Dopo i due post pubblicati nelle scorse settimane (Cosa fare dopo il Pinot Grigio? – Un po’ di storia – Cosa fare dopo il Pinot Grigio? L’attualità), oggi una riflessione sul futuro della vitienologia trentina.
Quali possibilità?
Dopo l’analisi storica e le considerazioni sulla realtà attuale, non resta che tentare una risposta possibile al quesito posto.
- la riproposizione del ruolo delle Cantine di primo grado in funzione territoriale e
- una chiara definizione del ruolo degli oligopoli, nettamente separando l’attività industriale da quella territoriale.
Il progetto territoriale trentino dovrà coinvolgere per subito anche le porzioni minoritarie per quantità, ma spesso importanti per qualità, espressa dagli operatori privati.
Prioritaria, però, sarà la scelta di ricostituire a monte un Organismo interprofessionale e paritetico fra Cantine Sociali, Commercianti-Industriali ed Aziende agricole vinificatrici (Vignaioli).
Sulla “pariteticità” si è bloccato negli ultimi due anni il processo dialogico, non accettando la cooperazione di perdere la maggioranza attorno al tavolo. Ciò significa che il movimento è ancora legato alle logiche che portarono alla soppressione, nel 2000 e dopo 50 anni di operatività, dell’Istituto Trentino del Vino, nato nel 1949 come Comitato Vitivinicolo.
Fino a che le Cantine Sociali – un insieme di viticoltori – non si capaciteranno all’idea di essere simili ai Vignaioli avendo gli stessi obiettivi e che anche gli altri operatori “privati” sono di fatto coinvolti dagli stessi disciplinari di produzione, nessun piano territoriale potrà mai decollare. Senza dire che l’interprofessione sottende per definizione il rispetto reciproco fra i soggetti liberamente partecipanti all’Organismo: ogni violazione dei principi fondanti lo metterebbe in crisi per abbandono di una parte. E’ questa una garanzia per tutti, a prescindere dalle dimensioni.
Certo, le Cantine di primo grado dovranno prepararsi a rispondere a logiche di un mercato anche diverso da quello globale, riscoprendo l’impegno di commercializzare i loro vini “tipici” in un’area più ristretta, nel raggio di 3-400 km con una concorrenza vivace, ma anche con un consumatore, domestico o turista che sia, più “vicino” alle Dolomiti ed al Garda. In questo scenario le Cantine saranno verosimilmente “obbligate” a selezionare ancor più tra viticoltori, uve e vini, magari etichettando e retribuendo le partite migliori dei soci, discriminando fra professionisti della qualità e altri produttori.
L’importanza dell’interprofessione
Tornando all’interprofessione, la mancanza da 12 anni di un tavolo ove definire assieme gli obiettivi, individuare le strategie ed attuare azioni comuni a tutto il settore vitivinicolo, assicura mano libera agli oligopoli che di fatto, pur auspicando continuamente una progettualità territoriale, vanno in altra direzione essendo obbligate a crescere continuamente nel business e seguire le ferree logiche del mercato globalizzato.
La paralisi del dialogo interprofessionale autorizza ad es. in viticoltura il perpetuarsi della pressoché unica scelta varietale in favore del Pinot grigio (tomba di ogni idea autoctono o vino territoriale) inducendo conseguentemente Cavit a considerare la maggior parte delle Cantine associate come meri centri di raccolta e trasformazione. E obbligandole così a rinunciare ad ogni velleità di affermazione del proprio marchio territoriale ed aziendale, in cambio della garanzia di ritiro totale della loro produzione.
Un certo dialogo su questo tema, in verità, è in corso da qualche stagione, ma decisioni chiare non se ne sono ancora sentite, né risultano giunte pressioni in questo senso da chi pure, a livello centrale, dovrebbe farsene carico.
Due anni fa Cavit respinse il suggerimento del Piano Pedron per una sua trasformazione in SpA coerentemente confermando la scelta del modello cooperativo. Ciò non di meno, le sue dimensioni inducono a chiarire il suo ruolo industriale di fatto separandolo dagli interessi per le politiche di territorio. Tale obiettivo sembrerebbe alla portata con la rifondazione di un Consorzio fra Cantine Sociali al servizio delle moderne esigenze dei primi gradi.
L’analisi della situazione indica come “chiaramente possibili“, traguardi invece difficili da raggiungere in altri contesti, per cui è facile prevedere nel lungo periodo vantaggi non indifferenti e stabilità di remunerazioni per tutto il Trentino. Basti pensare a quanto si potrebbe fare per ridurre i costi in alcune zone collinari con la commassazione o accorpamento dei vigneti, con la loro gestione consortile, con le operazioni di cantina fino alla distribuzione sui mercati. Insomma un modello nuovo di cooperazione in grado di coinvolgere eventualmente anche i privati nel pieno rispetto di quei valori fondanti che oggi, talvolta, sembrano persi.
Conclusione
La lunga disamina di cui sopra è condizione imprescindibile per rispondere positivamente e con i necessari tempi – a livello territoriale – al quesito posto dal titolo.
Ciò significa anche che il singolo viticoltore può oggi scegliere fra il continuare a produrre ad es. Pinot grigio nelle quantità massime acconsentite per alimentare il mercato globale, oppure riconvertire il vigneto scegliendo fra una o più varietà autoctone o internazionali, ovvero fra le ormai molte moderne varietà ottenute da incroci interspecifici resistenti alle fitopatie non meno che ai rigori climatici.
La prima opzione ha il vantaggio di non presentare sorprese, ma il problema di avere verosimilmente già superato il suo culmine di redditività pur non potendo nessuno presagire la durata del ciclo di vita di quel prodotto.
La seconda poggia su considerazioni “altre” o diventate “altre” da quando la sfida alla globalizzazione ha fuorviato – ottimamente remunerando – anche un territorio che purtroppo negli ultimi tre lustri è rimasto al palo.
Nonostante la soddisfazione economica, il Trentino vitivinicolo continua a rappresentare solo l’1,2% del vigneto italiano, una dimensione talmente ridotta che, per affermarsi ed assicurare un futuro ai suoi figli ha tutta la convenienza, passando la contingenza favorevole, di tornare a produrre ciò che Madre Natura ha con grande generosità elargito in fatto di microclimi, terreni vocati e molteplici varietà apprezzate da consumatori che si possono fidelizzare.
Il resto lo ha fatto e lo potrà fare l’uomo con la sapienza e dedizione. (3/3 – Fine)