Negli articoli che trattano temi economici si legge spesso di “breve” e di “lungo periodo”. Nonostante le due espressioni richiamino il trascorrere del tempo, non si tratta di due precise durate temporali. Approcci diversi sulla definizione di lungo periodo portano a conclusioni anche diametralmente opposte sui sistemi economici.
In effetti, la tendenza di lungo periodo non è che una componente in lento cambiamento
di una catena di situazioni di breve periodo, non ha un’esistenza indipendente.
– Michal Kalecki
Al contrario di quanto si potrebbe supporre, il “lungo periodo” non è nella teoria economica mainstream un preciso intervallo di tempo. Il lungo periodo è invece la realizzazione dell’equilibrio macroeconomico, con la piena occupazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro). Il lungo periodo non è una dimensione temporale, ma logica, e corrisponde alla soluzione di un sistema di equazioni “simultanee”. Il compito dell’economista applicato, quindi, è quello di costruire un modello che sia in grado di prevedere quando effettivamente l’equilibrio macroeconomico verrà raggiunto.
I modelli più utilizzati non sono tanto ingenui da credere che nulla ostacoli il percorso verso l’equilibrio macroeconomico. Vari “disturbi” o “imperfezioni”possono rallentare il raggiungimento dell’equilibrio: rigidità/vischiosità dei salari e dei prezzi, politiche monetarie restrittive, disturbi provenienti dalla sfera finanziaria dell’economia, informazioni incomplete in possesso degli agenti economici, ecc. Opportune politiche fiscali, monetarie e normative possono rimuovere o almeno rendere meno rilevanti tali ostacoli e rendere più breve il tempo necessario al raggiungimento dell’equilibrio macroeconomico. La convinzione di fondo, tuttavia, è che il sistema economico tenda spontaneamente verso tale equilibrio, in cui non esiste disoccupazione involontaria, le macchine lavorano a pieno regime e tutto il prodotto viene venduto.
L’approccio post-keynesiano – che si rifà, oltre allo stesso Keynes, a Michal Kalecki, Nicholas Kaldor e Gunnar Myrdal – non vede il lungo periodo come una realtà a se stante o un punto del tempo in cui si realizza qualcosa di “separato” rispetto al breve periodo. Al contrario, per i post-keynesiani il lungo periodo è una sequenza di brevi periodi successivi. In ciascuno di questi avvengono mutamenti più o meno accentuati delle variabili macroeconomiche.
L’approccio “sequenziale” porta a conclusioni spesso opposte a quelle della teoria dominante. Il più noto è la spiegazione dell‘effetto moltiplicatore, che abbiamo affrontato in un vecchio articolo.
Un’altra conseguenza rilevante è la possibilità di meccanismi di “causazione circolare cumulativa”, secondo la definizione di Myrdall.
Un esempio tratto dall’esperienza comune che può dare l’idea di questo concetto è l’interesse composto. Quando depositiamo 100 euro in banca ci viene riconosciuto un certo tasso di interesse, diciamo il 2% l’anno, pagato alla fine del periodo. Dopo un anno la banca aggiungerà perciò 2 euro al nostro capitale iniziale. A questo punto l’interesse verrà calcolato su 102 euro. L’anno successivo pertanto guadagneremo non 2 ma 2,04 euro di interessi e il nostro capitale salirà a 104,04 euro, e così via. Il fatto stesso di avere un capitale ci permette quindi di accumulare altro capitale, su cui ci verranno pagati interessi che si cumuleranno al capitale esistente e, anno dopo anno, l’ammontare degli interessi percepiti aumenterà. Lo stesso discorso può applicarsi al debito: se gli interessi aumentano, aumenterà anche il debito che a sua volta farà aumentare gli interessi dovuti. L’Italia ha fatto questa esperienza a partire dal 1981.
Un esempio in ambito macroeconomico è quello già trattato nel nostro articolo sulle aree valutarie. Una regione in un’area valutaria può essere inizialmente solo leggermente più competitiva delle altre. Il fatto stesso di essere più competitiva porterà ad un miglioramento dei fattori che influenzano la competitività. In ogni breve periodo tale miglioramento si cumula con quelli precedenti e a sua volta causa un’ulteriore miglioramento relativo nei confronti delle altre regioni, che si impoveriscono.
Non solo quindi, come anche nei modelli neoclassici, alcune variabili possono essere considerate costanti nel breve ma non nel lungo periodo, ma gli effetti di piccole variazioni nel breve periodo possono cumularsi e causare ulteriori divergenze nel corso del tempo. Il sistema, perciò, non viaggia necessariamente e “naturalmente” verso l’equilibrio macroeconomico, ma può tendere ad accentuare cumulativamente gli squilibri già in essere.
Un’altra conseguenza rilevante dell’approccio sequenziale è la dipendenza dell’esito finale dal percorso intrapreso. Ad esempio, mentre per i neoclassici il sistema nel lungo periodo tenderà alla piena occupazione, qualsiasi cosa accada nel frattempo (le azioni delle autorità monetarie e fiscali possono solo accelerare o rallentare il raggiungimento del traguardo o modificare le grandezze nominali), in un approccio sequenziale l’esito non è dato, ma dipende dal percorso intrapreso (path-dependent). Tale esito può essere, ad esempio, la piena occupazione o un equilibrio stabile di sotto-occupazione.
Infine, nei modelli post-keynesiani, dopo un disturbo esterno il sistema non tende a ritornare all’equilibrio precedente, come farebbe un pendolo. Al contrario, è rilevante il fenomeno dell’ “isteresi”. Il disturbo o stimolo può modificare in modo permanente il sistema, che può assestarsi su un equilibrio differente da quello iniziale. Ciò vale sia in negativo (alta disoccupazione stabile nel lungo periodo), sia in positivo, ad esempio riducendo in modo permanente la disoccupazione. Non ha quindi senso parlare di un tasso “naturale” di disoccupazione come nella teoria economica dominante poiché il tasso di disoccupazione può essere ridotto stabilmente tramite le politiche macroeconomiche. Per lo stesso motivo non ha senso sostenere che la domanda effettiva è rilevante solo nel breve periodo, come afferma il mainstream.
Tutte queste conclusioni, che spiegano elegantemente fenomeni peraltro ben evidenti durante la crisi iniziata nel 2008, scaturiscono più o meno direttamente dall’abbandono dell’ipotesi di equilibrio generale e dall’adozione di un approccio sequenziale nel trattamento del lungo periodo.
Ironizzando sulla fede degli economisti, Keynes sostenne che “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Anche se non lo fossimo, nulla assicura che saremo tutti occupati.
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