Credo di poter dire che il primo genere di letteratura a cui mi sono avvicinato durante la mia infanzia fosse la narrativa sentimentale di consumo prodotta in modo industrializzato dalla Harmony. A quel tempo ero un ragazzino appassionato di illustrazione, e quelle copertine dipinte nella qualità morbida della pittura ad olio che raffiguravano uomini e donne abbandonati in pose d’amore tormentate e struggenti colpivano in special modo la mia fantasia. Qualche volta ho avuto l’ardire di sottrarre uno di quei volumi ai cumuli geometrici che affollavano le stanze di mia madre nella casa di campagna di mia zia in cui trascorrevamo l’estate. Avevo un cugino pressappoco della mia età con cui, in quei pomeriggi afosi e pigri, ci stendevamo sui letti e ci scambiavamo quei libri, alternandoci nel raccontare in sintesi le storie che avevamo appena sfogliato. In quei riassunti fatti a voce alta avevo il vizio e la necessità di inventare parti intere, spesso escogitando finali inverosimili dovuti al fatto che magari mi ero fermato con la lettura a metà della storia. Mi trasformavo così, senza saperlo, in una specie di pittore dell’ipermoderno, in un fautore di quella che nei paesi anglosassoni chiamano “lowbrow”, ossia cultura “popolare”. Che ci piaccia o no, la pubblicità, i cataloghi delle aziende come Postalmarket specializzate nella vendita per corrispondenza, quelle forme d’intrattenimento popolare come i rotocalchi femminili a grande diffusione (penso ai racconti e ai fotoromanzi pubblicati su Grand Hôtel), hanno contribuito non poco alla formazione culturale di almeno un paio di generazioni di autori. Calvino ne La sfida al labirinto sosteneva che “la letteratura deve dare qualcosa di più di una conoscenza dell’epoca o di una mimesi degli aspetti della realtà esterna o interna dell’animo umano. Deve produrre una ‘immagine cosmica’, e non sfuggire comunque all’esigenza di trovare significati storici e dare giudizi morali”. Ecco, io credo che in quella narrativa popolare di consumo, così lontana per molti aspetti dalla realtà oggettiva degli anni in cui veniva prodotta, ci fossero intere parti di quell’“immagine cosmica” a cui alludeva Calvino. La contemporaneità ha completamente rimosso quei mondi sospesi tra le epoche e tra le società in cui si collocavano quelle storie, poiché li ha considerati deteriori e lontani dal morboso realismo a cui oggi non sappiamo più rinunciare. Con questa rimozione collettiva si è persa la capacità di inventare il tempo e lo spazio, di edificare universi inattuali. E credo che sia uno dei più gravi smarrimenti della nostra letteratura contemporanea.
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