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Cosa Insegna la Debacle di LinkedIn

Creato il 05 febbraio 2016 da Pedroelrey

Sono stati diffusi i risultati di LinkedIn relativi all’ultimo trimestre 2015 e le previsioni di chiusura dell’anno. Anche se i risultati sotto il profilo economico-finanziario sono stati addirittura superiori alle aspettative il titolo ha perso il 28% in funzione di previsioni per il 2016 tutt’altro che rosee.

Come già emergeva dai dati del report “Trend 2016” di GlobalWebIndex infatti, il rapporto tra iscritti al social network professionale per eccellenza e coloro che sono effettivamente attivi è davvero scarso. Se GWI riportava un rapporto di due ad uno, il dati ex-factory mostrano addirittura un rapporto di quattro ad uno tra iscritti e membri attivi, tracciando un quadro ancor più negativo.

Members LinkedIn

Come mostra il grafico sopra riportato, anche se il numero di iscritti al social network continua a crescere le persone effettivamente attive cala, come conferma anche il calo, altrettanto, delle pagine viste.

Insomma, le persone, credo, immaginano che LinkedIn sia una sorta di piazza virtuale dove affiggere semplicemente il proprio profilo professionale per cogliere delle occasioni e dunque dopo l’iscrizione non lo utilizzano o lo usano davvero poco.

È un fenomeno che, seppur in assenza di dati specifici a supporto, ritengo riguardi anche la stragrande maggioranza delle aziende, dei brand e che sotto questo profilo è vero e valido anche per la presenza corporate sugli altri social. Le imprese si costruiscono una casetta, a volte una tenda altre volte una villa [spero la metafora renda], ma vi restano arroccate al suo interno senza frequentare ed ingaggiare una relazione al di fuori di questa.

La logica è la stessa di chi, come singolo individuo, appone il suo CV su LinkedIn ed attende fortuna. Se non c’è frequentazione, se non esiste una relazione che sia di mutua soddisfazione, se, come molto spesso accade, non vi è, come si suol dire, “conversazione”, viene solo, appunto, piantata una bandierina che spesso resta fine a se stessa.

Certo, per farlo ci vogliono risorse umane ed economiche, ma troppo spesso i brand queste le usano per comprare social ads [o altri format di presenza pubblicitaria tradizionale in Rete], fondamentalmente, al di là di ogni altra possibile considerazione, per assenza di cultura manageriale ed organizzativa.

La debacle di LinkedIn, i cui iscritti rappresentano in buona parte quella fetta di management e professional che dovrebbe guidare il cambiamento ed invece si limita, come detto, ad affiggere il proprio profilo professionale, ci insegna quanto ampio sia ancora il gap da colmare in tal senso. In caso di necessità di conferma andatevi a guardare le pagine LinkedIn, ma anche Facebook, di molte agenzie di comunicazione e/o di PR [o sedicenti tali, ovviamente].


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