Dietro a praticamente ogni articolo che riguardi una multinazionale, ad esempio, c'è un grosso lavoro. A volte è vero, succede qualcosa per cui al giornalista davvero interessa scrivere di tale azienda, e ne scriverebbe comunque. Molto più spesso però, gli articoli sono studiat, voluti, pilotati e manovrati da quelle entità che si chiamano agenzie di Pubbliche relazioni.
Questo discorso si applica anche alle aziende e ai quotidiani nostrani, ma diciamo che i più avanzati del settore sono, ovviamente gli americani. Le Pubbliche relazioni americane si basano sul semplice concetto: nulla deve essere lasciato al caso. Vediamo un po' come nasce un articolo che non sia proprio questione di vita o di morte per l'equilibrio notiziario della giornata.
1) Miriadi di lavoranti, stagisti o junior, passano gran parte della loro giornata a monitorare, scansionare e vigilare su quanto viene scritto sull'azienda o sul settore/competitor dalla stampa nazionale, dal web, e dalla blogosfera.
2) Il junior prepara ogni giorno una rassegna stampa dettagliata per il cliente (ancora dubbie le statistiche su quanto la rassegna venga effettivamente letta). Nel caso di notizie negative e di rilievo, il junior riporta immediatamente al capo, che telefona immediatamente al cliente per decidere come reagire. In tal caso si parla di comunicazione di crisi.
3) Nella normalità, però, il cliente vorrà vedere il suo nome in quanti più articoli positivi possibili. E' qui la difficoltà: piazzare storie sul proprio cliente, in competizione con la miriade di altre aziende che vogliono esattamente la stessa cosa, in un panorama giornalistico che si va assottigliando.
4) Le tattiche per attirare l'attenzione sono molteplici. Le più comuni sono: organizzare un evento, pubblicare uno studio (o report, che fa più figo), pubblicare un comunicato stampa (possibilmente con uno straccio di notizia), o proporre al giornalista più appetibile una "chiacchierata" con il cliente.
Da notare che le tattiche non sono casuali, ma rispondono ad un preciso piano di comunicazione, che viene compilato e aggiornato a inizio anno. Il piano di comunicazione può essere molto basic oppure - nell'americanizzazione - essere raccontato come una storia accattivante, secondo il principio che con lo storytelling le cose vengono meglio.
5) Il piano di comunicazione contiene i messaggi chiave, ovvero pochi semplici slogan su cui si deve basare tutta la comunicazione dell'anno. Se si riesce a fare in modo che il giornalista riprenda gli slogan letteralmente, allora è bingo. Se no va bene anche una perifrasi. L'importante è che nell'articolo risultante dalla chiacchierata non si discosti troppo dai messaggi prestabiliti. Altrimenti sono cavoli del PR, vuol dire che ha fatto un cattivo lavoro.
6) Prima di mettere il cliente (in questo caso in genere un dirigente della società in questione, quando non addirittura l'amministratore delegato) davanti alla stampa, occorre fargli un briefing. Ovvero, istruirlo su cosa aspettarsi, su chi è il giornalista, quali sono i suoi argomenti preferiti, per quale squadra tifa, eccetera. Il briefing può essere fatto oralmente, o, nella versione USA, tramite un elaborato briefing book (anche qui il tasso di lettura da parte del cliente è dubbio): il briefing book contiene tutto quello che il prima ignaro dirigente deve sapere sulla persona che sta per incontrare e sull'argomento che tratteranno: contesto, possibili domande, possibili domande difficili, possibili domande cattive. Un buon briefing book contiene anche i soundbites, ovvero i virgolettati che si spera tanto vengano riportati dal giornalista. Le frasi ad effetto che dovrà dire il dirigente. Ovviamente, i soundbites sono modellati accuratamente sui messaggi chiave.
7) Al momento del'intervista, il buon PR sarà sempre presente, come un vigile cane da guardia, a fianco del cliente. Il PR fingerà di essere molto sciolto, ma in realtà sarà pronto ad intervenire qualora le cose si dovessero mettere male, per ridirigere le domande leggermente, per spiegare meglio un concetto che il giornalista sta vedendo dall'angolazione sbagliata (ovvero non quella del cliente, che sicuramente della sua materia è quello che ne sa di più).
8) Dopo l'intervista, il buon PR contatterà il giornalista per sondare l'umore, capire se scriverà, cosa scriverà, quando pubblicherà. Il PR dovrà tentare di ottenere il pezzo - o almeno almeno i virgolettati - in anticipo, in modo da poter intervenire di nuovo in caso di ripensamenti o crisi di panico post-intervista del cliente, onde evitare urla e disastri dopo la pubblicazione.
9) Finalmente, l'articolo verrà pubblicato. Al junior verrà richiesto di monitorare la stampa in maniera capillare nei giorni immediatamente antecedenti alla sperata pubblicazione, pena la decapitazione immediata. Una volta uscito l'articolo, andrà ben confezionato - impaginato - ed inviato al cliente con una dotta spiegazione sul perché l'articolo è meraviglioso e alza la reputazione del cliente di diversi punti. In questa fase sarà utile utilizzare termini da communication-geek, in modo da confondere un po' il cliente che ha studiato economia e commercio e non ne sa nulla delle teorie di comunicazione di massa.
Nella versione americana, però, non c'è scampo: il valore dell'articolo viene stabilito a priori con un sistema di misurazione precisissimo, che tiene conto di lunghezza, righe dedicate al cliente, tono generale dell'articolo, posizione in pagina, numero di virgolettati e numero di virgolettati che coincidono con i soundbites e i key messages.
10) Voi leggerete l'articolo, ignari del lavoro che c'è dietro. Il cliente, però, regolarmente non sarà contento. Nonostante le spiegazioni infarcite di paroloni, troverà da ridire perchè nella foto sembra troppo vecchio o in una frase si evince il suo essere interista. E' la fase in cui si dice sempre di sì, si sorride molto e poi si fa una mossa di karate una volta messo giù il telefono.
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