E ora che l'ex leader è stato abbandonato da tutti i fedelissimi il legame resiste. "Massimo (Bray) è l'unico amico di Massimo (D'Alema)", sintetizza chi li conosce bene entrambi. Lunghe passeggiate nel quartiere, con il cane di D'Alema, nei giardini di fronte al palazzo della Rai di viale Mazzini e alla chiesa Cristo Re progettata in epoca fascista da Marcello Piacentini: è qui che è nata nei mesi scorsi l'idea della candidatura di Bray a sindaco. Prima come nome della minoranza Pd nelle primarie del partito, ipotesi caldeggiata dal commissario romano Matteo Orfini che di D'Alema fu assistente, ma scartata per mancanza di garanzie. E poi come nome alternativo, per dare voce all'elettorato che ha disertato i gazebo del Pd. Di più: la prova generale di una scissione, di un nuovo partito di sinistra. Movimentista e attrattivo verso un ceto borghese e pensante. Perché il personaggio che più ispira Bray è Antonio Gramsci: di scioperi e di quaderni, di lotta e di letture. Come, al fondo, sogna di essere lui.
A Roma si dice: je piacerebbe. Ma dietro l'apparente mitezza c'è un'ambizione tenace, la capacità levantina di scegliersi le alleanze, di calcolare le mosse, di pesare le forze in campo. "Sono sette, otto persone, a sostenermi", si è schermito nei giorni della scelta. Tra i suoi sponsor Luciano Violante. L'anziano Alfredo Reichlin lo ha chiamato: "Mi sono convinto, lo devi fare". E lo ha sondato Alfio Marchini, già candidato da tempo, dirimpettaio della Treccani (il suo ufficio è dalla parte opposta di piazza di Torre Argentina, il cuore di Roma con i suoi templi e i suoi gatti accovacciati tra le rovine). Mentre sui tavoli austeri dell'Enciclopedia si sono moltiplicati i piani di sbarco, neanche il Casilino fosse la Libia, e i sondaggi. In uno Bray è quotato a due cifre, sopra Giachetti, addirittura. Ma c'è da convincere a farsi da parte l'ex Pd Stefano Fassina, in pista da mesi per Sinistra italiana. "Stefano è incazzato", urlava l'altro giorno al telefono sulla metro il deputato Alfredo D'Attorre, altro fuoriuscito del Pd, tra i viaggiatori allibiti. E un altro ostacolo: l'ego di Ignazio Marino, voglioso di rivincita. Con Bray o senza.
A dare il consiglio decisivo, al solito, il nume tutelare di Bray, il suo punto di riferimento, Giuliano Amato, che con lui ha condiviso l'Istituto enciclopedico, la fondazione Italianieuropei e tante altre cose. Fino a poco tempo fa il dottor Sottile è sembrato condividere la strana avventura di Bray. Il destino dell'aristocratico rosso è come in quella poesia di Salvatore Toma, salentino di Maglie, da lui twittata mesi fa: "Non ti fai trovare. Sembriamo due strani innamorati. Ma io ti sento qui alle mie spalle. A volte mi sento toccare".