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Cos’è (per me) l’Aikido

Da Stefano Bresciani @senseistefano
Data: 23 febbraio 2013  Autore: Stefano Bresciani

Cos’è (per me) l’AikidoOggi su BudoBlog un articolo speciale, riflessioni gentilmente regalateci da un amico milanese - Andrea Di Martino - professore, aikidoka, blogger:

“Con le parole si può giocare, ad esempio si possono anagrammare. Il termine aikido è composto da tre sillabe : ai-ki-do.  Posso inventarmi:  ki-ai-do e per assonanza trasformarlo in chi ha da. Do è la Via e passa attraverso il corpo e lo spirito. Ai significa Armonia, ma significa pure unione.  Ki, la parola che mi è più cara, vuol dire Anima. Per i greci era psiche cioè soffio. I tre termini suggeriscono l’obiettivo, il telos,  della disciplina, ossia l’unione all’altro, al tuo uke (o tori)  in modo armonico, tale da creare una sorta di compenetrazione con il Tutto o, per dirla più easy, con la Natura.

Pratico aikido da pochi anni e non assiduamente come vorrei, la vita mi ha spinto faticosamente altrove, in certi momenti come un bastoncino in corrente. Eppure l’aikido lo porto con me in ogni cosa che faccio, in ogni pensiero che penso, perché questa arte marziale mi ricorda quanto di più importante vi sia nelle nostre vite: l’Altro. Nella pratica è il mio uke o il mio tori, nel quotidiano è il mio collega, l’amico o il parente. Non potrò mai conoscerlo come vorrei e come dovrei ma mi sforzo di abbracciarlo, di comprenderlo.

Quando pratico mi scordo di Me, divento per quell’ora un impasto di corpi, sudore, respiri affannati, di gesti studiati e caparbiamente  ripetuti. Il corpo dell’altro gronda sudore, l’adrenalina è a tratti incontenibile, lo sguardo oscilla tra aggressività e suo contenimento. Perché aikido è anche questo: sapere di poter fare male, molto male. Lo sento nella chiusura della forma, nelle braccia che fanno torsione in nikkyo, nelle mani dell’altro quando chiudono ikkyo (=leva di 1° livello). È una forza che non temo, mi lascio andare, mi affido. So che l’altro non mi provocherà un dolore tanto intenso, ma prima di battere mano sul tatami attendo e sento  i nervi e i muscoli stendersi e/o contrarsi. È un dolore buono; poi torno in piedi, pronto a ripetere la forma. L’altro è di fronte a me, nella vita di tutti i giorni assai probabilmente l’avrei ignorato. Proviene da un altro ambiente, sente la vita altrimenti. Ma me ne frego, qui le parole non contano, anzi meno pensi meglio pratichi. È il linguaggio del corpo. È il corpo che reclama il palcoscenico, che vuole divertirsi, che vuole danzare con l’altro, che vuole annusare il Ki, che per pochi attimi può dire alla  vita che ospita  cosa significhi mimare l’armonia, ossia quella cosa misteriosa, indicibile che al di fuori del tatami raramente viviamo.

È assai complicato sentire il Ki in tangenziale alle 18,30 di un giorno invernale, uggioso. La stanchezza ti sta spalmata addosso, le preoccupazioni  ti tengono sotto assedio, la rata è in scadenza, lo spread fa prot sul tuo conto corrente. Tua moglie è sempre quella, non è in leasing, i tuoi figli pure. Ti guardi allo specchietto retrovisore e con le borse sotto gli occhi potresti andare a farci la spesa. Sei stanco, esausto, non vedi l’ora di farti una doccia, mangiare qualcosa e fare un doppio carpiato sul tuo divano a tre posti un po’ logoro nel punto esatto in cui appoggi il tuo deretano. Sei uno come tanti, ma pensi in cuor tuo di essere unico. Forse sei unico proprio quando ti dimentichi di essere qualcosa o qualcuno, quando senti il tuo corpo mischiarsi al corpo dell’altro nella pratica sul tatami. Non trovi parcheggio sotto casa, fa un giro dell’isolato e poi un altro ancora. Ti verrebbe voglia di imprecare. Al terzo giro miracolosamente qualcuno esce dal suo parcheggio e ti ci infili lesto.  Cerchi l’ombrello sotto il sedile, si è incastrato. Lo divincoli, stacchi le chiavi dal quadro, apri lo sportello.

Ti incammini sotto la pioggia che tamburella sulla stoffa tesa del tuo ombrello comprato dai cinesi. Qualcuno esce dal tuo portone: è una donna, né bella né brutta, al suo fianco un bambino che frigna. Ti entrano in retina all’ultimo, eri così preso dai tuoi pensieri. Ma istintivamente fai un buon tenkan. E sorridi”

:-)

(Andrea di Martino – Aikido Tendoryu Italia)

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