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Cos'è il reddito minimo garantito

Creato il 01 novembre 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Matteo Boldrini

Nelle scorse settimane si è a lungo parlato della possibilità di inserire anche nel nostro paese una qualche forma di reddito minimo garantito.

Su questo tema ultimamente si è fatta molta confusione dopo il continuo susseguirsi di proposte di legge, presentate sia dai cittadini sia dalle forze politiche, di promesse e di smentite. La confusione generatasi ha non solo impedito una seria riflessione sull’introduzione del reddito minimo garantito, ma ha inserito nel dibattito anche temi ed argomenti che niente hanno a che fare con la proposta in esame.

foto boldri 213x170 COSÈ IL REDDITO MINIMO GARANTITO: ITALIA IN RITARDO SULLEUROPA

da informazionesostenibile.info

Per cominciare, bisogna distinguerlo sia dal salario minimo garantito sia dal reddito di cittadinanza. Per salario minimo si intende generalmente un livello minimo, stabilito per legge, sotto il quale non possono scendere le retribuzioni salariali, mentre solitamente con reddito di cittadinanza si intende una forma di reddito distribuita a tutti i cittadini individualmente, e indipendentemente dalla loro posizione professionale, dalla loro età o dal fatto che essi possiedano o meno altre forme di introiti; anzi generalmente esso si va ad aggiungere ad eventuali altre fonti di reddito.

Cos’è il reddito minimo garantito? Con la dicitura si intende invece un sussidio che viene erogato a tutti gli individui in età lavorativa (escludendo quindi pensionati e bambini) che per qualche motivo si trovino fuori dal mercato del lavoro o ricoprano posizioni marginali o precarie. In certi casi infatti esso può andare ad integrare eventuali redditi quando essi non raggiungano una determinata soglia stabilita come soglia di povertà, o essere erogati a precari con l’intento di stabilizzarne la situazione economica. Solitamente esso è vincolato alla ricerca di un lavoro e decade nel caso esso venga trovato o sia rifiutata una proposta in linea con le competenze professionali individuali, spesso tuttavia è stato vincolato alla frequenza ad eventuali corsi di formazione.

Una forma di sussidio come questo andrebbe dunque ad integrare (quando non proprio a sostituire) tutte le varie forme di ammortizzatori sociali che sono attualmente presenti. In Europa ha iniziato ad essere utilizzato dall’inizio degli anni Novanta ed è diventato una pratica estremamente diffusa, sebbene in maniera molto varia ed eterogenea. Il suo inserimento nella maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea è una delle motivazioni più spesso avanzate dai suoi sostenitori, i quali lamentano l’arretratezza italiana ed i buoni risultati comparati ottenuti negli altri Paesi. I suoi detrattori fanno invece spesso affidamento a due motivazioni principali, entrambe di ordine economico: l’incentivo alla disoccupazione che un sussidio come questo si porta dietro e l’enorme costo in termini di debito pubblico che una simile operazione comporterebbe.

Sebbene sia naturale che una forma di politica sociale come questa possa sottrarre parte delle persone dalla ricerca di un lavoro, il rischio di trasformare un Paese in una società di mantenuti dalle casse dello Stato mi sembra più il fantasma dell’idea ottocentesca per la quale i poveri dovevano rimanere poveri cosicchè la fame li avrebbe spinti a lavorare. Tutti i tipi di intervento pubblico hanno subìto critiche di questo tipo, alcuni politici come Ronald Reagan ci hanno costruito fortunate campagne elettorali, senza tuttavia che essi fossero fortemente distorsivi come paventato. Inoltre agganciare il sussidio a particolari condizioni come l’obbligatorietà della ricerca di un lavoro o della frequenza ad un corso di formazione aiuterebbe a minimizzare i casi di abuso. Ben più realistico è il problema del costo economico, un intervento di questo tipo per essere efficace deve riguardare somme rilevanti che, nonostante non debbano essere troppo alte, non possono nemmeno essere irrisorie o simboliche. Questo, sommato alla portata dell’intervento, andrebbe a pesare notevolmente sul bilancio dello Stato e difficilmente può essere implementato da un paese come l’Italia, con grossi problemi di debito pubblico.

In conclusione, sarebbe arduo giudicare a priori se una riforma di questo tipo può funzionare o andrebbe solo ad aggravare i problemi economici in Italia. Quando vengono citate le varie esperienze europee, i detrattori pessimisticamente invocano il più alto senso civico degli altri Paesi e il loro rispetto delle regole, gli italiani sarebbero invece un agglomerato di imbroglioni, bramosi di vivere a spese dello Stato, come se questa fosse una giustificazione, anche nel caso fosse vera, per penalizzare quelli onesti e per dimenticare attività come il controllo o l’accertamento (lo so che questa frase non ti piacerà, io l’ho cambiata ugualmente, tiè). Di certo una riforma di questo tipo andrebbe a beneficio di tutti quei giovani che, studiando o svolgendo lavori atipici, restano fuori dai sistemi di previdenza sociale tradizionali. Il reddito minimo garantito si verrebbe a qualificare dunque, e forse questo è proprio l’aspetto più importante, come un tentativo di modificare un Welfare un po’ datato, pensato per una società e per una organizzazione del lavoro di tipo novecentesco e che forse non esiste nemmeno più.

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