A sette anni di distanza dal quel piccolo grande capolavoro che fu Appuntamento a Belleville (2003), Chomet realizza la sua seconda opera lunga, L’illusionniste (2010), lungometraggio in concorso al Cortoons.
Chomet si affida a Jacques Tati, lavorando su un suo soggetto che mai ha visto la luce, “resuscitandone” il corpo: l’illusionista è Tatischeff (vero cognome di Tati), nell’aspetto e nelle movenze uguale in tutto e per tutto all’attore-regista francese.
Chomet realizza un film d’una malinconia inenarrabile e l’omaggio a Tati diventa l’omaggio all’epoca pretelevisiva, in cui ancora le illusioni erano semplici e davvero magiche, senza effetti speciali o sovrastrutture di alcun tipo.
Tatischeff è un illusionista elegantemente buffo. Non è né un mago, né un prestigiatore: è proprio un illusionista. È bene tradurre il titolo in questo modo, perché con ogni altra parola si priverebbe l’opera del suo significato. Il film, infatti, è costellato di illusioni, illusioni buone e cattive, vecchie e nuove.
L’illusione, vissuta in teatro, è quella che offrono Tatischeff, il ventriloquo, il pagliaccio e gli acrobati.
L’illusione è quella dei Britoons, un gruppo nascente che porta musica nuova e per il quale le ragazzine si strappano i capelli senza neanche rivolgersi al palco.
L’illusione è quella effimera delle vetrine dei negozi, che regalano felicità solo fino al successivo allestimento.
L’illusione è quella che costruisce il nostro Tati, svolgendo in segreto altri lavori pur di pagare abiti e scarpe alla sua compagna di viaggio, una ragazzina scozzese ammaliata dal mondo degli illusionisti.
Ma dietro le illusioni c’è la realtà, che deve essere nascosta e che cerca sempre di uscire prepotentemente fuori: chiuso nella propria stanza, il pagliaccio tenta il suicidio; il ventriloquo ha per compagno solo il suo pupazzo e la solitudine e la mancanza di lavoro lo portano a vivere da clochard.
Oltre l’illusione c’è il nulla e quel nulla che appare tra le crepe della magia è devastante. Il mondo, per andare avanti, ha bisogno di continue illusioni che, però, cambiano con il tempo e si ammodernano sempre. È sin troppo chiaro che Chomet predilige la vecchia e buona illusione – quella immortale e indimenticabile – convinto che sia tuttora valida e autentica. Non gli si può dar torto: i suoi disegni richiamano altri tempi e la sua tecnica ha il pregio di riportarci a cose antiche, quasi a un’infanzia della cinematografia. Laddove per infanzia non si intende la mancanza di coscienza, ma il nucleo stesso del cinema (d’animazione e non) che ha dato vita a tutto il resto. È per questo che i film di Chomet sono muti, si avvalgono di un grammelot, e la musica ne costituisce un commento intimo e imprescindibile.
Il Tati disegno, correndo per la città, entra in un cinema e incontra il vero Tati, proiettato sul grande schermo.
Tati fu un mimo e fu, probabilmente, come Chaplin e Keaton, l’ultimo baluardo di un cinema – immortale – fatto di attenzione al corpo dell’attore e all’immagine: un cinema essenzialmente visivo, dunque. Il valore di un simile cinema ce lo dimostra lo stesso Chomet che, nonostante si prodighi in film senza dialoghi, rende impossibile staccarsi dallo schermo: la storia, infatti, si segue bene, se non meglio di tanti altri film verbosi o dalle sequenze veloci e mirabolanti. L’attenzione per la costruzione dell’immagine è a dir poco maniacale: gli ambienti, supportati sempre da colori caldi e avvolgenti, si riempiono di particolari d’ogni sorta e si animano dei gesti naturali e vivi dei personaggi, gesti che suscitano meraviglia.
Chomet, ancora una volta, dimostra di possedere un particolare tocco magico. Sa incantare, rapire, lo fa dolcemente, proprio come i suoi personaggi che, pur di donare illusioni, nascondono tutto il triste della realtà nelle loro tasche, nel loro cappello, nel loro cuore. “Magicians do not exist”, scrive Tati alla fine. Tuttavia, la sensazione che lascia L’illusionniste è estremamente reale, pur narrando di belle illusioni che vivono ancora.
Veronica Mondelli