Dopo il post pubblicato la scorsa settimana - Cosa fare dopo il Pinot Grigio? – Un po’ di storia (1) -, oggi una riflessione sul presente della vitienologia trentina.
Se i due modelli di sviluppo fra Trentino ed Alto Adige non si fossero così differenziati negli ultimi anni, la conformazione del territorio, la tavolozza varietale, la tipologia dei vini, la mentalità degli operatori e la vicinanza di ricchi mercati per le quantità prodotte non comporterebbero discussione alcuna.
Buona parte del Trentino, invece, sotto la guida del management degli oligopoli ed in mancanza indirizzi diversi da parte dell’ente pubblico, ha scelto la via del Pinot grigio e la sta confermando anche ad inizio 2012. Tutto questo nonostante che da parecchi anni la performance di questa varietà sia stata ridimensionata nella sua redditività, prima dalla svalutazione del dollaro sull’euro, poi dalla concorrenza locale (Cavit-Mezzacorona) e nazionale (competitor veneti che hanno affiancato i trentini nel business) ed ancor più da quella proveniente dagli Stai Uniti che si sono affrancati sul lato produttivo (il 50% del fabbisogno è direttamente prodotto lì).Gli oligopoli hanno talmente condizionato i vitivinicoltori con alte remunerazioni del Pinot grigio che ogni serio ragionamento attorno ad un possibile sviluppo territoriale è stato accantonato. Ovviamente tutti ci auguriamo che il business del Pinot grigio possa continuare ancora a lungo, ma non ci dobbiamo nascondere i pericoli di una polarizzazione attorno ad una o due varietà in un territorio variegato e molto condizionato dalla conformazione orografica come il nostro.
La performance dell’Alto Adige che ha puntato sulla massima qualificazione del ventaglio produttivo coniugando la modernità organolettica con gli stili di vita di consumatori italiani e stranieri quasi sempre ospiti per turismo, si pone come modello ideale anche per il Trentino.Ne deriva che il Trentino dovrà conciliare la sua anima neo-industriale (per definizione senza lacci e laccioli), separandola nettamente da un nuovo e moderno progetto territoriale basato sullo storico ventaglio varietale “integrato”. Gli attori naturali di questo progetto dovranno essere, oltre ai vignaioli che con grande fatica mantengono alto il vessillo dell’immagine trentina residua, soprattutto le cantine sociali di primo grado, ossia quelle radicate nei rispettivi territori.
E’ questa infatti, la sfida dei prossimi mesi: estraniandoci per un momento dalle dinamiche non sempre chiare a tutti del Gruppo Mezzacorona e concentriamoci su Cavit che rappresenta da sola il 60% della vitienologia trentina con le sue 11 cantine associate sparse sul territorio. In oltre 60 anni di storia Cavit, pur passando momenti anche critici, l’azienda di Ravina si è affermata come uno dei più importanti enopoli internazionali con decine di milioni di bottiglie vendute in tutti i continenti. In origine aveva due anime distinte: il Consorzio delle Cantine Sociali per i servizi alle Cantine aderenti e Cavit – Cantina Viticoltori per l’imbottigliamento e la commercializzazione. Da una ventina d’anni, almeno, tale distinzione si è evaporata perché è venuto meno il ruolo del Consorzio, restando Cavit come riferimento delle associate per il ritiro di quantitativi variabili di prodotti conferiti. Una risoluta linea direttiva imposta dalla necessità di mantenere e incrementare le quote sul mercato globale ha di fatto tolto interesse al pur possibile sviluppo della commercializzazione delle singole Cantine: si è così privilegiato un unico brand: quello di Cavit.La crescita della domanda da un lato, la scarsa disponibilità e gli alti prezzi del prodotto trentino dall’altro, hanno ben presto indotto Cavit a rifornirsi nel vicino Veneto soprattutto per il Pinot grigio delle Venezie, cui è seguito più recentemente il Pinot nero dell’Oltrepò pavese, destinati essenzialmente sul mercato americano. La rimuneratività del business ha raggiunto livelli notevoli fino a qualche anno fa, rimanendo interessante anche all’attualità nonostante il cambiamento degli scenari sopra richiamato. Cavit dimostra, infatti, un’efficienza industriale di prim’ordine mantenendo le storiche quote di mercato ed espandendosi in Centro-Nord Europa ed Asia.
Il rovescio della medaglia, al di là dei rapporti non sempre piani con le associate, è rappresentato – come abbiamo visto – dallo svuotamento d’interesse primario per il territorio che ha contagiato nel tempo anche diverse Cantine aderenti. Non si vuole qui sottendere il significativo impegno nella qualificazione dei bianchi e dei rossi specie con la linea “Masi” e con lo spumante classico “Altemasi”, ma il core business è altrove, come altrove appare ormai quello di troppe Cantine associate e dello stesso Gruppo Mezzacorona. Non è certo seria politica territoriale quella che registra un prezzo medio di vendita a meno di 2€/bottiglia rispetto ai 4€ dell’Alto Adige.La comprensibile, ancorché non giustificabile, rincorsa alla redditività – basata su vini extraprovinciali e sul declassamento da DOC a IGT delle partite locali destinate all’export – ha sacrificato in definitiva la performance di un progetto di qualificazione di tipologie che hanno a monte importanti costi di produzione. Nulla ha potuto, nel merito, nemmeno l’imprenditoria privata che registra successi solo per i marchi aziendali più prestigiosi. Per evitare sterili polemiche si evita qui ogni ulteriore confronto con Bolzano e con Verona: ma incontestabile resta il fatto che i nostri vicini hanno perseguito un modello territoriale con minori equivoci. (2/3, continua)